Il nome di Greg Wilson magari non è in cima ai cartelloni dei megafestival (almeno, non qui in Italia), ma l’aggettivo più appropriato per definirlo è “leggendario”: in quale altro modo definireste il primo dj della storia a mostrare il mixing alla tv britannica, ormai trent’anni fa, o quello che ha insegnato a Fatboy Slim a scratchare, nell’83? Prima ancora che molti di noi nascessero, lui era già uno dei dj più famosi di una delle culle della club culture internazionale, resident di un autentico tempi del clubbing come l’Hacienda di Manchester quando ancora non esisteva “Madchester”, e prima ancora di un altro cardine della storia del clubbing made in UK, il Wigan Pier: poi, nell’84, la decisione di abbandonare il djing e un conseguente periodo di pausa lungo una buona ventina d’anni, spesi comunque a fare “altro” nel music business, come il produttore e il manager per i Ruthless Rap Assassins. Nel 2003 decide di dare il proprio contributo di esperienze vissute in prima persona alla storia del clubbing, e apre il sito electrofunkroots.co.uk, sul quale scrive dettagliati e interessantissimi articoli sul periodo in cui partecipava attivamente alla scena club inglese, e in seguito anche un blog personale, gregwilson.co.uk, i cui post sono sempre ricchi di spunti di riflessione e di idee per approfondire la conoscenza di un periodo spesso trascurato e della musica in generale. Per quelli che, come chi scrive, sono animati da un desiderio insaziabile di conoscenza musicale, Greg Wilson è manna dal cielo, è un pozzo di sapere quasi senza fondo e al tempo stesso una fonte inesauribile, in grado di offrire contenuti di qualità stratosferica a una frequenza fuori dal comune. E in tutto questo, non abbiamo ancora menzionato i suoi set, costituiti principalmente da re-edit di classici disco-soul-funk o di dischi degli albori della house e costruiti con un gusto e una classe rari: riuscire a stupire continuamente gli ascoltatori suonando dischi conosciutissimi non è da tutti, eppure lui ci riesce quasi sempre.
Cominciamo da qualcosa un po’ inusuale per uno come te che è una specie di compendio vivente della storia della musica: cosa ne pensi della scena elettronica oggi? Ti piace ancora quello che esce attualmente o credi che il momento di massima creatività appartenga ormai al passato, o forse addirittura al futuro?
Penso spesso che ci sia qualcosa che manca in molto di quello che esce adesso – una parte vocale che la gente possa ricordarsi, o qualche altro tipo di hook. Abbastanza spesso capita di sentire una traccia di sottofondo ben fatta ma a cui manca una linea di lead per portarla a un livello superiore. Ci sono, ovviamente, eccezioni alla regola ma in generale credo valga questa osservazione. Questo ha a che fare col fatto che la tecnologia per produrre musica è diventata immediatamente disponibile, il che è ottimo da un lato, perché chiunque con conoscenze di base può mettere assieme una traccia dance nella comodità della propria stanza, e senza le restrizioni finanziarie legate al dover affittare uno studio, come succedeva una volta, ma dall’altro significa che c’è un flusso costante di musica dance prodotta con poca musicalità. Spesso il groove fa il suo mestiere, ma la melodia non risalta.
Parlando del futuro, uno come te con un background ampio quarant’anni è probabilmente in grado di prevedere quello che succederà meglio di noi, quindi dove credi che andranno la scena musicale e la cultura legata al djing e alla musica elettronica, diciamo, nei prossimi cinque anni?
Credo che sia facendo un passo indietro che possiamo riuscire a fare un passo in avanti. E’ per questo che credo che l’album dei Daft Punk, con le collaborazioni di Nile Rodgers e Giorgio Moroder, sia altamente simbolico, perché ha evidenziato come la musicalità e la tecnologia si siano unite per elevare la musica dance in passato, e come invece l’enfasi si sia spostata troppo sull’aspetto tecnologico in tempi più recenti, rendendo la musica dance sotto molti aspetti sbilanciata – troppa testa e non abbastanza cuore. Quindi, è riavvicinando questi due elementi che credo che la musica dance si evolverà in nuove direzioni, con musicisti e cantanti in un ruolo chiave per questa nuova fase, a rendere una nuova generazione di produttori capace di pescare dal passato, ma usando le possibilità che la nuova tecnologia mette a disposizione. E’ solo questione di ristabilire l’equilibrio – non si tratta di cercare di suonare come quello che c’era una volta, ma di rievocare quello spirito in un contesto nuovo.
