“La bocca tiene il pugnale / Io lo conosco bene il fondale / Niente scrigni né gioielli / del resto non è questo che sognano i pischelli”
Noyz Narcos, “Sinnò Me Moro”
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Quanto c’hanno triturato le palle con la storia del rap come “CNN del ghetto”: non che fosse falso, anzi, quando la definizione venne coniata, primi anni ’90, fu fondamentale per spiegare a molte persone, chiuse nei loro quartieri pulitini e nelle loro abitudini da borghesi beghini, quanto la carica del rap fosse dirompente e soprattutto necessaria. Riportare finalmente la realtà nell’arte, nella musica, nelle parole, per quanto scomoda fosse. Trovare un filo diretto che unisca la vita di tutti i giorni con le sue ingiustizie, le sue violenze e le sue incongruenze con il mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento. Accidenti, quanto è stato importante.
…ma accidenti quanto poi è diventata una presa di posizione inflazionata, un’arma proprio nelle mani di coloro che volevano piegare le cose alla teoria e non alla realtà. Il rap resta un’arte. E l’arte resta una forma di sogno, di creatività. Ripetete con noi: creatività. Continuare a stilare rime sloganistiche di impegno politico su quanto si è disagiati oppressi dal Sistema è ciò che è di più lontano possa esistere dalla cultura hip hop, nel suo intimo. La cultura hip hop non ripudia l’impegno politico, anzi. Ma l’hip hop ripudia le religioni (…perché esso stesso è una religione, non cede spazio ad altro). E piegare la forma del rap allo stilare quadri e mozioni da sinistra anni ’70 (americana da Black Panther o italiana da Autonomia che fosse) era piegarlo a salmodiare una messa cantata. No. No way. Chiaro?
Ecco perché si è esaurita presto la moda dell’impegno politico alla Public Enemy o, in Italia, dei testi alla Posse (in cui caddero un po’ tutti, negli anni ’90), che ad un certo punto negli anni ’90 pareva aver contagiato metà gioventù di casa nostra, quella che non ascoltava gli 883 e Ramazzotti. Non perché fosse sbagliata in sé, questa via. Ma perché presa come unica soluzione, impoveriva la cultura hip hop e ne distorceva e rinsecchiva le basi fondanti, la creatività implicita. Ecco: la creatività implicita era quella che generava gli ego-trip, l’ostentazione di sé, dei propri status symbol e dei propri traguardi; era anche quella che generava e genera il “rap da battaglia”, quello che non dice molto ma è una ginnastica di parole contro un ipotetico avversario/nemico/idiota/gonzo che sta di fronte.
All’inizio è stata dura spiegarlo, in Italia, negli anni ’90, al grande pubblico. Imbevuto com’era, appunto, di “rap CNN del ghetto”, di comparsate televisive su Rai 3 o di concerti nei centri sociali (ai centri sociali faceva comodo avere un’arte “nuova” fra le proprie mura con un grande potere attrattivo e di fascinazione, al rap faceva comodo avere chi ti chiamava a fare jam e concerti senza porti troppe condizioni). Quello e solo quello.
Poi finalmente lo si è iniziato a capire. Ora, lo si è capito troppo. E si è imparato a fare come in America. Dove il grande circuito dell’industria-dello-spettacolo-con-soldi da tempo è scesa a patti con la cultura hip hop e con la scena ad esso collegata, offrendo soldi e supporto logistico (distribuzione, promozione, anticipi economici, eccetera) in cambio di un output creativo continuo ed energetico, che è quello che la musica rap sta offrendo ormai da trent’anni a questa parte, dopo che il rock ha iniziato a citare e riciclare se stesso in tutte le forme possibili (fisiologico). Ma è un’offerta che arriva anche in cambio del lasciare da parte ogni vera ostilità, ogni denuncia al Sistema, ogni sogno rivoluzionario che ti possa far dire “’Fanculo il mondo come lo abbiamo vissuto fino ad oggi, ci sono troppe ingiustizie”. Niente. Nada. Ingiustizie scomparse. Conta solo arrivare al successo. E, una volta che arriva, più o meno grosso che sia, raccontarlo in modo brillante e/o ostentato, giusto con qualche mezza rima amara, finto-sincera ed autocritica a fare da foglia di fico.
