Per la maggioranza dei DJ del mondo, essere protagonisti di un episodio dell’Essential Mix di BBC Radio One è probabilmente già di per sé un traguardo: potete quindi immaginare cosa dev’essere vincere il premio di “Essential Mix Of The Year” per una ragazza australiana affacciatasi al DJing e alla club culture da un tempo relativamente breve.
È quello che è successo a HAAi, che fino a tre anni fa non era nemmeno nel radar dei più esperti conoscitori delle nicchie del clubbing e prima ancora suonava la chitarra in un gruppo shoegaze, e che forse proprio per questo ha un approccio assolutamente nuovo e fresco al DJing, fatto di influenze raccolte ai quattro angoli del globo e di una passione per la ricerca e la scoperta di musica nuova davvero rara: abbiamo avuto modo di parlare con lei non solo della sua fulminea scalata al successo ma anche di un sacco di altri argomenti, e quello che ne è emerso è una personalità estremamente interessante e un punto di vista tutt’altro che banale.
In poche parole, un’artista da tenere d’occhio.
Vorrei partire, ovviamente, dall’inizio, visto che uno dei punti più interessanti della tua storia è che non sei sempre stata legata al DJing, alla club culture e a questa scena, ma hai una storia molto importante precedente a tutto questo, quindi, ti va di raccontarci com’è iniziata?
Beh, l’inizio…è che sono una musicista, prima di tutto, ed è stato così che sono entrata in contatto con la scena dei club e il DJing: mi sono trasferita a Londra dall’Australia sette anni e mezzo fa con la band con cui suonavo, suonavo la chitarra e tanti altri strumenti in un gruppo shoegaze. Quando poi l’esperienza col gruppo è finita, beh, collezionavo musica turca, africana e di molti altri posti del mondo già da tempo, e c’era questo posto a Londra in cui andavo spesso a cui ho chiesto se potevo mettere un po’ di musica ogni tanto. È iniziato come una volta al mese, di martedì ed è cresciuto in maniera molto organica da lì, e lo stesso è successo a me, visto che era un ottimo pretesto per continuare a comprare dischi sempre diversi. Fin lì si trattava, banalmente, di mettere il disco giusto al momento giusto, poi sono entrata in contatto con questa persona che seguiva già il management di artisti piuttosto grandi e a cui piaceva quello che suonavo, per cui mi ha invitato a suonare a uno dei suoi party, e come si suol dire, il resto è storia.
Ma senti, e prima ancora? Cioè, cos’è che ha reso una chitarrista australiana appassionata di musica turca? Perdonami, ma non è esattamente una cosa comune.
Beh, in realtà la musica che facevo col mio gruppo prendeva molta ispirazione dal psych rock dell’Anatolia e da cose del genere, per cui ho ascoltato un sacco di musica dei posti più disparati del mondo, per anni e anni, tipo lo psych indonesiano degli anni ’70 credo sia stato un’influenza enorme per la nostra musica, che già di per se comunque cercava di essere molto psichedelica. Quindi è stato così che ho iniziato ad appassionarmi a quel tipo di sound. Poi sai, soprattutto con le cose turche, quello che adoro è il modo in cui usano le voci. Per cui, nonostante fosse qualcosa che esisteva già da un’altra parte del mondo, l’idea del mio gruppo era fondamentalmente di darne la nostra interpretazione, di crearne la nostra versione.
Che in effetti, detta così, è un’idea estremamente interessante.
Beh, poi sai, c’è anche da tenere conto che comunque questo tipo di musica non era qualcosa che si sentisse molto nelle scene e nei posti in cui giravamo di solito, come ad esempio la scena shoegaze londinese, per cui anche quello ha costituito un fattore importante nell’attirarci verso questo tipo di suoni.
Tra l’altro, il concetto più in generale di prendere della musica nata da tutt’altra parte del mondo e darne una propria interpretazione è qualcosa che sembra essere sempre più comune ultimamente, e c’è un dibattito sempre più acceso, che personalmente trovo interessante, su dove stia il confine tra “dare una propria interpretazione di qualcosa” e quello che in gergo si definisce “appropriazione culturale”. Tu dove pensi sia questa linea?
