Ascolto Mecna da quando ho diciassette anni e, purtroppo, di acqua (e di musica) ne è passata parecchia sotto i ponti. Negli anni i miei gusti in fatto di rap sono cambiati molto e, come me, molti rappers sono cambiati, cercando di reinventarsi ad ogni disco, per inseguire trend e tendenze che li facessero sentire giovani e al passo coi tempi. Mecna in tutto questo tempo è rimasto fedele ad un mondo e a un modo di fare, che è unicamente suo e che, negli anni e nel lavoro, è diventato un marchio di fabbrica riconosciuto e apprezzato dall’Italia intera. È stato quindi un piacere intervistarlo per parlare del nuovo disco, “Mentre Nessuno Guarda”, dei suoi gusti musicali e in generale della maggiore consapevolezza che ha acquisito nel tempo riguardo alla sua creatività..
Ieri guardavo la copertina di “Mentre Nessuno Guarda” e ho notato che era presente molto colore blu: questa osservazione mi ha rimandato prima a “Blue Karaoke” e poi, ancora più indietro, a “Disco Inverno”. È una cosa cercata e voluta? Anche perché in inglese “being blue” significa “essere triste”.
Questa idea del “being blue/essere triste” era il concept alla base di “Blue Karaoke” e quindi l’avevo già sfruttato. Per il resto, sì e no: sia “Disco Inverno” che “Blue Karaoke” erano dischi pensati per essere inondati di blu, con un’idea di notturno, lasciando intendere che il contenuto avesse dei toni cupi. Per “Mentre Nessuno Guarda” un po’ meno, se vedi ho aggiunto anche il rosso delle luci del giubbotto. Se guardassimo i colori in relazione ai dischi precedenti, si potrebbe dire che riprende la strada dei lavori vecchi ma con dei nuovi riflessi: il sound, i featuring, eccetera. Poi ti dico, io con le copertine cerco di essere vario, alternandone alcune più scure ad altre con toni più pastello.
In una recente intervista hai dichiarato che ti piace lavorare quasi come un art director ai tuoi dischi. Come hai costruito l’immaginario attorno a questo nuovo album?
Guarda, in realtà questa cosa di fare l’art director dei miei dischi nasce dal fatto che lavoro come grafico alle copertine per album di altri, perciò quando devo fare un progetto solo mio cerco di stare in primo piano nel processo di creazione. Ma già da “Disco Inverno” succedeva questo: quando avevamo fatto la foto con gli ombrelli, io ero lì come spalla del fotografo; in altre occasioni mi capitato di farlo io direttamente. L’idea della copertina di questo disco nasce con l’intenzione di farla dipingere da Richard Wilson, che già avevo adocchiato tempo prima e volevo lavorarci assieme. Quando abbiamo scattato io avevo già abbozzato l’idea del tema della lacrima, del piangere, ma non era facile rendere questa immagine senza farla sembrare melensa. Invece, per puro caso, in un cambio di luci è uscita questa posa che ci è sembrata giusta e da lì è partito tutto, con la questione del dipinto e poi del murales di Richard Wilson, e poi ancora con tutto il resto.
Il cortometraggio come si incastra in questo contesto?
Il corto era stato fatto per annunciare il disco. È stata un’idea nata con Enea Colombi in fase di scrittura. Era un po’, che io volevo fare un corto: non sapevo neanche riguardo cosa, ma mi interessava fare qualcosa che uscisse dal classico videoclip, quindi con uno sviluppo più lungo. Quando Enea mi ha proposto di fare un corto, gli ho detto di farlo subito, immediatamente. Io gli avevo passato dei pezzi, pensando di incastrarli dentro; quando questo corto è uscito poi tutti i pezzi erano inediti – era quindi un modo per creare un po’ di hype rispetto al disco. Abbiamo individuato mood, storia, e mi sono affidato a lui, al suo mondo e alla sua estetica per lo sviluppo della storia, che in realtà mi vede poco partecipe, era più la voglia di raccontare una storia che aiutasse ad entrare nel disco.
A me è piaciuto molto, anche nella scelta delle location e dei paesaggi presenti.
Enea sotto questo punto di vista è molto appassionato, e per lui questo corto è una sorta di sfogo. Lo capisco: è la stessa cosa per me con la grafica, magari fai duemila copertine però sei sempre soggetto a modifiche esterne. Ecco che quindi hai voglia di fare qualcosa di totalmente tuo, e questo è stato il progetto per Enea. Io, da uno che fa la stessa cosa, lo capisco bene: poi sai, quando si creano questi progetti molto spontanei le persone coinvolte provano a fare qualcosa di bello prima di tutto, e questa è una cosa che va al di là dei budget astronomici.