Qualcosa si sta incrinando, in questo messaggio ultra-colorato e semplificato. Non funziona più come prima. Ecco perché viene dato spazio anche a rapper evoluti&profondi come Kendrick Lamar, uno che è stato accolto nel Sistema, nei Grammy, nei featuring con le stelle del pop; ecco perché è stato dato spazio all’improvviso ai rapper giovinetti del disagio, allo xan rap (ehi, vedi Lil Xan – che tra l’altro è anche uno dei più lucidi del lotto, come dimostra il suo album in uscita – che si fa i featuring con quel gran amabile paraculo di Diplo, uno che ha venduto tutto se stesso col sorriso pur di stare sempre in alto nelle classifiche, e mica gliene facciamo un torto); ecco perché si è puntato sulla trap, una musica che non avrà sempre dei testi di spessore ma che dal punto di visa sonoro è cruda, cupa, cattiva e sovverte la cronica, levigatissima “faccia pulita” che il pop ha sempre voluto avere musicalmente parlando. Se volete capire meglio cosa intendiamo, pensate alle basi che accompagnano le cose di Fedez e J-Ax, allo bignamizzazione slavata che fanno di rock, elettronica e rap: eh, in Italia siamo ancora indietro, così indietro che Takegi e Ketra paiono geniali innovatori, del resto siamo ancora fermi a Michele Canova, quindi chiaro che Charlie Charles o Sick Luke sembrano dei geni rivoluzionari, nel momento in cui importano gli stilemi trap in Italia. Ed in effetti, per i nostri standard, lo sono.
Ma torniamo al rap. Torniamo alle parole. Torniamo al senso delle cose, slegandolo per un attimo dal vestito sonoro (che resta peraltro una componente fondamentale). Facciamo conto che abbiate già letto questo; facciamo conto che già sappiate che a nostro modo di vedere sia importante “prendere una posizione”, non solo descrivere la realtà (perché le realtà possibili sono tante…), non solo avere successo.
Facciamo conto anche che già sappiate che secondo noi, ne siamo convinti, c’è spazio per tutti. C’è spazio per Sfera. C’è spazio per la DPG. C’è spazio per le peggio bambinate e per le più vuote rodomontate. Che non mancano di certo, nel rap italiano contemporaneo, col corollario fastidioso del grande endorsement da parte della comunità hipster del terziario milanese o wannabe milanese, quelli che sono attenti a come si vestono, e/o a quanto è figa la musica che ascoltano, e/o a quanto sono “cutting edge” i party che frequentano (è la gente che sta tentando di forgiare l’immaginario dei ventenni, trentenni attuali. Lecitamente: mica è una colpa. Ma non fatevi fregare).
E’ che invece di stare lì ad abbaiare contro la musica-dei-giovani, bisogna invece fare due cose. Uno, saperla analizzare e criticare con calma e serenità, valutandone pro e contro, peculiarità interessanti e scorciatoie paracule. Due, sostenere sempre chi persegue altre vie. Più autentiche. Non diciamo migliori: diciamo più autentiche, più legate alla vita reale standard.
Quanti di voi vivono la vita del rapper di successo? Quello che può vestirsi come cazzo gli pare, tatuarsi come cazzo gli pare, conciarsi come cazzo gli pare, trattare le fighe, pardon, le donne come cazzo gli pare, drogarsi come cazzo gli pare, tanto il giorno dopo non deve svegliarsi preso al mattino a spaccarsi la schiena al lavoro perché tanto c’ha i soldi? Può essere divertente immaginare di essere al posto loro, può essere divertente fingere di essere al posto loro immedesimandosi nei loro testi, però ecco, in quanti di voi sono realmente in questa situazione?
Soprattutto: siete sicuri di voler vivere solo dentro un fumetto? Siete sicuri di voler riporre tutti i vostri sogni, tutte le vostre aspirazioni, tutte le vostre esaltazioni emozionali in gente in perenne ego trip? Siete sicuri che il massimo della goduria sia tirare tre righe di bamba, fumare sedici cannoni, scopare una persona che manco vi piace? Potete divertirvici ogni tanto, questo sì. Però ecco, cercate di non trasformare in modelli aspirazionali di vita gente che, se non fosse famosa, vi verrebbe voglia di prendere a pizze in faccia da quanto sono arroganti, se li incontrate in coda al supermercato alla fermata dell’autobus aspettando di prendere il 63 barrato che vi riporta a casa.
Se non avete la fortuna di essere nati ricchi con i parenti che integrano corposamente il vostro budget mensile, avete l’ansia di arrivare a fine mese, avete lo stress di sopportare un lavoro spesso non soddisfacente (chi ce l’ha) o di cercarne disperatamente uno (chi non ce l’ha), svegliandovi presto al mattino. Se non siete più studenti delle superiori o matricole fuorisede mantenute, avete meno tempo per pensare alle cazzate e più necessità invece di concentrarvi sui problemi reali. Il rap coi suoi epifenomeni più crassi può essere una fuga, ci sta. Può essere il momento per sognare, per esaltarsi, può essere il momento per fingere per cinque minuti, per un’ora o per una serata di essere gente sicura di sé che ce l’ha fatta e può andare in giro ad ostentare. Ma volete veramente vivere solo in questa bolla? Quanto è saggio continuare a pensare che si sarà per forza quell’uno su mille che ce la fa? E se foste uno degli altri novecentonovantanove, invece? Volete davvero fuggire la realtà in questo modo, sistematicamente, se appunto non è questa la vita che vi potete al momento permettere?