Dici esplicitamente, nell’headline del tuo blog, che non hai effettivamente scelto di percorrere la via del djing, ma è stata la via che ha scelto te, e che in qualche modo sei sempre stato un dj anche quando non lo eri, per via della tua sconfinata passione per la musica e del tuo desiderio di condividerla (ed entrambe le cose sono molto evidenti sia nei tuoi set che nei tuoi post, direi), quindi una cosa che vorrei approfondire è qualcosa a cui hai accennato spesso nel tuo blog ma che tuttora non è chiarissima: come mai hai deciso di abbandonare il djing a un certo punto della tua carriera, e cosa invece ti ha fatto ritornare?
I motivi per cui ho smesso, nell’84, sono molto diversi e su molti livelli diversi, e sarebbe difficile riassumerli in un paragrafo o giu di lì. Ho scritto un articolo sull’argomento, intitolato “Why Did I Quit?”, che puoi leggere qui. E’ stata la scoperta di internet che mi ha riportato indietro, la realizzazione di quante incomprensioni si fossero ammassate sull’evoluzione della cultura dance nel mio paese. Era chiaro, leggendo i vari forum (e anche alcuni dei libri e degli articoli che sono stati pubblicati), che ben poco era stato compreso della scena black degli anni ’70 e dei primi ’80, e di come questo movimento underground di club nights e all-dayers avesse impostato le fondamenta per tutto ciò che è successo in seguito. E’ stato sulla scia di questo che ho aperto www.electrofunkroots.co.uk, dopo aver pescato in tutto l’archivio di materiale che avevo, fortunatamente, tenuto dal mio primo periodo da dj. Grazie a Electrofunkroots ho iniziato a ricevere offerte da diversi promoters in giro per l’Inghilterra, e le cose sono andate crescendo più o meno da lì.
Il tuo lavoro di archivista e storico è impressionante: grazie a te e gente come Tim Lawrence, Simon Reynolds e Bill Brewster & Frank Broughton, gente che (come me) è troppo giovane per aver vissuto la nascita di quello che oggi chiamiamo “clubbing” è in grado almeno di farsi un’idea di come fosse allora. Pensi che ci possa essere una fine per la tua missione di storico, un giorno, quando la storia della musica dance non avrà più bisogno di essere raccontata perché è diventata *la* storia della nostra cultura? E cosa farai quando (se) succederà?
Le storie sono sempre raccontate da angoli diversi – non c’è mai una storia definitiva, bisogna incrociare i riferimenti e i materiali per arrivare a un punto in cui si pensa che ci sia bisogno di enfatizzare maggiormente. Da diversi punti di vista, la parte della storia su cui io metto l’enfasi è stata piuttosto trascurata per decenni, quindi è una sorta di sfida, cercare di fare in modo che la gente metta da parte ciò che pensavano di sapere e che assimili queste nuove informazioni. Non necessariamente hanno informazioni sbagliate, è solo che ne mancano alcune. Non è possibile arrivare a un’opinione misurata, se non si ha a disposizione una parte così importante della storia. Ci sarà sempre un dibattito quando si parla di storia, perché ci sarà sempre chi aggiunge nuove prospettive a un disegno che continua ad accumulare particolari, quindi penso che la mia sarà una missione senza fine – di certo non vedo una fine all’orizzonte.
Parliamo della tua attività di re-editing: cosa usi oggi per rieditare le tracce? Suppongo che tu non usi più i nastri, le lamette e l’adesivo, oppure sì?
Solo per mettere insieme i nastri che uso quando suono live, che contengono effetti e samples, che aggiungo alle tracce che suono per mettere un po’ di pepe in più. Per quanto riguarda i miei edit, attualmente è tutto nel mondo digitale – la tecnologia mi risparmia molti degli aspetti che mi facevano perdere tempo dell’editing coi nastri.
E visto che parliamo di strumenti per fare musica, pensi che l’evoluzione nella tecnologia musicale abbia guidato la natura della musica prodotta, o che sia stato il contrario, che l’evoluzione nel gusto musicale e nella creatività abbia guidato il progresso tecnologico?
Le due cose sono sempre andate mano nella mano, ma credo che i recenti, sconvolgenti, avanzamenti tecnologici abbiano in qualche modo, rallentato la creatività. Ci sono troppe opzioni disponibili attualmente, il che rallenta l’intero processo produttivo. Se pensi che i Beatles hanno registrato ‘Sgt. Peppers’ usando un registratore a quattro tracce, quando oggi gli artisti, in questo mondo computerizzato in cui abitiamo ora, ne hanno a disposizione senza limiti, puoi capire che la tecnologia non sempre equivale alla creatività. A volte “less is most definitely more”, perché fa in modo che la tua mente debba pensare lateralmente e il risultato è una maggior quantità di idee originali. E’ stato per via di album fortemente innovativi come ‘Sgt. Peppers’ che i tecnici hanno iniziato a produrre macchine che potessero replicare le idee che inserivano nei propri dischi in una maniera più sperimentale e più organica.
