A parlare con gli organizzatori, già si pensa all’edizione numero due… e questo significa un po’ di cose, abbastanza importanti – vediamo di capire insieme quali. Stiamo parlando di Greentech, il festival che ha avuto il suo esordio nella cornice del Palazzo dei Congressi a Pisa lo scorso weekend di Pasqua. Come ogni edizione uno, erano più le incognite delle certezze. Incognite su Pisa, che non è Berlino e non è nemmeno Roma o Milano, tanto più nel fine settimana in cui molti degli studenti fuorisede tornano dalle loro famiglie; incognite su una line up, che per certi versi poteva risultare troppo “intelligente” e wannabe-intellettuale per essere numericamente efficace (ok Tobi Neumann, che ha il marchio di garanzia Cocoon addosso, ma Robert Hood, Gold Panda e Tiger&Woods non sono i nomi da “voglio spendere il giusto ottenendo il massimo dei paganti”); incognite sul format stesso dell’evento, che poteva essere troppo ambizioso, inutilmente ambizioso, con la sua voglia di inserire non solo gli act musicali ma tutto un apparato concettuale – e di veri e propri workshop ed incontri – incentrati sui temi dell’innovazione, dell’energia, dell’ecosostenibilità, basandosi sul presupposto che la musica elettronica odierna non sarà (necessariamente) ecosostenbile ma i fattori energia ed innovazione sono da sempre fra i baricentri operativi del suo dna.
Ci credevamo. Chi scrive queste righe – è bene dirlo chiaramente – è stato anche in parte coinvolto nel processo di creazione del festival: liberi quindi di prendere con le dovute cautele quanto leggete in queste righe, lo spirito critico è sempre un’arma sana, se intelligente e ragionata. Ma anche lo spirito più critico del mondo non può che salutare con soddisfazione il fatto che la serata con Gold Panda headliner ha radunato un pubblico assai ampio, dove anche un po’ di eroi locali (vedi Andrea Mi) hanno potuto suonare di fronte a centinaia di persone in warm up e dove nell’arco della serata si sono sentiti anche suoni diversi, vedi il post rock energico dei Platonick Dive; Gold Panda dal canto suo ha ripagato i quasi 800 presenti con un set davvero affilatissimo, trascinante, praticamente da dancefloor ma senza perdere nulla della sua preziosità sognante.
Così come può salutare con soddisfazione il fatto che siano stati almeno un migliaio coloro che sono venuti a pagare tributo a Robert Hood, colui che faceva minimal techno quando la techno era tutto tranne che una moda o una furbata, quanto piuttosto un sogno da visionari (e che oggi è un dj super, due ore serratissime dove oltre a pestare duro ma con classe infila a sorpresa siparietti soul e funk che prima spiazzano e poi esaltano: la classe e la conoscenza della storia della musica black dei maestri…). Ancora di più quelli che nell’ultima serata hanno accompagnato fino all’alba prima Tobi Neumann e poi i misteriosi Tiger&Woods (che poi, quando li vedi dal vivo ti rendi conto che non fanno nulla per fare i misteriosi ma fanno molto per essere bravi, eccome – la loro disco re-editata funziona dal vivo ancora meglio che su disco). Oltre tremila presenza complessive insomma, a cui vanno aggiunte le sorprendentemente molte persone che hanno seguito i workshop pomeridiani, con temi “adulti” e per niente facili legati appunto ad innovazione, politiche energetiche ed ecosostenibilità. Segno che questa parte di festival era messa lì con dietro un lavoro di preparazione e di contenuto serio, non era solo un pretesto appoggiato lì in cartellone tanto per darsi una aria suputa e indossare una foglia di fico.
Poi certo, ad essere coinvolto in un festival non ti limiti solo a giudicare quello che si vede dal lato del pubblico ma apprezzi anche il grande lavoro dei tecnici per dare un buon suono pure al Palazzo dei Congressi (non il luogo con l’acustica più facile del mondo), o la cura dedicata ai visuals con tanto di mapping creato per l’occasione, o i salti mortali di chi ha “salvato” il live di Tiger&Woods dopo che ai due era stato cancellato il volo originario in atterraggio sulla vicina Firenze riprogrammato in un volo che atterrava alle 23 della sera stessa dell’esibizione a quasi 400 chilometri di distanza. O anche il fatto di essere fianco a fianco con Robert Hood, per certi versi una leggenda (leggi UR), scoprendo che lui gira sempre con sua moglie – anche se la moglie in questione non si fa mai vedere alle serate, non ha certo aspetto da clubber e aspetta il marito in albergo, facendolo andare nella venue solo poco prima che inizi il suo set e aspettando che torni in hotel appena il set in questione finisce, altro che “andiamo in villa a farci un after tutti assieme” (ma sia Hood che la moglie in questione sono comunque molto simpatici e disponibili, se si interagisce con loro). Insomma, tutte quelle cose che danno una dimensione umana e artistica al tutto, senza occuparsi solo di quanto hanno sbigliettato i pr e quanto champagne è presente in consolle. In fondo, anche questa è ecosostenibilità. Ci è piaciuta, eccome, e in giro ne vorremmo vedere sempre di più. Anche perché sempre più si sta capendo che la qualità diventa un mezzo efficace per portare a casa i risultati, forse ancora più efficace della mera massimizzazione di numeri e profitti.