Tu sei uno che cerca sempre di reinventare quello che ha già fatto, cercando di migliorare sempre la qualità del progetto a trecentosessanta gradi. Però poi sembra che questa cosa non venga premiata fino in fondo, in “Scusa” per esempio parli del disco d’oro che ti manca. Come vivi tutto questo?
Alla fine la vivo abbastanza bene. Sono in questa situazione da un po’. Più vado avanti però, più mi rendo conto che la voglia e l’impegno che ci metto nel fare cose diverse mi premia: perché le persone che mi seguono sono totalmente rapite dal mio mondo, non vedono l’ora che esca musica nuova e mi conoscono, mi seguono. Quando mi fermo però vedo queste sfumature, che per me tuttavia sono davvero sfumature. Del disco d’oro ho iniziato a parlare in “Lungomare Paranoia”, dove scrissi: “Non sarò disco d’oro ho perso le forze / Ma ho scritto le canzoni con dentro le cose nostre”. Non sono quello-di-tutti, lo so, però forse ho qualcosa di meglio ancora: sono riuscito a costruire un percorso diverso. Andando avanti vedo che cani e porci ce l’hanno il disco d’oro, e penso che mi piacerebbe averne uno anche io. Poi, se vedi, in “Scusa” il tutto è più riferito ai miei producer, io non ho posto in casa per il disco d’oro. Comunque se mai dovesse arrivare avrà un valore grosso, ma sicuramente non mi sveglio ogni mattina, nella speranza che arrivi. È la rappresentazione di una medaglietta che ti danno gli altri: non è essenziale, ma dopo un po’ fa piacere che ci sia.
Io sono un fan della tua playlist “Buongiorno così”. Quando non so cosa ascoltare spulcio da lì, e trovo sempre qualcosa.
Adesso non l’aggiorno da un po’, prima aggiungevo un brano al giorno, ho perso un po’ di costanza nell’ultimo periodo. Un po’ di tempo fa però avevo un bel po’ di canzoni salvate, e le ho messe tutte dentro nello stesso momento. Magari farò così prossimamente, aggiungendo una volta ogni tot.
La tua playlist a me piace perché vedo cose molto simili ai miei gusti personali, un modo di fare musica diverso che mi sembra un abbia poco spazio in Italia. Secondo te perché quel mondo musicale ha così poco riscontro in Italia? E Madame (che tu hai nel disco) può essere la 070Shake Italiana?
Beh sì, potrebbe, Madame ha centrato un sound molto bello, che ci piace e che non saprei definirti – alla 070 Shake effettivamente, e realtà simili. Lei è molto talentuosa e, soprattutto, coraggiosa: perché tutte le poche cose che ha fatto hanno un’identità sonora ben precisa, quindi questo fa ben sperare. Sul fatto che in Italia non ci siano cose così, secondo me, come tutti i fenomeni, qui si arriva sempre un po’ dopo. Qualcosa si sta iniziando a vedere, c’è tutta una scena “soul” (chiamiamola così) che si sta muovendo con Undamento, Asian Fake o La Tempesta; ci sono degli spiragli. Poi a me piace pensare di metterci io stesso degli elementi di quel modo di fare musica, metto anche io il mio mattoncino. Sicuramente la playlist nasce anche per questo: per fare capire la direzione della mia musica e per dire “…io ascolto queste cose, quindi se trovate delle cose strane nel mio disco, sappiate che derivano da questi ascolti”. Che poi è il discorso iniziato ai tempi con Blue Nox, quando avevamo aperto il sito, dove parlavamo di musica, davamo consigli arte, e cercavamo di farti entrare nel nostro mondo. Ed è un po’ quello che cerco di fare anche oggi nel 2020.
(“Mentre nessuno guarda”, ma ascolta; continua sotto)
Entrando nelle canzoni del disco: “Demoni” è la mia canzone preferita. Come mai l’hai scelta per aprire l’album? E in generale, hai voglia di raccontarmela?
Questo pezzo ha una gestazione strana: era stato fatto prima di “Neverland”, prima di lavorare con Sick Luke. Io avevo realizzato una bozza con Alessandro Cianci in cui avevo scritto tutto, però poi abbiamo deciso di stravolgerlo (prima era chitarra e voce) e cambiare il senso del pezzo. Quindi aprire il disco con quella traccia per me ha valore, perché è un pezzo che già c’era ed è quindi una continuazione del percorso. Per me quel brano è associabile a “Pratica”, è una canzone dove comunque parlo di me, delle mie debolezze e insoddisfazioni, ma dove cerco di andare avanti nel discorso, mi faccio forza da solo. Poi il pezzo si sviluppa come sound, e come struttura: non è in 4/4, per esempio. È un brano interessante, difatti non sei il primo che mi dice che è il suo preferito.
