Tra due giorni c’è una piccola epifania, per tutti i veri appassionati di hip hop in Italia: in una strepitosa giornata ad AMA Music Festival, il 24 agosto 2023, arrivano per una data unica italiana i Cypress Hill per il tour che celebra il trentennale di “Black Sunday”, probabilmente il loro disco-capolavoro. In line up, anche Dj Double S – da metà anni ’90 uno dei migliori dj e turntablist hip hop italiani – e i Colle Der Fomento rafforzati dalla presenza dell’immenso Kaos e del bravissimo Dj Craim. In poche parole: impossibile trovare di meglio, se si è veramente appassionati di hip hop e non solo turisti modaioli della faccenda. Qui le prevendite. È stata comunque un’estate contrassegnata dal rap e dall’hip hop, visto che se ne è celebrato il cinquantennale: il sottoscritto è stato chiamato anche da Rolling Stone Italia a preparare una lista dei 10 dischi fondamentali del genere negli anni ’80 e dieci per il decennio successivo. Quando scrivi su una testata così importante, giocoforza devi dare la precedenza a criteri oggettivi rispetto a quelli soggettivi. Quando però l’amico Emiliano Colasanti ha tirato fuori una (bellissima!) classifica molto personale dei suoi favoriti del genere, mi sono detto: al diavolo, voglio fare anche io una cosa molto, molto, molto personale. D’altro canto, l’incontro con la musica e la cultura hip hop ha davvero cambiato la mia vita. E visto che di “Black Sunday” – uno dei dischi fondamentali che la vita me l’ha cambiata, anche se alla fine nei due elenchi rollingstoniani i Cipressi non c’erano – si festeggia il trentennale, 30 sono i dischi da mettere in elenco.
***
Whodini, “Escape”, 1984
Può uno restare folgorato a undici anni da un pezzo musicale, sentendoci il presente, il futuro, il fascino metropolitano, l’ansia da contemporaneità tanto felice quanto inquietante e la voglia di scoprire il mondo? Inspiegabilmente, la risposta è: sì. E nel caso del sottoscritto, si chiama “The Freaks Come Out At Night”, il singolo di punta di questo “Escape” – dietro a cui c’è anche la mano di Larry Smith, già fiancheggiatore dei Run DMC – creato dagli Whodini, gente che si faceva produrre l’album d’esordio, un anno prima, da Conny Plank. Tutte cose che non sapevo; ma quando ho comprato questo vinile in un negozio di Belgrado – sì, pesantissima stampa jugoslava in vinile, un discobolo più che un disco – sapevo fortissimamente che lo volevo.
***
Herbie Hancock, “Future Shock”, 1983
Cronologicamente è uscito prima rispetto ad “Escape”, ma nei miei ascolti ed acquisti è arrivato subito dopo: ecco perché derogo alla regola cronologica che, invece, tengo costante nel resto di questa lista. Era la quadratura del cerchio, “Future Shock”: grazie a mio padre infatti, che mi ha educato al jazz fin da quando avevo sei anni, Herbie Hancock era una divinità, e vedere che pure lui si immergeva in questa musica aliena che si nutriva di electro e affondava le radici nella New York primi anni ’80 più urbana era un’epifania, perchè pure a lui evidentemente interessava quello che interessava parecchio a me. “Rockit” ancora oggi non ha perso un’oncia di funk. E fra i credits di questo lavoro di annida l’intellighentsia della “nuova” musica della Grande Mela. Altro che stanchi e prevedibili canoni jazz.
***
Trouble Funk, “Say What – Live In London”, 1986
Ok, non è propriamente hip hop, è la strepitosa go go di Washington; ma qua si rappa e – comunque – se parliamo di funk urbanizzato e “di strada” qui i crismi ci sono tutti, quindi in questo elenco ‘sto album ci sta a pennello. A farla breve: questo è per me il disco live più bello di tutti i tempi, oggi come ieri il giudizio non cambia di una virgola. Sì. E non aver mai visto i Trouble Funk dal vivo resta ancora oggi il più grande rimpianto della mia vita. Ascoltandolo, e “calandosi” nell’atmosfera, dovrebbe essere chiaro anche a voi il perché.
