C’è stato un trittico di eventi, a Milano, che ha polarizzato l’attenzione di un sacco di gente sveglia ed esperta in campo musicale (…influencer? Opinion leader? Qualche altra definizione inglese a cazzo?): il Festival Moderno prima, con Grimes come headliner, e poi la doppietta a San Siro con Rihanna e Beyoncé una dietro l’altra nel giro di pochi giorni. Per certi versi, un invidiabile trittico che ti permette di capire meglio dove stia andando il pop del presente e del futuro: le cifre non sono paragonabili, ma le duemila presenze a Festival Moderno, con una line up coraggiosa, sperimentale e non scontata, volendo valgono quanto i due sold out o quasi allo stadio di due regine della musica black commerciale contemporanea globale. Di sicuro in tutt’e e tre i casi si è ragionato molto su cosa è pop, su quali siano i suoi ultimi sviluppi: in primis, come estetica.
…e come etica? Ecco. Qua siamo un po’ perplessi. “Che palle l’etica, che noia, che fastidio questi discorsi moralisti: la musica bisogna godersela, e stop”: constatazione che sarebbe accettabile, più che accettabile!, ma che tuttavia non accettiamo da chi invece sulla musica si sforza di ragionare, si sforza di interpretarla, si sforza di distinguere storie, background, motivazioni, prospettive. Ci sono diversi livelli di fruizione della musica, e pretendere da tutti di avere il livello di fruizione “alto” è una stronzata narcisistica e presuntuosa. Uno è liberissimo di andare a vedersi Guetta, o Paul Kalkbrenner, o Rihanna, e di divertirsi un sacco. Non è un male. Non è una colpa. Divertirsi o stare bene non lo sarà mai. O meglio: non dovrebbe esserlo mai.
Sì. Perché c’è una cosa che ci lascia perplessi: l’impressione è che molte persone che condannerebbero senza appello chi va a cantare in coro le canzoni di Biagio Antonacci o a contare gli animali con Martin Garrix, reputando tutte queste dozzinalità da “finta musica” e “finta cultura”, non hanno invece battuto ciglio di fronte al musicarello – un po’ “Grease” un po’ “Flashdance” – che è l’attuale live di Grimes; né hanno battuto ciglio di fronte alle grandi parti in playback degli altri set di Festival Moderno oppure dei concerti di Rihanna (a dire il vero un po’ bastonata dai fan, quello sì) e di Beyoncé. Però magari ti bastonano, moralmente, perché ascolti Caribou e Chet Faker invece di robe Tri Angle e Blackest Ever Black, e vai alle serate con Tiga, Groove Armada e Sven invece che a quelle con Powell, Mumdance e Raime.
Insomma: due pesi, due misure. Se il live di Grimes ti è piaciuto – e ti può piacere: è divertente! – allora ti può piacere tranquillamente anche Guetta che alza le mani a CDJ spenti in una delle seimila comparsate che ha fatto durante gli Europei. Non c’è una grandissima differenza di fondo. Mettiamocelo bene in testa, e vediamo di esserne consapevoli. Sono entrambi “spettacoli” (di folla, di idee estetiche, di emozione collettiva); così come sono prima di tutto “spettacoli” quelli di Rihanna e Beyoncé e di mille altri artisti che, oggi come oggi, nel pop stanno privilegiando la componente spettacolare su quella musicale. La musica diventa infatti un ingrediente semi-secondario, un qualcosa da tenere sottofondo o da promemoria per tenere alta la tensione dell’emozione, né più né meno di altri elementi dello spettacolo; il modo in cui una creatura musicale viene eseguita ed interpretata non è più il fattore dirimente della qualità di un concerto – anche perché spesso i brani sono talmente infarciti di parti pre-registrate che, onestamente, è dura avere dei grandi sbalzi qualitativi tra un’esecuzione e l’altra (…insomma: grazie al cazzo che quel brano ti viene sempre bene dal vivo, se una robusta percentuale di esso si basa su elementi pre-registrati).
Questa è la consapevolezza che dobbiamo mettere su, quella della trappola del finire vittima del “due pesi, due misure”. Una consapevolezza che potrebbe anche aiutarci ad erigere meno muri snobistici – popolarissimi tra i vari influencer, opinion leader eccetera eccetera – perché in fondo la musica è (o sarebbe) prima di tutto qualcosa che fa star bene la gente, tutta, indistintamente, e non un mezzo per creare una barriera tra noi-che-siamo-meglio e loro-che-sono-capre. Quest’ultima cosa lo è solo per gli adolescenti, o per chi non ha ancora pienamente superato l’adolescenza anche a venti, trenta, cinquanta, settant’anni.
