Per una volta il giudizio al festival lo diamo all’inizio dell’articolo ponendoci tre domande: “Ti è piaciuto l’Heart Of Noise?” Sí. “Ti sei divertito all’Heart Of Noise?” Con difficoltà. “Hai trovato cose interessanti per i lettori di Soundwall?” Sí, ma con difficoltà.
Alla luce delle risposte appena fornite, verrebbe fuori un giudizio non del tutto positivo e nemmeno troppo rotondo e completo per fare una citazione. Per arrivarci, al giudizio vero, vanno fatti dei distinguo e bisogna porsi almeno un’altra domanda: cosa intendiamo per festival?
Se per festival intendiamo un’alternativa al club giocata in spazi larghi ma con le stesse regole, con birra a 4 euro, panino con la porchetta e limonata in programma, allora no, l’Heart Of Noise sarà l’inferno dantesco. Se per festival intendiamo una tre giorni con il meglio della musica elettronica sotto il caldo iberico, da vivere in serenità con amici e colleghi, allora no, L’Heart Of Noise non sarà propriamente il luogo giusto. Se invece riusciamo ad associare alla parola festival una full immersion di cultura e intelletto, verso suoni stilisticamente importanti, dove fare i “Ricciardoni” nell’ambito di un contesto da Azionismo viennese, con un alto tasso di poserismo e un altissimo tasso di intransigente interesse verso la parola sperimentazione, allora siete finiti nel posto giusto per voi.
Non citiamo a caso l’Azionismo viennese, né lo inseriamo per darci un tono o per vicinanza geografica alla location del festival. Lo accenniamo perché, citando testualmente: “non risultò essere un vero e proprio movimento, in quanto privo di un manifesto e di poetica omogenea e unitaria, nonostante ciò si mostrò come un punto di incontro necessario, tra individui dal bisogno di espressione del disagio e della metastasi esistenziale“. Che ci crediate o no, in assunzione totalmente metaforica, questa definizione è quella che meglio sposa la tre giorni austriaca a cui abbiamo assistito, senza arrivare alle estremità di Schwarzkogler e Otto Mühl.
Tre giorni in una scatola di balocchi come la nuovissima Haus Der Musik di Innsbruck, un gioiello di architettura dall’acustica superiore che ci ha lasciato sbalorditi per perfezione e qualità del suono. Un piccolo palco fuori dalla stessa, in una via di passaggio, aperto a tutti, dove, anche qui credeteci, abbiamo visto transitare un pout pourri di persone in un range dai quindici ai sessant’anni che lentamente si è mischiato ad uno zoccolo granitico di irriducibili: hipster, bio vegan barricadieri, capelli bianchi jeans neri e maglia dei Sun o))) dei primi demo, artisti, neo artisti e tantissimi troppi poser dell’ultimo minuto pronti ad ondeggiamenti trascendentali a colpi di selfie.
Poi: il rooftop di un hotel da cui godere viste magnifiche, che per una volta e in maniera del tutto usuale, ha ospitato rumorismi in sax e station loop e abrasioni tali da farci pensare che in fin dei conti Holly Herndon non sia altro che una Mauro Repetto dell’elettronica.
(rooftop musicali mica male; continua sotto)
Questo e molto altro in una line up estrema, radicale e oltranzista, che prevedeva rarissimi trait d’union con il claim della manifestazione di quest anno: un Don’t Stop The Dance che la domenica sera mentre Gabber Eleganza faceva forsennatamente saltare un buon gruppo di irriducibili, ci è sembrato il sogghigno malefico di un qualche spirito di montagna particolarmente cattivo.
Eppure? Eppure il tutto funzionava perfettamente, anche se con qualche colpo di noia. La noia però ha spesso una connotazione specifica, perché travisa la paura di uscire dal proprio stato di comfort, la paura di voler avventurarsi in nuove scoperte e nuove avventure abbandonandosi ad esse, disarmati.
Ecco allora che in questi tre giorni scopriamo una splendida artista come Maria W Horn che ha portato live le suggestioni di un disco magnifico, colonna sonora del rientro e dei giorni a seguire, come “Kontrapoetik”; scopriamo un live che è un diluvio di colore, linee e rumori come quello di Drew Mc Dowall & Florence; ci gongoliamo nella certezza di aver parlato in tempi non sospetti di un artista entusiasmante come Andrea Belfi.
Abbiamo anche conferme su quanto i Dengue Dengue Dengue siano uno dei nomi più interessanti dell’elettronica mondiale; rilanciamo un nome semi sconosciuto nella nostra quotidianità come quello di Dj Raph colonna portante dell’elettronica Keniana, con un dj set che è un pò l’emblema di ciò che abbiamo visto: i primi 25 minuti il nostro, fa una fatica tremenda nel catturare l’attenzione del pubblico che ignora completamente un set troppo sereno, solare e alla portata di tutti, ed è solo il cambio liturgico verso un suono carico di oscurità, sciamanesimo e spiritualismo che risveglia l’attenzione di tutti.
(Dj Raph in azione; continua sotto)
Stessa sensazione avuta con Bamba Pana & Makaveli, per noi vera avanguardia del dancefloor 2019 e praticamente ignorati dalla sala, ad ennesima conferma di quanto questa rassegna aspramente rivendichi il suo voler esser cupa, oscura e densa di un significato astratto, significato che rifiuta il “right to party” beastieboysiano” per una raw silenziosa a colpi di bretzel, birra e meditazione (forse più poseristica che trascendentale).
(la sala durante Bamba Pana & Makaveli; continua sotto)
In fin dei conti, lo ribadiamo, funziona: funziona perché sono nicchie e le nicchie vanno preservate e salvaguardate in ogni modo, dato che sono unica resistenza ad una forma di decadenza che sta decimando non a caso i club e che diverte spesso solo con superficialità. Ci preoccupa tuttavia il voler essere nicchia per forza, il non voler dare ampi segnali di apertura, il volersi sopra elevare verso un gradino d’intelletto più alto del normale, che rischia di guardare troppe volte verso il basso con aria di superiorità, stabilendo di fatto una nuova classe sociale e una forbice tra chi, secondo alcuni, è eletto verso alcune forme: d’arte, di politica ( è lo stesso gioco di molta della nostra sinistra che ci ha devastato e ci ha regalato ciò che siamo ora), di suono, musica, in un contrasto con il popolo del popolare (…e non quello del populista) che andrebbe indirizzato, sì, ma affrontandolo ed accompagnandolo a mani aperte, e non col pugno chiuso.