***
Public Enemy, “It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back”
Nella mia lista anni ’80 redatta per Rolling Stone ho scelto di mettere il suo predecessore dell’anno precedente, “Yo! Bum Rush The Rush Show”, per pagare il giusto tributo all’esordio e al potere detonante e di rottura dei Public Enemy”; ma effettivamente la vera maturità musicale l’hanno raggiunta qui, con questo disco. Nota a margine: la traccia che mi piace di meno è quella più iconica (“Don’t Believe The Hype”), mentre amore totale ancora oggi per le parti più urticanti (“She Watch Channel Zero”, “Terminator X To The Edge Of Panic” e, ovviamente, “Bring The Noise”).
***
De La Soul, “3 Feet High And Rising”, 1989
Milioni di cose sono state scritte su questo disco. Beh: leggetele tutte. Qui dico solo che che “Say No Go” e “Me Myself And I” mi fecero andare giù di testa, proprio a pelle, e tutti i (giusti!) discorsi sulla genialità di Prince Paul e sul liricismo innovativo dei De La li recuperai qualche anno più tardi.
***
A Tribe Called Quest, “The Low End Theory”, 1991
Degli ATCQ vorrei e dovrei citare ogni singolo disco. Hip hop con un flavour di swing e contrabbassi saporitissimi acustici, impreziositi da un’eleganza nei tocchi d’arrangiamento che è semplicemente sublime. Così come sublime – scorrevolissimo, “tecnico” ma mai banale – è il rap. Che meraviglia. Certi dischi invecchiano. Quelli degli A Tribe Called Quest, no. Mai. Sarà mica un caso.
***
Brand New Heavies, “Heavy Rhyme Experience vol. 1”, 1992
Prendi un gruppo acid jazz famosino nel circolino – un pugno di adepti – di un certo tipo di Londra (Jason Kay per i suoi Jamiroquai prese in prestito dagli Heavies ad esempio Simon Bartholomew alla chitarra, in origine, ed anzi erano i BNH il gruppo senior nella faccenda). Famosino, ma niente di che. Però talmente assetati di musica, di confronto, di novità che riescono a farsi mandare in America grazie alla joint venture con la label Delicious Vynil, con carta bianca per collaborare con gli MC che più li intrigavano. Attenzione: non i più famosi, quelli che più li intrigavano. Il risultato? Sfiziosissimo! E di competenza suprema. Ecco ad esempio gli strepitosi Pharcyde con la versione originale di “Soul Flower”. Funk + rap al massimo grado: efficace ancora oggi, e si sottovaluta che all’epoca – un una fase in cui imperava il new jack swing plasticoso – un disco così crudo e diretto era visto come una follia, come un autogol commerciale molto inutilmente retrò. Invece, come il buon vino, ogni anno che passa risulta sempre più saporito.
***
Assalti Frontali, “Terra di nessuno”, 1992
Il primo album di rap in italiano. E basterebbe questo. Ma ciò che non si sottolinea mai abbastanza è la forza poetica di Militant A: quanto fosse cioè avanti come metrica, idee ed intenzioni rispetto a chi scimmiottava gli americani (magari rappando pure ancora in inglese); e non si sottolinea mai abbastanza nemmeno la fortissime innovazioni musicali presenti in questo LP. Certo: acerbe, abbozzate, non sempre ben sviluppate, ogni tanto mal registrate, ma questo disco a livello di soluzioni e prospettive era anni luce avanti a quasi qualsiasi altra cosa fosse uscita, nella forma del formato lungo, in Italia nel 1992.