Secondo me è una canzone che si inserisce bene nel discorso di ricerca sonora che facevamo prima, non è il classico pezzo rap, ma un brano dove succedono tante cose.
Si, anche perché se lo spogli di questa base super-elettronica, quasi minimal, in realtà è un pezzo pop italiano. L’esperimento interessante per me è anche proporre delle cose smaccatamente pop, e rimaneggiarle con un gusto elettronico. Questo crea un cortocircuito che ti fa dire “wow”.
In una vecchia intervista parlavi di Drake come di una fonte di ispirazione, perché secondo te era un ragazzo normale che semplicemente aveva scelto il rap per parlare dei fatti suoi. Il percorso di Drake è cambiato profondamente passando dal “ragazzo della porta accanto” all’essere quasi un boss della mafia. Quel modo di rappare che Drake aveva, tu però te lo sei portato dietro. Non c’è la paura di ripetersi?
Oddio, più che paura c’è proprio la certezza di ripetersi, però non è una cosa che trovo brutta. Io quando mi metto a scrivere parlo di ciò che faccio, che sento e che provo – che è probabilmente simile a qualcosa che mi è già successo in passato. Può succedere, insomma; però non la vivo in modo drammatico, anche perché riesco sempre a cambiare il contesto e il modo in cui dico le cose – lavorando su i sound o i featuring per esempio. Può esserci la paura di ripetersi, ma non lo vivo con ansia. Altri artisti fanno lo stesso pezzo per anni, quindi non me ne curo.
Ci sono artisti che cambiano in continuazione, altri che rimangono fedeli ad un modo di fare. Un po’ di tempo fa ascoltavo un’intervista ad Alborosie, che diceva come lui nel corso della sua carriera abbia portato avanti sempre lo stesso tipo di messaggio e di percorso.
Guarda io questa paura ce l’avevo all’inizio. In “Disco Inverno” ci sono alcuni pezzi che sembrano scritti da un rapper classico, una componente di brani scritti con una mentalità che ora non esiste più, o che quanto meno non mi appartiene più. I cosiddetti pezzi fatti per far “alzare le mani” durante i live. Poi ho capito che sì, si poteva fare un live dove fosse possibile anche non alzare le mani, si poteva essere intimi e basta; e questo è stata la mia forza, mi ha fatto andare avanti con la consapevolezza che potevo anche non fare determinati brani. Attenzione, questo non vuol dire che non sono vario: “Mentre Nessuno Guarda”, per quanto abbia un filo conduttore di mood, se lo fai live (ahimè non credo lo faremo…) ha pezzi che ti fanno saltare, ma ti parlano di altro. Quando ho capito tutto ciò mi sono tranquillizzato sotto questo punto di vista.
Per quanto tu venga raccontato come un rapper “schivo”, hai prodotto comunque quattro dischi in cinque anni. È perché la scrittura è diventata più facile?
No, semplicemente ho imparato a fare selezione, cercando di capire cosa mi può portare a risultati e cosa no. Mi spiego: all’inizio facevo molti pezzi e magari tenevo anche ciò che non mi convinceva, per lavorarlo e rimaneggiarlo, nella speranza che magari mi avrebbe convinto più in là nel percorso e questo, per uno che non scrive tanto, toglie tempo. Ora no. Ultimamente cerco di capire subito se un beat mi trasmette qualcosa, e provo ad andare dritto nel fare un pezzo piuttosto che un altro. Questa consapevolezza mi ha portato quasi a non avere scarti: per esempio con Sick Luke abbiamo fatto dieci pezzi, e dieci pezzi sono usciti. Credo sia una questione di know how, perché la scrittura di per sé è diventata anzi più complicata con l’apporto del cantato: sul ritornello cantato hai una gabbia, che è data dalla melodia, e che ti costringe a stare tra dei paletti. Cantare vuol dire avere meno parole, e cercare di esprimere concetti in breve è più complesso. Pezzi come “Scusa” per me sono facili, perché volendo hai spazio infinito per scrivere. C’è un balance tra questi due elementi.
Per chiudere, ti chiedo qualcosa sul futuro: prossimi progetti?
Sicuramente ci sarà qualcos’altro nell’anno nuovo, non so ancora sotto che aspetto però: questo momento che stiamo vivendo fa un po’ “sprecare” i dischi. “Mentre Nessuno Guarda” è un disco importante con cui ci siamo anche tolti dei sassolini e, ora che sono passati tre mesi dall’uscita, dovremmo fare i live per farlo vivere. Invece siamo fermi. Io però non sono uno che si piange addosso. Io continuerei a far uscire musica: cioè se avessi un disco nuovo, lo farei uscire anche a gennaio, ma la realtà è che non ce l’ho. Credo che sia giusto continuare a produrre. Anche senza fare live è comunque bello esserci. Poi quando si potrà, ci ritroveremo.