Ultimamente sembra esserci una gran riscoperta dei suoni degli anni ’90, soprattutto dal Regno Unito, ma il tuo lavoro di storico (e i tuoi set) si concentrano principalmente su un altro arco di tempo, gli ultimi anni ’70 e i primi ’80: hai in mente di scrivere o produrre qualcosa anche sugli anni ’90, oppure preferisci concentrarti sul periodo che spesso dici essere così importante per la formazione della musica contemporanea?
Per quanto concerne la musica dance, il periodo da metà anni ’70 a metà anni ’80 è la mia area principale di conoscenza – è il periodo in cui sono stato più immerso in questa cultura e per cui posso quindi fare riferimento alla mia esperienza personale, oltre alle informazioni e ai fatti che ho a disposizione. Qualcuno che è stato in attività negli anni ’90 sarebbe la persona migliore per approcciarsi a questa parte della storia.
A proposito, perché pensi (e dici spesso) che questo periodo sia stato così importante e, spesso, poco considerato?
Penso che gli anni post disco / pre-rave siano stati di vitale importanza perché era un periodo ibrido, in cui la musica dance era probabilmente al massimo della sua sperimentazione. Si può rintracciare l’evoluzione dell’hip hop, della house e della techno a partire da lì – è il crocevia dal vecchio al nuovo, il momento in cui ci si allontana dalla precedente dominazione nei club di soul, funk e disco. Con lo sguardo del mainstream puntato altrove, la musica dance ha avuto modo di provare ogni sorta di idea nuova, non ultime quelle relative alle nuove autostrade elettroniche che si erano appena aperte. Era senza dubbio un periodo alchemico, e senza di esso tutto ciò che c’è stato in seguito semplicemente non avrebbe potuto accadere.
English Version:
Greg Wilson’s name may not be headlining huge festivals (at least, not here in Italy), but the most appropriate way to define him is “legendary”: how else would you define the first dj ever to showcase mixing on British TV, thirty years ago, and the one who taught Norman Cook how to scratch? Even before most of us were born, he already was one of the most famous djs in one of the birthplaces of international club culture, resident in a real temple of clubbing as Manchester’s Hacienda when “Manchester” was still yet to come, and before that in another crucial point in the history of UK clubbing, Wigan Pier; then, in ’84, the decision to quit djing and a consequent hiatus lasting a good twenty years, spent doing “something else” in the music business, such as the manager and producer for Ruthless Rap Assassins. In 2003 he decides to give his contribution, made of first-hand experiences, to the history of clubbing, and starts electrofunkroots.co.uk, where he writes very detailed and interesting columns about the period when he took part in the UK club scene, and later a personal blog as well, gregwilson.co.uk, which is always full of ideas and insights to get a deeper knowledge about a time span, late ’70s to early ’80s, often overlooked and about music in general. To people who, like me, have an insatiable desire for music knowledge, Greg Wilson is heaven sent: he is like a bottomless pit of knowledge and at the same time a relentless source, able to offer awesome quality content at an uncommon pace. And in all this, we haven’t even mentioned his sets, built mostly with his own reedits of classic disco-soul-funk tunes or early house records and always put together with a very rare taste: to be able to continuously surprise the listeners even playing very well known tunes is not for everybody, but he almost always succeeds.
Let’s start with something a bit unusual for someone like you who is like a living compendium of music history: what do you think about the electronic music scene today? Do you still enjoy what is coming out nowadays or do you feel like the peak in artistic creativity belongs to the past, or maybe even that it is yet to come?
I often feel that there’s something missing in much of the contemporary stuff – a vocal part that people can latch onto, or another sort of hook. Quite often it’s a case of a good backing track but lacking a lead line to take it to the next level. There are, of course, exceptions to the rule, but this is a general observation. This is to do with music making technology being readily available, which on the one hand is great, because anyone with basic nous can put together a dance track within the comfort of their own room, and without the financial restrictions of having to hire a studio, as was once the case, but, on the other, this means that there’s a constant stream of dance music being made with little musicality. It’s often a case of the groove doing its job, but the melody not coming up to scratch.
Speaking about what is yet to come, someone like you with a background spanning something like four decades is probably able to foresee what will be next better than us, so where do you see the music scene and the culture revolving around djing and electronic music going like, five years from now?
I think it’s by taking a step back that we can move forward. This is why I thought the recent Daft Punk album, with it’s Nile Rodgers and Giorgio Moroder collaborations was highly symbolic, for it illuminated how musicality and technology came together to elevate dance music back in the day, and how the emphasis has been too weighted towards the technilogical aspect during more recent times, making dance music, in many respects, lobsided – too much head and not enough heart. So it’s by bringing these 2 essential elements closer together that I think dance music will evolve new directions, with musicians and singers key to the next phase, enabling a younger generation of dance music producers to draw from the past, but using the contemporary canvas that the new technology allows. It’s all about getting the balance right again – not trying to sound like what went before, but summoning its spirit within a new context.