***
Pharcyde, “Bizarre Ride II The Pharcyde”, 1992
Un album semplicemente ge-nia-le. Punto. Per quanto mi riguarda, la più alta vetta creativa e stilistica mai raggiunta dall’hip hop e dal rap come inventiva. Altri dischi sono stati altrettanto grandi e magari più “quadrati”, più “monumentali”, ma questo album è sotto molti punti di vista uno scintillante upgrade di “3 Feet High And Rising”. Cioè, capito? Peccato che lo sappiano ancora in (troppo) pochi.
***
Dj Gruff, “Rapadopa”, 1993
Sì, i Sangue Misto, “SXM”, chiaro, il disco di rap italiano più bello di tutti i tempi (e lo è ancora); ma visto che questo è un elenco molto soggettivo, confesso che originariamente la “Radopoa” mi “arrivò” e mi affascinò molto di più. Più vario musicalmente, più innovativo, più multicolorato, e con la capacità di fare una strepitosa mappatura del rap italiano di quegli anni, un magma ancora sotterraneo, misterioso, acerbo, ma pieno di talento. Dj Gruff già qui dimostrava poi il suo grande paradosso: nonostante i suoi proclami di purismo hip hop, che per tutti gli anni ’90 e parte dei 2000 erano integralismo talebano senza sconti, ha una mente ed un’anima musicale a trecentosessanta gradi – altro che purismo, insomma. E già nel 1993 si dimostrava che lui era il vero, autentico genio dell’hip hop italiano. Sregolatezze e contraddizioni comprese, ovviamente.
***
Freestyle Fellowship, “Innercity Griots”, 1993
Un gradino sotto a “Bizarre Ride II The Pharcyde”. Ma giusto un gradino, eh.
***
Cypress Hill, “Black Sunday”, 1993
La cosa bizzarra, in un’era ricordiamocelo pre internet, è che i Cypress Hill li ho scoperto grazie a chi non vi aspettereste mai: Gilles Peterson. Da ferocissimo appassionato di acid jazz quale ero, le parole di Gilles erano Verbo per me già trent’anni fa: leggere in non mi ricordo quale magazine che consigliava ‘sto gruppo mai sentito prima mi faceva subito scattare parecchi campanelli d’allarme in testa – e subito dopo, un viaggetto verso il più affidabile negozio di dischi della città. Il primo acquisto fu l’esordio, datato 1991, che mi piacque, sì, mi piacqua eccome. Tant’è che a ruota comprai, pochi mesi dopo, “Black Sunday”: e riconobbi subito quanto cazzo fosse un capolavoro di piglio, estetica, originalità, personalità. Qualità arrivate al 2023 intatte.
***
Greg Osby, “3-D Lifestyles”, 1993
Sì: la mia utopia nei primi anni ’90 era combinare il jazz col rap. Ma non solo sotto forma di dischi rap che citano il jazz (per quanto questa cosa mi fosse benvenutissima, vedi l’amore per ATCQ e Gang Starr), ma speravo che fossero i jazzisti – i musicisti insomma con un background ed una carriera jazz – ad accorgersi dell’hip hop. Accadde. Per una breve stagione, ma accadde. E non solo con l’ultimo album di Miles, appaltato musicalmente al producer Easy Mo Bee, no. Tanti citano in tal senso il progetto del Marsalis “buono”, Branford, Buckshot LeFonque”; qualcuno certi esperimenti di Steve Coleman; per me il vertice è invece questo spigolosissimo ma “diretto” album di Greg Osby.
***
Nas, “Illmatic”, 1994
1994: all’improvviso appare un poco più che maggiorenne che dà sedici piste a tutti come rap, in ogni singola strofa del suo disco d’esordio. E con l’aiuto del grande, grandissimo Pete Rock crea su un sample di Ahmad Jamal quella che è la mia traccia rap preferita di tutti i tempi, ancora oggi: “The World Is Yours”. Non che “NY State Of Mind” con Premier alle produzioni sia molto da meno. Che roba. Che artista.