Beh, quello che dici è esattamente il concetto stesso di originalità, no? Per esempio, nel nostro caso, la musica a cui ci ispiravamo non era la classica musica tradizionale turca, anche se aveva un suono marcatamente turco, e in ogni caso gli ascoltatori sono in grado di rendersi conto se ti stai ispirando a qualcosa e ci stai comunque aggiungendo qualcosa di tuo oppure se lo stai copiando platealmente. Almeno, per me la distinzione è davvero netta e facile da percepire e mi capita spesso di sentire tracce che riprendono elementi di altre produzioni o di altre culture in maniera troppo diretta, ma capisco che possa essere anche una cosa soggettiva che dipende dal background di chi ascolta.
Sicuro, però credo che il punto sia esattamente quello che dici tu, l’originalità.
Esatto, e credo che in fondo essere originali sia il modo più onesto e sincero di fare musica, anche se magari sei motivato, o ispirato, da qualche canzone che adori.
Che tra l’altro in fondo è inevitabile, alla fine ogni musicista ha degli artisti che ama e che sono una fonte di ispirazione; anche i musicisti, dopotutto, ascoltano musica.
Certamente! È una specie di circolo virtuoso, qualunque musicista ha le proprie influenze a cui cerca di aggiungere del suo e magari, un giorno, influenzare altri musicisti.
Parlando di influenze, peraltro, uno degli argomenti di cui mi piace sempre parlare con i musicisti è quali siano le loro primissime influenze, quello che ascoltavano da bambini, perché ho notato che spesso si riflette nella musica che producono poi da adulti.
Oddio, è sicuramente qualcosa di imbarazzante! Sai, sono cresciuta in una piccola cittadina rurale dell’Australia, e la musica non era certo in cima ai miei pensieri quando ero piccola. La mia famiglia ascoltava fondamentalmente quello che c’era nelle chart, per esempio adoravano Billy Joel e il rock classico, niente che adesso potrebbe essere considerato anche solo vagamente “cool” o qualcosa del genere; quando andava bene ed ero fortunata potevano essere i Fleetwood Mac, ma in genere era in sostanza quello che passava per le chart. Poi è vero, ora che mi ci fai pensare c’era spesso della musica in casa e questo forse ha avuto un peso nella mia formazione perché mi capitava spesso di cantare, o di ascoltare con attenzione, ma di certo non era musica “cool”, o di nicchia in nessun modo.
E poi allora com’è successo che hai iniziato a interessarti alla musica?
Credo sia stato più o meno durante gli anni delle superiori, dell’adolescenza, mi sono comprata una chitarra e ho iniziato a sentire un sacco di folk, in effetti, mi interessava un sacco tutto l’aspetto del songwriting, poi c’è stato il periodo del grunge, di cui io ho vissuto solo la parte finale, poi sai, essendo cresciuta in Australia anche Nick Cave and The Bad Seeds sono stati importanti per me, il che poi mi ha portato a interessarmi a tutto il giro del punk e poi del post-punk. Però per riassumere credo che il periodo delle superiori sia stato quello in cui ho davvero iniziato a interessarmi alla musica oltre che il più formativo per me, perché è stato un periodo in cui ero circondata davvero da tanta gente che si interessava di musica.
Tra l’altro, sentendoti raccontare il tuo percorso formativo musicale, viene facilissimo collegarci a un altro argomento di cui volevo parlare con te, ossia il fatto che ultimamente nella scena del clubbing e del DJing sembrano esserci molti artisti di spicco che arrivano da percorsi che col clubbing e il DJing non hanno assolutamente niente a che fare, che è un po’ in contrasto con l’idea, diciamo, “tradizionale” del DJ che è un DJ perché è nato DJ, non ha mai fatto altro in tutta la sua vita e si è sempre occupato di house, techno o simili. Tu, anche alla luce del percorso che mi hai appena raccontato, sei un ottimo esempio di artista che si approccia al DJing da una prospettiva completamente diversa.