Potete farlo, se volete. Ma vi assicuriamo che quella insoddisfazione che vi ruga dentro sarà sopita solo per brevi momenti. La realtà tornerà sempre per presentare il proprio conto. Mentre invece se vi tufferete nella quotidianità più autentica, banale e non sofisticata, nell’affrontare le questioni per davvero, nell’analizzarne cause ed effetti, beh, non diventerete probabilmente più ricchi e fighi, ma sentirete una soddisfazione molto più profonda, calda. E il rap e la cultura hip hop, la forza più dominante dell’immaginario culturale e dell’intrattenimento contemporanei, soggiacciono a queste dinamiche tantissimo, più di altre forme d’arte, creatività, intrattenimento. Proprio per DNA intrinseco. Prendete nota.
Lo scorso weekend siamo stati, purtroppo solo per una sera, a Ravenna. Alla quinta edizione di Under Fest. Un evento nato su impulso del CISIM, di Moder del Lato Oscuro Della Costa (la crew da cui viene fuori anche Godblesscomputers, quando era ancora legato strettamente alla scena hip hop), e che da sempre ha voluto portare avanti la bandiera del rap meno mediatico, quello più underground. Ora: non siamo qua per santificare il rap underground. No. Per troppo tempo e troppo facilmente ha fatto sì di essere solamente una setta, che ripete i propri riti, si rifiuta di guardare con un minimo di interesse a quello che succede fuori da sé, che insulta chiunque sia “diverso”. Insomma, qualcosa di più reazionario di un governo di Arnaldo Forlani, anche quando citava le Pantere Nere. Il rap “commerciale” (quello dai Dogo e Fibra in poi) è stata una ventata d’aria fresca perché finalmente si è smarcato da queste comode e facili catacombe, in cui adolescienzialmente rinchiudersi ad aeternum nella cameretta delle proprio convenzioni (più ancora che convinzioni). Col rap “commerciale”, in Italia, ci si è finalmente aperti al mondo, si è finalmente parlato a tutti, come in America si faceva da anni. Col rap che invade le classifiche e che viene ascoltato non solo dai b-boy, è arrivata una maggiore spinta alla competizione per stare nel mercato, che a sua volta ha portato a un continuo rinnovarsi artisticamente, invece di stare sempre rinchiusi nel giardino di Lord Finesse.
Però il rap underground dalla sua, oltre a tanti difetti, ha sempre avuto anche il pregio della purezza. Del fare le cose perché ci credi, non (solo) perché puoi diventare famoso. Oggi c’è gente che sogna di fare il rapper così come cinque minuti fa sognava di fare il calciatore e fra cinque minuti sognerà di fare l’influencer: bene, ‘sti ceffi se mettono piede nella comunità del rap underground, o s’illuminano stile John Belushi in “Blues Brothers” e cambiano prospettiva o vengono gettati fuori in men che non si dica. E questo è molto salutare. Ma veramente tanto, tanto salutare.
Se ascoltate rap, dovreste fare sempre riferimento a chi è molto legato alla scena underground, anche quando non condividete tutto, anche quando ne individuate eventuali limiti. Se ascoltate Gue Pequeno, dovreste sempre ascoltare Egreen (sentitevela bene, “Non mi interessa”, sentitevela con attenzione…).
Ma non è che Egreen e Gue Pequeno siano antitetici. Se preferisci uno, allora devi odiare l’altro. No. Non è che se vai all’Under Fest devi passare il tempo ad abbaiare contro Sfera, Tedua e Ghali e quel mondo lì. All’Under Fest invece un momento bellissimo, e chi vi scrive era lì coinvolto, è stato il confronto parlando di media e cultura hip hop in cui c’erano il sottoscritto (che si occupa di rap dai tempi di Aelle: preistoria), Elia Alovisi (una delle firme principali di quella roccaforte hipster-ma-intelligente di Noisey), Antonio Dikele Distefano (una delle forze principali dietro a STO Magazine, nuova creatura media di spessore teoricamente legata a doppio filo con Ghali e con l’indotto che la sua figura genera). Tre poli diversi. Che in teoria dovevano guardarsi in cagnesco tra loro, sventolando ognuno la propria posizione e la propria bandiera, disprezzando l’avversario, il “diverso da sé”.