***
Organized Konfusion, “Stress: The Extinction Agenda”, 1994
La versione East – quindi feroce, cattiva, cupa – di “Bizarre Ride II The Pharcyde”. Disco monumentale, “Stress”. E, al tempo stesso, geniale ed originalissimo. Probabilmente il mio album preferito di sempre in campo hip hop. Quello che amo di più. Quello che ancora oggi mi fa impazzire di più. Sì: più di qualsiasi grande classico.
***
Sangue Misto, “SXM”, 1994
Come non metterlo in questo elenco… Mi autodenuncio, tra l’altro: ci misi un paio di settimane a capirlo. All’inizio mi sembrò sì stiloso ma un po’ troppo autoreferenziale e monotono. Va da sé: non avevo capito un cazzo.
***
Beastie Boys, “Ill Communication”, 1994
Riguardatevi quello che scrivevo poco più sopra per A Tribe Called Quest: vale più o meno lo stesso per i Beastie Boys, che di loro ci mettevano anche – qua a là – le schitarrate punkettone e un tocco ulteriore di follia ed imprevedibilità exotica. “Ill Communication” lo amo alla follia ancora oggi, e trovo sia il loro disco migliore.
***
Lou X, “A volte ritorno”, 1995
La fiamma accesa dai primi due album degli Assalti Frontali – bellissimo ancorché sofferto nella lavorazione infatti pure il secondo oltre a quello già citato, un raro, geniale e riuscitissimo esempio di rap + post rock – l’ha tenuta in alto Lou X. “Dal basso”, il suo esordio, era crudo ed imperfetto (ma in alcuni momenti strepitoso); “A volte ritorno”, la micidiale maturità.
***
The Mighty Bop, “La Vague Sensorielle”, 1995
Sì Bristol, sì i Massive Attack (che amo), i Portishead (idem); ma il trip hop più bello – pardon: l’hip hop strumentale più scuro, stiloso ed affascinante – lo hanno fatto i francesi. Col senno di poi, è quasi incredibile come Christophe Le Friant – contitolare con Alain Ho della sigla The Mighty Bop – sia passato a Raffaella Carrà (me ne raccontò con apprezzabile sincerità i motivi qui). Ma questo disco, architettato anche col contributo di La Funk Mob (i Cassius prima che diventassero Cassius) ed EJM, è di una bellezza che ogni volta mi dà le vertigini. Ogni singola maledetta volta. E le altre produzioni di tutto quel giro lì non erano molto da meno. Per me il vero French Touch era qui, lo ammetto.
***
Dj Cam, “Underground Vibes”, 1995
L’altro grande, grandissimo Sacro Graal dell’hip hop strumentale francese: disco che mi accompagnerà ora e per sempre (…e il suo pezzo iconico, “Dieu Reconnaitra Les Siens”, campiona uno svolazzo vocale di Lady Kier dei Deee-Lite, altro gruppo che mi ha cambiato la vita).
***
Dj Shadow, “Endtroducing”, 1996
Il disco di musica sperimentale che probabilmente ha venduto di più negli ultimi trent’anni. Come mai? Perché è talmente bello che può arrivare – ed è arrivato – a tutti. Almeno: a tutti quelli che amano e masticano la musica. Al tempo stesso, è un disco profondamente hip hop. 100% hip hop. Anche se i riferimenti messi in campo – e il pubblico che li ha apprezzati – andavano in una dimensione molto ma molto più vasta, col risultato che dal nocciolo duro della scena hip hop stessa (sia italiana che internazionale) “Endtroducing” non venne mai realmente ascoltato, capito, adottato. Fosse successo, fosse cioè entrato nel patrimonio storico dei custodi più intransigenti della scena, oggi se ne parlerebbe di più, con più continuità e con più rispetto. Resta un lavoro immenso. Immenso.