Sì, anche se devo dirti che ho davvero molto rispetto per chi si specializza in un tipo di musica per tutta la vita, e che ci dedica tutta una carriera, rispetto enormemente la quantità di sapere di cui sono depositari e anzi, li considero un po’ come dei portabandiera di un genere. Poi, non so, forse è perché è quello che è successo a me, ma io trovo assolutamente naturale intraprendere un percorso musicale che parte dal folk e arriva alla techno, o alla jungle. Quello che trovo davvero interessante nel fatto che adesso ci siano diversi artisti con un background simile al mio, o comunque non necessariamente legato alla house o alla techno, è una certa forma di naivetè che ci portiamo dietro, un approccio tutto sommato più fresco, in qualche modo slegato alle tradizioni. Credo sia positivo avere entrambi i tipi di artisti, quelli che tengono alta la bandiera e quelli che invece portano un approccio diverso. Poi sai, quando ho iniziato ad avere un po’ più di seguito ricordo che ero davvero nervosa perché non avevo una lunga storia di techno alle spalle; mi faceva piacere l’idea di avere un approccio nuovo, lo trovavo stimolante, ma al tempo stesso mi chiedevo “e se qualcuno mi fa una domanda, che ne so, sugli Underground Resistance a cui non so rispondere?”, in un certo senso mi sentivo sotto esame. Poi però ho capito che se mantieni un approccio onesto e sincero alla musica, chiunque sia un vero appassionato non può che accorgersene e apprezzarlo.
Che in un certo senso si lega di nuovo al tema dell’originalità, nel senso che se riesci ad avere una voce che sia la tua, indipendentemente dal background con cui l’hai costruita, è qualcosa che si sente.
Esatto, sono d’accordissimo, se sei una persona che ama davvero la musica e che quindi cerca di scoprirne sempre di nuova, in fondo gli altri appassionati di musica, anche quelli appassionati di un genere solo, riescono a rendersi conto che in fondo è la stessa passione che ci muove. Alla fine, come DJ, abbiamo tutti lo stesso obiettivo, lo stesso scopo, indipendentemente dal viaggio che facciamo per raggiungerlo.
Parlando del momento in cui hai iniziato ad avere più successo, tra l’altro, non posso fare a meno di chiederti come sia cambiata la tua vita dopo aver vinto il premio di “Essential Mix Of The Year”.
Se devo essere davvero onesta, è una notizia ancora relativamente recente e forse non l’ho ancora metabolizzata del tutto! Ho il trofeo qui su uno scaffale, ce l’ho davanti agli occhi proprio in questo momento, e ogni tanto mi capita che mi ci cada l’occhio e mi venga quella sensazione di eccitazione e di adrenalina. Poi certo, sicuramente ha aiutato la mia carriera e la sta aiutando, sono molto più impegnata ora e ho la sensazione che molte più persone prestino attenzione a quello che faccio. E poi, un aspetto assolutamente positivo di questo premio è che adesso ci sono tantissimi produttori che mi mandano tracce nuove, mi ha aperto un sacco di canali per entrare in contatto con musica nuova ed è qualcosa che mi fa tantissimo piacere. Tra l’altro, un paio di settimane dopo aver vinto il premio mi è capitato di suonare in Lituania, ed era un posto in cui volevo suonare da tanto ma non ci ero mai stata ed ero convinta che nessuno lì mi avesse mai nemmeno sentita nominare; invece, arrivo al club ed era pieno, e c’era un sacco di gente che mi chiedeva dell’Essential Mix, è stato incredibile! Però, riassumendo, l’aspetto principale di aver vinto il premio è che ha reso il mio anno molto più impegnato.
Tra l’altro, a proposito del fatto che adesso ricevi molta più musica nuova e che prima mi dicevi che sei sempre alla ricerca di nuove scoperte musicali, come fai a stare al passo con tutto? Voglio dire, al di là del ritmo con cui escono cose nuove ogni giorno, c’è anche un oceano sconfinato di musica già uscita da scoprire.
Ah sì, assolutamente, c’è davvero tantissima musica da ascoltare, e proprio oggi stavo pensando che probabilmente mi serve un indirizzo email separato solo per ricevere tutti i promo e le tracce che mi mandano! È qualcosa che spesso ti dà la sensazione di essere impossibile da gestire, però cerco comunque di tenere da parte del tempo tutti i giorni, o almeno tutte le settimane, solo per sentire musica nuova. Poi sai, tanta differenza, quando hai a disposizione una quantità di materiale del genere, la fa anche il modo in cui l’hai ricevuto: nel mio caso, ad esempio, delle tracce che sono state mandate a me personalmente attirano la mia attenzione molto di più di un promo generico e mi fanno venire molta più voglia di rispondere a chi me le ha mandate, o almeno di dare un feedback. In ogni caso, non sono per natura una persona particolarmente organizzata, per cui sto cercando di trovare un modo di gestire tutto quanto, ma non ci sono neanche lontanamente vicina! Credo comunque che la ricerca musicale sia una parte fondamentale del “lavoro” di un DJ.
