Innsbruck, per certi versi, è esattamente l’ultima cittadina al mondo dove ti aspetteresti di trovare un festival di musica elettronica sperimentale: sonnolenta meta turistica (raccoglie tutto il bacino di utenza del Veneto e della Lombardia, dati i pochi chilometri che ci separano), capoluogo del Tirolo, antico centro urbano coronato da verdissime montagne, è il classico posto che sembra non offrire molto di più che passeggiate, un po’ di shopping, e un panino con lo speck. E invece.
Heart Of Noise è un festival piccolo e relativamente giovane – ha compiuto cinque anni – ma sa chi è e cosa vuole. Il suo claim, quest’anno, è POP LIFE. Che c’entra il “pop”, direte voi, dando un occhio a quella che è stata la sua line up? Quello che per qualcuno è noise, per altri è pop… E in effetti, tra le fila degli entusiasti ed eclettici spettatori – una varietà di campionario umano impressionante, dai giovani techno-oriented ai trentenni bio, fino alle coppie di attempati signori e alle famiglie con bambini, tutti lì imperterriti dall’inizio alla fine, senza un attimo di cedimento – il pop e il noise mutavano trasfigurandosi uno nell’altro, ad nelle danze scatenate tra i colpi di tamburi di Islam Chipsy & E.E.K., trio cairota che trasforma la torre della Treibhaus (la venue principale) in una festa mediorientale, con un’elettronica suonata dal retrogusto di deserti, cammelli e celebrazioni nuziali nella Medina.
Tutt’altri sound invece per Nadah El Shazly, Ola Saad e Bosaina, le altre tre egiziane in cartellone che si esibiscono l’una dopo l’altra in una uggiosa domenica pomeriggio nel Musikpavillion dell’Hofgarten, meraviglioso e idilliaco parco prossimo al corso del fiume Inn, il tutto davanti ad avventori del festival, passanti curiosi e ignari vecchietti che giocano a scacchi. Particolarmente interessante la Saad, dall’aspetto di una normalissima donna velata. Nasce come artista visiva, ma qui la troviamo impegnata in un live set ambient ricco di field recordings e droni, in forte stridore con la natura circostante. Bosaina, membro del collettivo Kairo is Koming, attrice, cantante, autrice, producer e chi più ne ha più ne metta, è una forza della natura, e presenta quello che potrebbe essere stato lo show più bello e di impatto dell’intero festival. Di bianco vestita, mette in scena la sua caduta verso la pazzia, circondata da una ventina di uomini (del pubblico, presi a caso al momento) con vesti da chirurgo che la guardano impassibili senza saper bene quale sia il loro ruolo – e proprio per questo non potrebbero interpretare meglio le figure che sono chiamati ad interpretare, spettatori inerti della tragedia che si consuma davanti ai loro occhi. Pièce de théâtre più che concerto, Bosaina canta la sua denuncia in un modo così convincente da smuovere le budella anche agli animi meno sensibili.
Tornando a monte – e qui è proprio il caso di dirlo, vista l’incombente natura circostante – il venerdì mette sul tavolo tre delle carte più alte del festival, il tris composto da: Psychic TV, storica band dalla vita travagliata, attiva più o meno da tanti anni quanti chi vi scrive è presente a questo mondo, in un live che non lascia indifferenti ma non lascia nemmeno realmente il segno; Amnesia Scanner, i due berlinesi che si definiscono “xperience designers” qualsiasi cosa questo voglia dire, elettronici ma organici, alieni e alienanti, senza dubbio disegnano una esperienza sonora futuristica e primordiale allo stesso tempo; Damien Dubrovnik – non lasciatevi ingannare dal nome, sono in due, il Loke Rahbek (a.k.a. Croatian Amor) e il Christian Stadsgaard padroni di casa Posh Isolation – freschi di release di “Great Many Arrow”, un album che ambisce a catturare l’intensità del loro live crudo, intenso e industriale, uno show di forte impatto sonoro e visivo, con Loke come frontman a esternare una immensa energia con movenze rockabilly e un look da indie-rock band della metà degli anni duemila.
Del sabato ricordiamo con piacere il pomeriggio sul tetto al tredicesimo piano dell’hotel Adlers, dove vediamo esibirsi artisti locali in quello che è forse, architettonicamente, il punto più alto di tutta la città. Ci piace poi tornare con la memoria al primo act della serata, in cui emerge tutta l’esperienza di una delle figure più carismatiche per un certo tipo di elettronica ambient ma densa, William Basinski, che presenta in questa occasione “A Shadow In Time”, performance dedicata a David Bowie (che ha lasciato a quanto pare un’enorme vuoto nella vita dell’artista). Una menzione speciale merita Sote, artista di Teheran che mescola crudi paesaggi sonori industriali con rave techno, noise e cassa dritta, risvegliando la sala dal sopore dei viaggi ambientali.
Della seconda parte della serata resta invece impresso l’avant-garde-art-pop della norvegese Jenny Hval, di cui seguiamo una metamorfosi ricca di “props” di scena, da parrucche a strane sciarpe-intestini pelouchosi, e la guardiamo spogliarsi di se stessa mettendo in atto la più spettacolare performance con un telo da imbianchino mai vista su un palco.
Il festival si chiude dapprima a spasso nella foresta di Gas, alias di Wolfgang Voigt boss della Kompakt insieme a Michael Mayer, per cui l’artista dice aver preso ispirazione dalle esperienze giovanili con l’LSD nelle foreste intorno a Colonia. Noi ci vogliamo credere, nel viaggio che intraprendiamo insieme a lui tra aceri, conifere e betulle che trasfigurano e si fondono con Wagner, Bruckner, Mahler, dub, pop e techno, nello sforzo creativo volto a rendere percezione l’intento teorico del progetto Gas ossia, come dice Voigt, “…bring the forest to the disco, or vice-versa”.
Infine, ultimo solo nel running order, Monolake: ovvero la techno come atto dal vivo e come interfaccia uomo-macchina, anche se fra i due, quando si parla di Robert Henke, non si capisce dove cominci uno e finisca l’altro. Con “Monolake Surrounds” mostra l’altra faccia della techno, con bassi, percussioni, onde soniche, droni e beats, un’escursione in mondi paralleli dove, se si può osare dirlo, finalmente si può ballare – atto liberatorio, alla fine di un’esperienza come quella di Heart Of Noise. Con lui è ora di spegnere i riflettori e tirare le somme: forse non sarà un festival nella declinazione più grandiosa e trionfale del termine, ma senza dubbio è una manifestazione sentita, partecipata, seguita ed acclamata, dove emerge la cura nella produzione, dove si respira un’aria famigliare, dove chi lo fa e chi ne fruisce si mescolano gli uni agli altri abbattendo le classiche barriere artista-spettatore. Insomma, Heart Of Noise è un po’ come sentirsi a casa.