***
Lootpack, “Soundpieces: Da Antidote”, 1999
Già in “Endtroducing” c’era una traccia che si intitolava “Why Hip Hop Sucks In 1996” (…nel brano, la risposta: “It’s The Money!”). Accidenti se ero d’accordo. La verità è che mi ero legato molto al trip hop / hip hop strumentale di matrice europea perché ciò che arrivava dall’America mi sembrava, dalla seconda metà degli anni ’90, insomma da Biggie in poi, sempre più formulaico, prevedibile, scontato, paraculo. Molto “charty”, poco sexy. Insomma: ero in scazzo con l’hip hop americano, di brutto. Il primo momento in cui la lampadina della passione pura tornò ad accendersi fu con questo strepitoso disco di tre tizi californiani. Ah: uno dei tre è Madlib. Sentite “Anthem” che roba.
***
Pooglia Tribe, “La Pooglia Tribe”, 2000
A dire il vero, pure l’hip hop italiano a fine anni ’90 mi pareva avvitato su una spirale di prevedibilità e cieco rispetto del canone. Certo, ogni tanto potevano nascere anche da questo dischi fortissimi (Colle, Melma & Merda con Kaos, Sean e Deda, il sottovalutatissimo “Democrazia del microfono” di Piotta, Cor Veleno); ma il grande paradosso è che furono proprio gli allora disprezzatissimi dai duri&puri Articolo 31 a produrre, coi loro soldi, i lavori migliori: l’ottimo, ottimo, ottimo album de La Famiglia “41° Parallelo” (1998), e quello che – mi scuseranno “SXM”, “Rapadopa” e “Terra di nessuno” – è l’album di hip hop italiano che ho amato ed ammirato di più. Oggi colpevolmente ignorato, l’LP targato Pooglia Tribe (una all star della scena pugliese hip hop di quegli anni) è una meraviglia di stile, misura, eleganza, inventiva. Il primo singolo, “Cime di rap”, fu in realtà un grandissimo successo di airplay radiofonico, ma catalogò tutta l’operazione nel folder della “one hit wonder”, della divertente hit estiva, quando in realtà c’era molto ma molto di più. Che disco, signori miei, che disco. Recuperatelo.
***
Forss, “Soulhack”, 2003
…però sì: dal nuovo millennio in poi l’hip hop nella maggior parte dei casi non mi dava più le scintille di meraviglia che aveva preso a offrirmi con la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quasi ad ogni uscita. La sorpresa e l’incanto scattavano più di rado, molto più di rado. Scattava con dischi che non erano definiti hip hop, anche se in realtà secondo me lo erano al 100% per attitudine e modalità produttive: vale per i fenomenali esordi di Prefuse 73, citati giustamente da Emiliano Colasanti nel suo listone “personale”, ma vale ancora di più per questo album di un oscuro producer svedese, Forss. Genio puro. Purissimo. Pazzesco. Come mai poi non ha più sentito parlare nessuno? Perché invece di insistere con la carriera musicale, è stato distratto da altro. Tipo: co-fondare SoundCloud. Eh già.
***
Colossus, “West Oaktown”, 2005
Le mie antenne erano conficcate in California, in quegli anni per me “oscuri” in quanto ad apprezzamento medio per l’hip hop. In una California sotterranea, alternativa, completamente incompatibile con le classifiche ma fuori anche dai radar – almeno in quel momento – del pubblico di appassionati di musica più trasversale, avveduto e hipsteroso: quello per intenderci che poi ha consacrato Flying Lotus. FlyLo che proprio dall’hip hop “evoluto” californiano arriva, in un continuum che parte da Shadow e Cut Chemist (anzi: direi dai Pharcyde e da quello che gli girava attorno) e che col contributo del nipotino di Coltrane ha preso una deriva “spaziale” e psichedelica, che ha conquistato tutti ed espanso i confini. Ma nel frattempo, ci si sono persi album fantastici: tipo questo di quel personaggio assurdo che è Charlie Tate, producer/polistrumentista inglese che ad un certo punto si è trasferito armi e bagagli in California (avendo collaborato con gente come Roy Ayers e Gil Scott-Heron). “West Oaktown” è, per me, uno dei dischi più sottovalutati nella storia dell’umanità. Perché non se lo ricorderà praticamente nessuno, a partire da voi che state leggendo, ma accidenti quanto è bello, accidenti quanta classe.