Il che, in un certo senso, ci porta all’argomento successivo di cui volevo parlarti, cioè la durata dei set: tu sei famosa per preferire i set piuttosto lunghi, oltre le quattro ore, ma immagino che ultimamente ti capiti sempre più spesso di suonare magari a festival grandi in cui gli slot non sono di più di due ore. Che tipo di contesto preferisci, e come approcci un set più breve?
Beh, in generale preferisco sempre i set più lunghi, sempre. Però hai ragione, mi capita sempre più spesso di suonare a festival in cui il massimo che riesci a ottenere sono due ore e mezza, che per un festival è già un set molto lungo, visto che molte volte tutto quello che hai è un’ora e niente di più. Il motivo per cui preferisco i set più lunghi è che credo che il mio approccio sia, in un certo senso, molto rilassato, preferisco costruire il viaggio dei miei set più lentamente piuttosto che cercare una botta di adrenalina immediata. Se un giorno sarò così fortunata da riuscire ad arrivare a un punto della mia carriera in cui avrò più voce in capitolo sulla lunghezza dei miei set, cercherò sempre di avere modo di fare set più lunghi, di almeno tre ore. Ho suonato per più o meno qualunque durata tra le tre e le dieci ore, e credo sia quello il contesto in cui riesco a esprimermi al meglio.
A proposito di approcci più rilassati e “easy” a un set, tra l’altro, hai anche una storia piuttosto lunga come DJ radiofonica oltre che nei club: hai suonato su Rinse, ora hai uno spazio su Worldwide.fm…in cosa diresti che è diverso suonare in radio piuttosto che in un club? A parte il fatto che, ovviamente, non hai una pista davanti a te.
Sì, la differenza principale è che non sai mai se ad ascoltarti c’è una persona sola o migliaia, non hai modo di saperlo. Poi credo che un grosso vantaggio di suonare in radio sia avere la possibilità di fare un intero showcase di un artista, o di un’etichetta, dare loro tutto lo spazio che si meritano, anche solo a una traccia, che puoi suonare dall’inizio alla fine, e avere la possibilità di presentarli nella loro interezza a un pubblico che magari non li conosce, mentre in un club è più facile che appena mi viene in mente una traccia interessante la suoni immediatamente, magari levando spazio a quella che sta suonando in quel momento. Poi in radio c’è anche la possibilità di dare agli ascoltatori un po’ di informazioni in più sulle tracce, il che è un’altra differenza sostanziale.
In sostanza, in radio sei in grado di dare un po’ più di contesto attorno alle tracce che suoni, di spiegare perché le trovi interessanti, mentre in un club le suoni e basta.
Esattamente! A proposito, a breve avvierò una residency anche su Radio One e non vedo l’ora! Manterrò il mio programma su Worldwide.fm, dove continuerò a dare spazio a suoni da tutto il mondo e a tracce nuove, mentre su Radio One il piano è di suonare qualcosa di più simile a quello che suono nei club, ma sempre in un’ottica molto orientata agli appassionati di musica e a quelli che vogliono saperne di più sulle tracce che suono, anche se sarà qualcosa di più vicino a un mixato che a un “classico” programma radiofonico. In ogni caso, sono entusiasta all’idea di poter suonare delle tracce un po’ strane sulla radio nazionale!
A proposito di tracce strane, credo sia in parte legato al discorso che facevamo prima, ma io che seguo la scena clubbing da un po’ ho la sensazione che ci sia sempre più musica che si potrebbe definire “strana”, che esca dai canoni del genere, dallo stereotipo di quello che ti aspetteresti di sentire su un dancefloor, e per me è una cosa assolutamente positiva: hai la stessa sensazione?