Invece, parlando, è nato un confronto molto interessante che in più di una occasione ha dimostrato come le posizioni siano molto più vicine di quello che si pensi: perché Antonio ha ripetuto più volte come sia importante indagare sulla storia e sulle basi del rap in Italia, Elia in ogni intervento ha tirato fuori profondità d’analisi e voglia di non rifugiarsi in meme e claim, chi vi scrive qui è da mo’ che ascolta, valuta e si occupa di tutto il rap, non solo quello prodotto nel 1995-1997. E tutto questo, credetemi, è stato davvero soddisfacente. Molto più soddisfacente che stare asserragliato in un angolo a sventolare la bandiera del “Quanto sono rincoglioniti i rapper d’oggi e in generale quelli commerciali, fanculo”. Molto più istruttivo. Molto più arricchente.
Così come arricchente è stato sentire la jam serale. E sapete che c’è? A Moder brillavano gli occhi, perché il Bronson – la venue – era completamente sold out. Record di presenze assoluto, in generale, per l’Under Fest. Tutto questo senza assolutamente derogare dalla linea artistica: niente nomi alla moda, solo gente che il rap underground lo ha frequentato e lo frequenta, gente che non finirà nelle riviste teen sulla trap. E questa, se volete, è la dimostrazione matematica che il successo di Sfera, Ghali & soci non fa male all’altra faccia della luna. E’ giusto criticare la scena trap, è giusto analizzarla, è giusto dire quali sono i limiti potenziali, è giusto mettere in guardia dai pericoli di “avvelenamento pozzi” a cui può portare; ma tutto questo con la consapevolezza che se noi siamo convinti delle nostre passioni e delle nostre posizioni, nulla e nessuno ce le potrà portare via. Anzi. Più attori ci sono in campo, più attori di successo ci sono in campo, più una determinata sfera (ops…) diventa rilevante, popolare, seducente, infondendo nuove energie e nuovi stimoli.
Non vogliamo sterilizzare la scena rap. Non vogliamo un mondo arcobaleno dove pascolano gli unicorni, tutti parlano bene di tutti, nessuno parla male di nessuno. Ma se sei a contatto coi problemi reali, coi dati di fatto così come sono, invece che pensare solo agli ego-trip o alle convenzioni della propria setta, “sentirai” che una scena rap sfaccettata che sa scontrarsi ma anche confrontarsi, che sa essere in competizione ma anche dividersi gli spazi è qualcosa che è un avanzamento reale per tutti.
La vera maturità dovrebbe essere questa. Una maturità ad esempio che abbiamo incontrato parlando a lungo con Inoki, nel backstage. Sì, Inoki: quello che ad un certo punto dissava tutti e tutto, che ce l’aveva sempre con qualcuno. L’abbiamo invece visto sereno, tranquillo, fermo sulle sue posizioni ma rilassato verso chi ne ha di diverse, cresciuto umanamente, da eterno adolescente di strada attaccabrighe a persona matura che sa cosa significa essere adulti e quali responsabilità comporta. E sapete che c’è? Questo “state of mind” lo fa rappare bene come non ha mai rappato in vita sua. Flow perfetto, incisivo, preciso, chirurgico. Come mai in passato, ripetiamo. Come mai, soprattutto, quando era troppo concentrato a fare a guerra col mondo.
Ma in generale tutta la serata è stata interessante: rap underground, sì, coi suoi stilemi più tradizionali ma anche con un “impegno politico 2.0” anni luce davanti alle messe cantate delle posse per stile e per profondità d’analisi, o – come nel caso di Brain – con una artisticissima capacità di uscire fuori dagli schemi usando un flow schizoide e teatrale molto, molto interessante. L’hip hop è vivo eccome. Il successo di Tedua o Gue Pequeno che rifà per l’ennesima volta il compitino dell’egomania birbona per nessun motivo deve per forza togliere spazio alla creatività altrui. Anzi: il successo di Tedua presso gli adolescenti o di Gue Pequeno verso chi (lo ripetiamo, superficialmente) vuole viversi un viaggione di colombiane da flexare che è anni luce lontano dalle proprie quotidianità e possibilità aiuta comunque a generare interesse e passione attorno al fenomeno del rap, chiamando più gente, alzando l’asticella della creatività necessaria per farsi notare e/o per stare bene nel proprio.
Chiaro: non vediamo l’ora che passi di moda il quadretto (post?) adolescenziale da Smemoranda da certa trap emo per arrivare a qualcosa di più profondo, non vediamo l’ora che hipster para-milanesi attorniati da first world problems smettano di essere solidali col mondo disegnato dai Gue Pequeno di turno. Ma questa è la nostra posizione. Una delle tante possibili. Quello che importa è che bruci ancora il fuoco della passione per la musica e per una cultura, quella hip hop, che ha arricchito tantissimo l’arte, la creatività e l’immaginario collettivo di questi decenni. Deve bruciare, questo fuoco. Sinnò me moro. Questo, deve finire sulle “CNN” di tutto il mondo.