Gue Pequeno è il padrino del rap Italiano. Gue Pequeno è una leggenda vivente. Gue Pequeno non ha più cose interessanti da dire. Come stanno realmente le cose?
Dato di fatto: pochi rapper hanno influenzato la scena rap Italiana come Gue. Lui, insieme a pochi altri, è riuscito a trasportare questo genere dall’underground al mainstream, in un momento non semplice, rendendolo il più seguito in Italia. E, fatto da non sottovalutare, dopo oltre quindici anni dalla sua prima uscita, Gue Pequeno è ancora lì: al top. Ed è proprio su questo concetto, sull’idea di “essere al top” che si muove “Sinatra”, il suo nuovo disco, il quinto della sua carriera solista.
Cosa significa essere al top? Significa essere in cima alla piramide, e fin qui non ci sono dubbi. Ma è opportuno definire meglio la questione: essere in cima vuol dire vendere di più? Vuol dire essere il più influente sulla scena? Vuol dire fare “il disco dell’anno”? Essere il numero uno ha diverse sfaccettature, tutte contestualmente corrette. Perché sarebbe difficilmente credibile qualcuno che si definisce tale senza vendere oppure, altra faccia della medaglia, qualcuno che vende senza essere influente. In virtù di questo ragionamento, si può serenamente dire che Gue Pequeno è al top: vende, ha successo, è influente (il suo flow fa scuola), tutti aspettano ogni sua nuova uscita. Di nuovo: lui e davvero pochi altri possono guardare la scena dall’alto.
Ma questo non è sufficiente, perché “Sinatra” è maledettamente mediocre. Mediocre, attenzione, non significa né brutto né bello, non entusiasmante né pessimo. Mediocre in questo caso significa: fare un lavoro tagliato sulle esigenze del mercato. Tutte le influenze più cool del momento sono state assimilate, e servite in pasto al consumatore che era, appunto, in attesa di un altro lavoro da consumare – e poi dimenticare. Basta osservare la tracklist per capire tutto ciò: “Trap Phone” feat. Capo Plaza, l’ennesima canzone in cui Plaza non riesce ad andare oltre al suo classico ritornello, e ad una strofa semi accettabile; “Borsello” con Sfera Ebbasta e Drefgold, dopo “Sciroppo” e “Tesla” ecco la parte 3; “2%” con Frah Quintale, perché un po’ “indie rap” funziona, e allarga il pubblico; “Bastardi senza gloria” pezzo bellissimo in cui Gue cavalca il grande ritorno di Noyz; le sonorità latine sono il trend del momento (e al Guercio sono sempre piaciute), per cui il pezzo con El Micha e Coscullela è perfetto; i fedelissimi Luchè e Marracash in “Modalità Aereo”, dove Luchè conferma di essere probabilmente il rapper al momento più forte in circolazione; non può mancare lo slot per il pezzo-con-cantante-italiana, quindi ecco Elodie in “Sobrio”; E per finire “Claro”, con due terzi della DPG (potevano mancare, se vuoi coprire tutto l’arco costituzionale delle cose chiacchierate?). Il tutto supervisionato da Charlie Charles, che ha avuto in questo album il ruolo di direttore artistico. In sintesi: in questa lista di tracce si trova tutto quello che negli ultimi tre anni ha funzionato nel rap in Italia. Preciso.
Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che cavalcare un trend non è sbagliato, e che in realtà non ho parlato delle canzoni in sé, ma solo della tracklist. Verissimo. Andando in ordine: seguire un trend. In linea teorica, non sarebbe una cosa sbagliata; ma dipende da come tutto ciò viene proposto. Per esempio Kendrick Lamar fa delle hit stratosferiche in featuring con Rich The Kid, o con Travis Scott, o con Taylor Swift. Seguire una tendenza o piegarsi ad essa sono due cose completamente diverse, in un caso può voler dire tenersi aggiornati, “stare sul pezzo”, in un altro significa farsi assorbire dal nuovo; che non è in toto il caso di Gue, però ecco, non ci va distante. In termini comparativi basta osservare la differenza tra “Sinatra”, “Enemy” di Noyz Narcos e “Potere” di Luchè (e con questo processo comparativo si può anche affrontare il tema dei testi): la gamma di tematiche espresse da Noyz e Luchè è ampia e tocca diversi aspetti degli autori in questione. In Noyz tutto questo si esprime in un disco riflessivo e nostalgico, in cui si guarda indietro e tira le fila di un percorso durato anche per lui 15 anni, e che sembra quasi giunto alla fine; la ricerca di potere è quello che invece muove Luchè, in cerca di riconoscimenti per una carriera leggendaria che non ha mai avuto la considerazione che si meritava (e peraltro la ricerca di tale riconoscimento si rivela poi solo un pretesto per cercare di creare un disco che sia sempre migliore al precedente, in termini di lyrics e di produzioni). In Guè tutto questo manca clamorosamente, in “Sinatra”: non perché non ne sia capace, semplicemente perché non sembra più interessato ad andare oltre a qualcosa che sia la glorificazione di se stesso e di un determinato stile di vita. Le tematiche sono spesso associabili alla grande triade attorno alla quale si muove un certo tipo di immaginario rap: “donne, droga, denaro”. Ok. E’ che non si riesce a scappare da questo triangolo. Anche quando ci sarebbe lo spazio per essere più “conscious” (vedi il pezzo con Frah Quintale), la cosa ha il sapore di plastica: i testi sono poco intensi, sono figli di un autore a cui interessa ormai solo mostrare a tutti che lui è ancora lì, più che comunicare realmente qualcosa.
La reiterazione consapevole del concetto di “essere al top”, di essere in cima, si tramuta insomma in un disco da fast food. Un album che otterrà quasi sicuramente dei riconoscimenti importanti a livello commerciale, ma che non sposta in là l’asticella. Il limbo nel quale si posiziona è quello dei prodotti che si godono il momento, la cui durata è quella di una stagione, prima che arrivi il prossimo fenomeno a scalzarlo dalla classifica. Un po’ poco per il Sinatra del rap Italiano. No?