You explicitly say in your blog’s headline that you didn’t really choose the dj path, but it was the path that chose you, and you somehow have always been a dj even when you weren’t, because of your ruthless passion for music and desire to share (and both traits are very evident in your sets and in your posts, I’d say), so what I’d like to know is something that has been hinted at quite a few times in your blog but I still don’t understand: why did you choose to give up djing at some point, and what made you come back?
The reasons I stopped, back in ’84, are multi-layered and difficult to go into in a paragraph or so. I wrote a piece about it called ‘Why Did I Quit?’, which you can read here. It was my discovery of the internet that brought me back, realizing how much misunderstanding had amassed with regards to how dance culture had evolved in this country. It was clear, from reading the various forums (and also some of the books / articles that had been published), that little was understood about the black scene of the 70’s and early 80’s, and how this underground movement of club nights and All-Dayers had set the foundations for what subsequently happened. It was on the back of this that I set up www.electrofunkroots.co.uk, having trawled through all the archive material I’d, thankfully, kept hold of from my first time around as a dj. It was due to Electrofunkroots that I began to receive offers of dj slots from various promoters up and down the country, and things pretty much snowballed from there.
Your work as an archivist and a historian is remarkable: thanks to you and other people like Tim Lawrence, Simon Reynolds and Bill Brewster & Frank Broughton, people who (like me) are too young to have experienced the birth of what we now call “clubbing” are able to at least get a grasp of what it was like. Do you see an end to your mission as a historian, some day when the story of dance music will no longer need to be told because it has become *the* story of our culture? And what would you do when (if) that happens?
Histories are always told from different angles – there’s never one definitive story, you need to cross-reference the available material to arrive at where you personally feel the main emphasis should lie. In many respects, the side of the story on which I place the emphasis was pretty much obscured for decades, so it’s a case of playing catch up, trying to get people to put aside what they might have believed previously, in order to assimilate this new information. It’s not necessarily that they have wrong information, it’s just that they don’t have all of the information. They’ve been unable to arrive at a measured opinion because a key part of the story hadn’t been made available to them. There’s always going to be debate when it comes to history, with people continually adding new perspective to an ever-accumilating picture, so I’d presume it’ll be an ongoing mission for me – I certainly don’t see any end point on the horizon.
Speaking about your re-edits activity, what do you use nowadays for re-editing tracks? I assume you no longer use reel to reel tapes, razor blades and adhesive, or do you?
Only for putting together the tapes I use in a live context, which are made up of sound effects and samples I’ve recorded, which I spin into the tracks I play to pepper things up a bit. With regards to making my own edits nowadays, it’s all in the digital domain – technology taking out many of the time-consuming aspects of tape editing.
And since we’re talking about the tools used to make music, do you think the evolution in music technology has shaped the nature of the music being produced, or was it vice versa, the evolution in music taste and creativity driving the technological progress?
The two always worked hand in hand, but the mind-boggling advancement of technology in more recent times has, I believe, stifled creativity in some respects. There are too many options available these days, which slows the whole process down. When you think that The Beatles recorded ‘Sgt. Peppers’ on just 4 tracks, when todays recording artists, in this computerized world in which we now reside, have unlimited tracks at their disposal, you can see that technology doesn’t always equate to creativity. Sometimes less is most definitely more, causing your mind to think laterally, and unearthing a greater quantity of original ideas as a result. It was because of hugely innovative albums like ‘Sgt. Peppers’ that the technicians began to make machines that could replicate the type of ideas they were bringing to their recordings in a much more experimental / organic manner.
Lately it seems like there’s been a great rediscovery of sounds coming from the ’90s, especially from the UK, but your historical work (and your sets as well) focuses mostly on another time period (late ’70s – early ’80s): do you plan to write or to produce something about the ’90s as well, or do you feel more like concentrating on the period you often say was crucial for the formation of contemporary music?
With regards to dance music, the mid-70’s–mid-80’s is my main area of expertise – that’s when I was most embroiled with the culture and can draw from my personal experience, as well as the factual information available. Someone who was active throughout the 90’s would be a better person to approach this part of the history.
By the way, why do you think that period was so important and, sometimes, overlooked?
I think the post-disco / pre-rave years were vitally important because it was a hybrid era, where dance music was arguably at its most experimental. You can trace the evolution of hip hop, house and techno from here – it was the crossroads from old to new, moving away from the previous domination of soul, funk and disco within the clubs. With the mainstream glare elsewhere, dance music was able to try out all manner of new ideas, not least with regards to the new electronic avenues that had emerged. It was undoubtedly an alchemic era, and without it everything that followed simply couldn’t have happened.