Ma questo, occhio, non significa che “Va bene tutto, è valido tutto”. Non significa perdere lo spirito critico. Non significa perdere la voglia di schierarsi, e di dichiarare la propria posizione. A un dj set di Guetta o di altre stelle dell’EDM, ormai carichi di parti pre-registrate e pre-selezionate per stare dietro all’apparato scenografico che li circonda, preferiamo chiaramente un dj set di Laurent Garnier, o Theo Parrish, o Motor City Drum Ensemble: troviamo ci sia più lavoro intellettuale, più istinto creativo, un approccio più sincero e viscerale verso il valore della musica e del dna originario del deejaying. Queste le nostre argomentazioni. Vi convincono? Bene. Non vi convincono? Va bene lo stesso; concedeteci però di restare ad esse fedeli, non potete storcere la bocca e dire che “Non capiamo, non ci sappiamo divertire, non cogliamo la bellezza di diecimila persone con le braccia all’aria” – anche il dj è con le braccia all’aria, per inciso – perché in realtà badate bene che capiamo benissimo, apprezziamo pure, ma dovendo scegliere abbiamo scelto di stare su un’altra sponda. E lo rivendichiamo.
Perché delle cose oggettive ci sono, non è tutta opinione. Un dj che usa poco o nulla il mixer non è la stessa cosa di uno che lo usa tantissimo stravolgendo il materiale originale che sta mixando; una band che si concentra sull’intensità e sulla qualità dell’esecuzione vocale e strumentale, e che corre “senza rete” evitando l’uso di parti pre-registrate, beh, non è la stessa cosa del live di Grimes o di Rihanna. Oh: se poi vi vergognate perché il vostro dj preferito fa semi-finta di suonare e pensa più ad agitare le mani in aria, o perché la vostra cantante del momento una la canta e suona davvero e dieci le canta facendosi sostenere da una base pre-registrata, ecco, non è un problema nostro. Non potete piccarvi se vi fa notare l’ovvio, e l’evidente.
Però anche: se voi accettate che dal vivo il vostro dj preferito non suoni e la vostra cantante preferita non canti, allora non dovete venire a romperci i coglioni se noi ascoltiamo le care vecchie cose che non sono di moda, che sono fuori dalla ventata dell’hype, che se ne fregano dell’ossessione urban-chic (una specie di endemica degenerazione un po’ senile un po’ giovanile della cultura hip hop), che sono tagliati fuori dalla grande arteria del pop planetario ma anche da quella del “Famolo strano ad ogni costo così combattiamo il sistema“. Non è che voi siete meglio di noi. Delle vostre giustificazioni meta-culturali sul “recupero del trash”, “citazioni ironiche”, “la bellezza del brutto”, “la profondità del pop più apparentemente superficiale”, “combattere le forme precostituite” ce ne facciamo poco, quando vengono usate non come spiegazione possibile ma come arma contundente per ridicolizzare l’interlocutore; anzi, ci sembrano la cattiva coscienza di chi predica e predica, ma ha una doppia morale e non vuole che gli altri se ne accorgano.
Insomma: i radical chic in musica, anche no – quelli che predicano per la alternatività e la qualità controcorrente più dura e pura ma poi all’improvviso ti spiegano il galateo del pop (magari ci banchettano anche) e anzi si incazzano se resti dubbioso. Già in politica e società sono fastidiosi (e, alla lunga, dannosi); figuriamoci in musica. Anche perché il rumore di fondo loro non aiuta appunto una sana, serena e lucida riflessione sulle cose: quella che ti potrebbe aiutare a distinguere tra i meccanismi dell’industria pop (che intenzionalmente fa merce delle emozioni collettive, e ci specula sopra) e quelli di contesti meno orientati al commercio (ma non per questo refrattari al guadagno); oppure quella che ti potrebbe far capire che se agiti la causa delle scene fieramente indipendenti allora non puoi, con lo stesso entusiasmo, emozionarti per Beyoncé. Cioè, puoi, sì; ma ti infili in una contraddizione con te stesso. E’ normale – siamo tutti contraddittori. Abbiamo tutti i nostri scheletri nell’armadio, o anche fuori dall’armadio. Magari fischiamo Guetta e i suoi fuochi d’artificio, ma ci emozioniamo per i Chemical Brothers e i loro robottini – in entrambi i casi sono live “son et lumière” con ampie parti pre-registate. Se così è, e così è, dobbiamo avere la capacità di spiegare che a Guetta preferiamo i Chemical perché fanno un discorso più interessante di citazioni, riferimenti, ri-lavorazioni e non hanno l’obiettivo esplicito di andare subito in cima alle classifiche nel modo più veloce e potente possibile. Ci sono dei motivi se preferiamo i Chemical, ecco. E ne andiamo orgogliosi. Ma dobbiamo imparare ad accettare la dignità di chi va via di testa per Guetta. Al massimo, facciamo del nostro meglio per convincerlo a cambiare idea e venire sulle nostre posizioni (…lo stesso può fare lui con noi; e poi amici come prima).