Sono assolutamente d’accordo, e anzi sono contenta che tu me l’abbia chiesto, perché è un tema su cui rifletto spesso, e mi capita a volte di chiedermi se è il mio gusto che mi spinge a suonare tracce di questo tipo, oppure è effettivamente la musica dance che sta diventando più strana in generale. Ti faccio un esempio, pensa all’album di Objekt che è uscito alla fine dell’anno scorso: lui è uno dei miei DJ preferiti, è un gran produttore, e credo che il suo album sia un autentico capolavoro, ma se lo fai ascoltare a qualcuno completamente digiuno di musica dance credo ci sia veramente tanto da digerire, non è assolutamente un disco “facile” o immediato. Credo sia fantastico che ci siano musicisti come lui che fanno musica basata sullo studio delle frequenze e sugli effetti emotivi che possono creare: un altro, per farti un esempio, che mi piace un sacco e che va nella stessa direzione è Skee Mask, che è un altro che ha stampato un album fantastico di recente, è davvero intelligente, ha un sacco di soluzioni interessanti. In generale, comunque, credo sia fantastico avere così tanta varietà, anche nel caso di persone come, non so, Mall Grab, che è un altro che fa cose super interessanti anche se più legate al dancefloor.
È interessante quello che dici, perché spesso parlando di questo argomento c’è chi dice che vista la presenza di tracce così diverse e così, in un certo senso, “strane”, allora house e techno così come le conosciamo starebbero sostanzialmente morendo, ma in realtà, almeno nel mio caso, quello che mi ha fatto appassionare a house e techno era proprio la totale mancanza di regole e schemi codificati che ti dicessero come dovevano suonare i dischi.
Assolutamente! Anzi, credo che siamo in un momento di grandi sperimentazioni adesso, ed è una cosa che non può farmi piacere, ci sono davvero tante persone che fanno cose che non si erano mai sentite prima, un altro che mi viene in mente è Bruce, che sia come produttore che come DJ cerca sempre di proporre qualcosa di nuovo, credo davvero sia un momento entusiasmante in quel senso.
Tra l’altro è curioso che gli artisti che mi hai citato adesso siano sostanzialmente tutti inglesi, il che è tutto sommato comprensibile visto che ormai sei in Inghilterra da un sacco, ma allora mi viene da chiederti: hai ancora un legame con l’Australia?
Certo che sì, ho un sacco di amici là, ci sono anche stata di recente a suonare, e ho un sacco di amici DJ, o che hanno etichette, con cui mi tengo in contatto e mi confronto costantemente.
Te lo chiedo anche perché l’Australia di recente è finita sui giornali del settore per via della nuova policy sui festival che, diciamo, non è particolarmente permissiva.
Sì, è sostanzialmente la fase successiva di una politica che sta prendendo piede già da un po’, so che ci sono un sacco di petizioni e di persone che si stanno mobilitando in merito, al momento, e lo condivido, perché è assolutamente una politica che non mi piace, ma vedremo cosa succederà. In effetti, proprio una mio cara amica che organizza party in Australia da anni e più di una volta ha visto le proprie serate chiuse dalla polizia ha fondamentalmente abbandonato il DJing e il clubbing per dedicarsi interamente alla politica e darsi da fare attivamente per contrastare questo tipo di regolamentazione, è una cosa a cui si dedica senza sosta ormai da anni ed è fantastico sapere che ci sia qualcuno che si spende così tanto per la scena. In realtà poi anche in Australia c’è tanta varietà in questo senso, per esempio Sydney ha delle leggi molto più permissive in materia, e di recente i club hanno iniziato a introdurre la possibilità di controllare le pastiglie prima di prenderle per essere sicuri che non contengano niente di troppo pericoloso, che mi sembra un approccio molto più costruttivo che chiudere i festival, incarcerare gli organizzatori e multarli per centinaia di migliaia di dollari.
Tra l’altro, rispetto a questa cosa che dici, la sensazione che ho nell’ultimo paio d’anni o giù di lì è che andare a ballare, o comunque il clubbing in generale, stia sempre di più tornando a essere un atto politico, penso ad esempio a quello che è successo in Georgia, o a crew come le Discwoman, per cui il contenuto non è soltanto la musica che si propone ma c’è anche un messaggio più profondo, con un valore politico, non si tratta solo di passare una serata fuori a divertirsi.