***
Die Antwoord, “Ten$ion”, 2012
C’è stato Eminem, certo; c’è stato già Kanye; ci sono state molte cose significative col nuovo millennio, infantile ed ingiusto negarlo; ma prima che l’hip hop – come attitudine e modus operandi, non tanto come canone – tornasse a farmi saltare sulla sedia e a farmi dire “Ma questa che cazzo di roba è”, ho dovuto aspettare il 2012 e l’emersione anche dalle nostre parti di questa assurda declinazione sudafricana della cultura rappusa in chiave tamarro / afrofuturista. Ninja l’MC peraltro resta una persone più piacevoli e cortesi abbia mai conosciuto in venticinque anni che incontro in modo regolare artisti e musicisti: questo, giù dal palco. Nei camerini, nel backstage. Su sul palco, vi assicuro che soprattutto le prime volte faceva veramente prendere un cazzo di spavento per quanto era adrenalinico, rabbioso, inquietante. Che impatto.
***
Bad Copy, “Krigle”, 2013
Nuovo millennio inoltrato. L’hip hop americano più in voga e chiacchierato mi piaceva insomma sempre meno, quello italiano mi piaciucchiava sì ma senza che mai scattasse la scintilla definitiva; se però qualcuno prendeva in mano le regole dell’hip hop anni ’90 più duro e puro (no ritornelli, no cassa dritta) e le declinava con un flow da paura, magari manco in americano, e mettendo nei testi non scimmiottamenti ma liriche legatissime alla vita ed allo spirito locale, allora era amore. Vabbé: guardatevi questo video e ditemi se avevo ed ho torto. Una delle cose più belle che vi capiterà di vedere e, per inciso, una traccia hip hop della madonna, diventata hit duratura in Serbia e in tutti i Balcani. Esi mi dobaaaar…
***
Dj Rashad, “Double Cup”, 2013
Sgombrando il campo dagli equivoci: per chi scrive, la footwork è una faccenda – attitudinalmente – 100% hip hop. Hip hop nel senso più old school del termine: quello più duro e puro, quello più sotterraneo. E “Double Cup” è ancora oggi il capolavoro assoluto del genere. L’idea che Rashad non sia più con noi mi stringe il cuore. Ascoltarlo ogni volta, questo album, è bellissimo e doloroso al tempo stesso.
***
Marracash, “Noi, loro, gli altri”, 2021
Pensavo che un disco di rap italiano non mi avrebbe mai più fatto saltare in piedi, al primo ascolto. Ed anche al secondo, o al terzo. Se ricordo bene, invece, “Noi, loro, gli altri” ci riuscì nei primi tre e pure al quarto. Sì “Persona”, bellissimo, ammirevole; ma questo album, e in particolar modo “Cosplayer”, sono il più crudo, intenso, acuto, efficace ritratto in musica e rap della società che ci circonda mai inciso dalle nostre parti, almeno dal periodo dei grandi cantautori (Dalla, De André…) in poi.
***
Studio Murena, “WadiruM”, 2023
Che fossi e sia fissato con l’incontro tra rap e jazz è un dato di fatto, l’ho già ripetuto tot volte nell’arco di questo listone dei trenta. Ciò che non mi sarei aspettato è che la declinazione più interessante, intensa ed efficace di questo solo apparentemente facile connubio negli ultimi cinque, sei anni arrivasse proprio da un gruppo italiano. Gli Studio Murena sono una forza della natura già così; ed hanno pure notevoli margini di crescita ed evoluzione. Contento e convinto nel metterli in questa personalissima lista, e pazienza se a qualcuno sembrerà un azzardo o una lesa maestà.