Quando uno sa di essere talora in contraddizione, non sempre coerente in modo adamantino, magari impara ad essere più umile. A credersi meno con la verità in tasca. Ma il fatto che la verità non debba stare nella tasca di nessuno non significa tuttavia che non esistano, in assoluto, delle verità fattuali. Il live di Grimes non è la stessa cosa di un dj set di Laurent Garnier. Un dj set di Ingrosso non è la stessa cosa di un live degli Elektro Guzzi. Ci si può però divertire in tutte queste situazioni, si può andare a tutte e stare bene. Poi però, una volta finito di stare bene, se si vuole realmente ragionare sulle cose e non solo sulle e emozioni più superficiali, hype e modaiole, allora la differenza tra realtà e contesti diversi bisogna tenerla bene a mente, non nasconderla sotto il tappeto o fare finta, ad orologeria, che non esista, perché magari se si vedesse non si intonerebbe bene col nostro vestito, il vestito che ci siamo ritagliati addosso lì in quel momento.
Che poi non c’è da annoiarsi, né da restare su posizioni rigide e dogmatiche. Anzi: c’è da allenare la mente e le proprie argomentazioni parecchio, per trovare la posizione in cui ci si riconosce di più e meglio, con la massima onestà verso se stessi. Perché la questione non è solo “Musica suonata live vs. musica mimata e fatta coi computer e le basi pre-registrate”, con teorico plebiscito per la prima (o per la seconda, se vi sentite modernisti e super-giovani): in questo modo si cadrebbe perfettamente nella posizione dei più tromboni, quelli che “…l’elettronica non è vera musica, non è fatta con gli strumenti”, eccetera eccetera eccetera, una discussione che per fortuna è stata superata (o quasi…) già da molto tempo, così come al contrario si cadrebbe in quella dei neo-futuristi un po’ sbrigativi per cui il rock è morto, la musica vecchia è morta, viva solo l’elettronica e/o la ricerca estrema, bla bla bla. E’ che pure lì bisogna capire che ci sono comunque delle differenze di base tra la grammatica dei live e la grammatica del clubbing: il fatto che esse possano influenzarsi, compenetrarsi, fondersi tra loro non significa che per forza le differenze originarie vadano svalutate e dimenticate. Anzi: proprio ricordarsele aiuta a separare meglio il grano dal loglio, capire quali sono le evoluzioni coraggiose e quali invece quelle furbe, quali sono le evoluzioni interessanti e quali invece quelle meramente opportunistiche e/o semplicistiche. In sintesi: anche in un live di techno e house non si suona quasi niente, o comunque pochino, volendo. Ma: 1) i software possono essere usati in modo così raffinato da essere praticamente degli “strumenti suonati” 2) la musica elettronica nasce come musica “aliena” nei timbri e anche nelle strutture rispetto alle altre forme di musica popolare nel ventesimo secolo. Quindi ecco, se prendi un karaoke in un piano bar coi pre-set per le basi e un live di Matthew Dear diciamo che la quantità di lavoro “esecutivo” può essere simile, ma differenze ce ne sono comunque: nella quantità di lavoro intellettivo preliminare, nella qualità dell’output finale del vivo. Ragionamento simile si può fare anche invertendo i termini, ovvero capendo quando interpolazioni pre-registrate e/o elettroniche siano pacchiane o siano furbette in musiche che, di loro, avrebbero un’altra anima e sarebbero ancora più oneste e convincenti se questa anima venisse più rispettata. Esistono – certo – gli ibridi appassionanti, gli esperimenti genetici riusciti (per dire, i Massive Attack di “Mezzanine”: uno dei risultati più alti di sempre di musica pensata strutturalmente come elettronica ma suonata molto con gli strumenti). Ma quelli sono casi rari. Quelli sono capolavori che aprono nuove vie e restano nel tempo. Ne converrete: non è che ne escano sette al mese. Ci sono poi i tentativi: meritori comunque. E’ gente che esplora nuove vie, che cerca di non fare e non ragionare per automatismi scontati. Un po’ ci prende, un po’ no, ma ci prova. Bravi. Ma non basta provarci, per avere l’approvazione entusiastica a prescindere. O no? Perché allora chi mette la cassa in quattro o il cantato melodico nel rap è un genio e un innovatore per definizione; invece, col cazzo. Spesso è il più retrogrado e svenduto.
Dobbiamo però tornare alla domanda originaria, quella di inizio articolo: cos’è il pop? Il pop, beh, è sempre pop. E’ semplificazione. E’ rendere facile, immediato, diluito e digeribile sempre e comunque tutto. E’ questa la sua radice, il suo nucleo, anche quando è altamente spettacolare, anche quando è altamente elaborato, anche quando è fatto da dio (…e la qualità&professionalità con cui viene concepito ed eseguito è anzi un fattore dirimente). Se il pop viene invece solo evocato ironicamente, cazzeggiando un po’, allora siamo in presenza di un gioco. Anche di un bel gioco. Ma come si diceva dei bei giochi? Che sono belli se…
Questo è il ragionamento sull’etica del pop. Bene. Ora potete e possiamo tornare a parlare di luci, cambi d’abito, spettacolarità, di quanto Rihanna sia meglio di Beyoncé o viceversa – in quel colossale gioco di società, in quella colossale discussione da bar che i mass media, prima di tutto su nostra richiesta, c’hanno cucito addosso.