Sì, e credo sia un’ottima cosa, voglio dire, la musica dance, la house in particolare, sono sempre state un fenomeno anche politico, ma d’altro canto credo sia anche normale che in scene molto grandi, penso ad esempio a quella dei rave qui in Inghilterra, ci siano persone che sono molto coinvolte dal punto di vista politico e molto al corrente di quello che significa partecipare a una serata, e anche persone a cui interessa semplicemente andare a un party molto grosso e divertirsi, credo sia giusto avere la possibilità di scegliere e credo che la nostra generazione sia in una posizione molto fortunata a poter fare scelte di questo tipo. Nel mio caso, ad esempio, io credo sia estremamente importante e positivo che la comunità della musica dance abbia una voce politica.
Senti, cambiamo completamente argomento invece, parliamo di Coconut Beats, che è il nome sia dei party che organizzi che della tua etichetta: mi racconti un po’ di cosa si tratta, cosa si può aspettare uno che viene a un party, com’è nata l’etichetta?
È iniziato tutto fondamentalmente quando ho iniziato a mettere i dischi in giro, e l’idea iniziale era avere un posto dove potessi suonare le cose più assurde che avevo, sai tipo dei beat africani completamente sbilenchi o cose di quel tipo, e l’idea era di avere delle serate più o meno a tema, in modo che chi veniva sapesse più o meno a cosa andava incontro, e poi dopo che ho avviato la mia residency al Phonox il progetto è cresciuto fino a diventare qualcosa di molto più grande di quanto avessi in mente inizialmente, che era sostanzialmente un party con qualche amico in cui celebrare e dare spazio ai miei artisti preferiti. Poi è venuta l’etichetta, su cui anche se ho in mente di rilasciare musica di altri produttori in futuro per ora resta fondamentalmente una piattaforma su cui pubblicare le mie tracce; sicuramente in futuro ho intenzione di rilasciare anche tracce di altri, ma visto che il mio ultimo anno e mezzo è stato davvero molto impegnato diciamo che questo progetto è stato messo leggermente da parte al momento.
Senti, io ho toccato più o meno tutti gli argomenti che avevo in mente, per cui mi resta solo una cosa da chiederti: immagino che ultimamente tu faccia un sacco di interviste, per cui sono curioso, c’è qualcosa che non ti chiede mai nessuno e di cui invece ti interessa parlare?
Questa è in effetti un’ottima domanda! È interessante che tu me l’abbia chiesto, perché in effetti sto scrivendo un articolo, o un saggio, se così possiamo chiamarlo, per una rivista musicale americana, su un argomento che ho sempre cercato di evitare nelle interviste, che sono le persone che su Internet trollano i DJ inondandoli di commenti negativi e avvelenando l’atmosfera delle discussioni; è un argomento difficile da analizzare perché davvero si rischia sempre di finire in una spirale di negatività che non porta a niente, e la mia idea era proprio quella di cercare di portare un punto di vista più positivo sul tema e cercare un modo di condurre le conversazioni che renda tutti un po’ più sereni.
È un argomento interessantissimo, e credo anch’io che anche se è impossibile far sparire del tutto i commenti negativi o denigratori da Internet e anche se sono quelli che tendono ad avere più risonanza, l’unico modo per ridimensionarli sia cercare di aggiungere quanto più contenuto positivo e costruttivo possibile alle discussioni, in modo da ridurre il peso dei commenti dei troll. Mi piace pensare che sia quello che abbiamo fatto noi nell’ultima mezz’ora.
Sì, in sostanza sì! E un’altra cosa che penso aiuti tantissimo sia cercare di “umanizzare” il più possibile le discussioni, cercare cioè di ricordarsi sempre e comunque che anche se non le si vede in faccia in quel momento, le persone con cui si sta discutendo online sono, appunto, sempre persone, sia i troll che le persone trollate, con la propria vita quotidiana e i propri problemi. Cercare di rendere questo aspetto più evidente probabilmente sarebbe già un ottimo risultato, in fondo abbiamo tutti lo stesso obiettivo e la stessa passione, che è la musica, poi è perfettamente ok che non ci si ami personalmente l’un l’altro, ma in fondo abbiamo una passione comune e questo ci unisce già molto.