La partnership tra Burn e il Kappa FuturFestival anche quest’anno è stata forte: il naming di uno stage, la presenza in line up dei talenti selezionati per la Burn Residency – non solo quelli italiani, quest’anno oltre al nostro David Di Sabato anche il brasiliano Morttagua, la spagnola Anabel Sigel e il romeno Just 2, più lo “special guest” Lorenzo De Blanck, finalista mondiale l’anno scorso – e anche l’arrivo di ambassador di peso. Luciano di nuovo, che ha fatto un set fra i migliori che gli abbiamo sentiti fare recentemente, e quella che è stata per noi una vera e propria sorpresa: Hot Since 82. Non che non avessimo fiducia nelle capacità di Daley Padley, che già da anni miete successi e riconoscimenti, ma la sua house venata di trance, UK bass e altre spezie ancora è stata davvero di alta qualità, oltre le aspettative. Ecco che quindi siamo arrivati sia ben disposti che molto curiosi, all’appuntamento che ci eravamo dati dopo il suo set per scambiare quattro chiacchiere. Anche qui, il risultato è stato oltre le aspettative. Tant’è che quando, a tempo scaduto, gli abbiamo detto “Ehi, dobbiamo terminare qui, ma grazie per il tempo concessoci per l’intervista” la risposta è stata “Ma che scherzi, grazie a te, è stata una chiacchierata bellissima, molto più di una banale intervista, non sai che piacere mi ha fatto”.
Ti farei tornare proprio agli inizi-inizi della tua carriera: quando, correggimi se sbaglio, ti ritrovavi a suonare set lunghi, lunghissimi, delle autentiche maratone.
Beh, il momento cruciale è stato esattamente nel party del mio diciottesimo compleanno, in un pub aperto fino a tarda notte, l’unico a fare questi orari nel paese dove sono nato….
Hmmm, suona quasi pericoloso.
Di sicuro era un posto abbastanza bizzarro! Sai, era una cittadina di quelle stile dormitorio, un posto di operai, uno di quei paesotti suburbani dove di solito non succede quasi nulla. Però c’era quel posto, e quel posto aveva pure un sound system della madonna: se a questo aggiungi che i resident che si alternavano erano davvero bravi, il risultato è che lì, in quel posto, la musica giocava davvero un ruolo di primo piano. Raro, per un pub di quel tipo. Rarissimo. Ad ogni modo: avevo iniziato a muovere i primi passi da dj, lì, e giusto un paio di mesi dopo arrivava il mio diciottesimo e, ovviamente, volevo organizzare un party per festeggiarlo lì. Parlo coi proprietari, ottengo la possibilità di noleggiare il pub per un giorno. Cosa succede? Succede che arriva moltissima gente, anche più di quella che pensavamo – e sicuramente più di quella che pensavano quelli del pub – e per giunta io e i miei amici che si alternano alla console suoniamo piuttosto bene. A fine serata vengono da me e mi fanno: “Ehi, vuoi i mercoledì?”. Ecco: ho iniziato così. Non solo: dopo poco tempo tornano da me e mi fanno “Vabbé, vuoi anche le domeniche?”. Ecco, la cosa delle domeniche è stata molto formativa. Siamo andati avanti cinque, sei anni: aprivamo le porte a mezzogiorno, finivamo alle due di notte. Capisci che lì devi per forza imparare a gestirti nel migliore dei modi dei dj set lunghi! Guarda, oggi non mi posso certo lamentare, suono nei migliori club e festival del mondo, sono esperienze fantastiche, ma quello che ho imparato in quelle domeniche in un pub di paese resta l’insegnamento più forte che mi porto dietro.
Tra l’altro, anche nei migliori club e festival del mondo ormai la prassi è sempre più che il guest suoni un’ora e mezza, due ore.
Verissimo. Sai qual è il paradosso? Questo accade nel momento in cui la musica è accessibile come non mai. Pensaci: la musica è ovunque, c’è un vero e proprio overload di produzioni e release. La ottieni in un attimo, e costa pure molto meno di prima averla. Oltre al fatto che è più facile e veloce farla, avendo comunque uno standard più o meno sufficiente. Figurati poi se, come me, sei una di quelle persone privilegiate che riceve un sacco di promo. Cosa succede? Seguimi. Ti arriva un tot di roba nuova. La metti nella tua USB. Ma il dramma è che un pezzo da club puoi capire se funziona davvero solo provandolo con un impianto da club, o da festival. Quindi ti dici “Vabbé, lasciamo stare, evitiamo di suonare ‘ste cose che mi sono appena arrivate e che non ho testato”, in questo modo però ti perdi per strada un sacco di release interessanti… semplicemente perché non hai le palle di prenderti dei rischi, di mettere un pezzo che non sei ancora sicuro se e come funzioni, anche se a te pare ok. Pensa al passato: quando ti compravi un disco, stava nella tua borsa per almeno sei mesi. Ogni singolo disco che avevi comprato stava nella tua borsa per sei mesi. Oggi?
Esiste una soluzione?
No. Guarda, il fatto che oggi ci sia molta più musica in giro è secondo me un fenomeno assolutamente positivo. Come dicevo, oggi fare musica è anche molto più facile. Questo grazie alla tecnologia perché, per dire, per fare una top line non devi per forza sapere fare bene gli accordi. Hai i sequencer, hai Ableton, hai i tuoi effetti che piazzi su un canale di uno strumenti midi e voilà, la tecnologia suona gli accordi per te. Oh, anche io uso questi sistemi qua e sono ottimi, ti cavano d’impiccio in un sacco di situazioni, sarebbe stupido non approfittarne. Però sì, oggi la musica si fa in questo modo. Il che è anche figo, ma…
…ma sta generando musica fatta bene ma, in qualche modo, “media”, senza troppa personalità?
Molta musica che esce oggi a me non pare abbastanza “matura” per avere personalità, per fare davvero la differenza.
Come si riesce ad individuare ciò che distingue una traccia davvero “matura” da una invece più anonima?
Oh, non è difficile: ascoltando (ride, NdI). E’ una battuta, se vuoi, ma è anche la verità: bisogna affidarsi alle proprie orecchie, al proprio gusto. Poi guarda, il primo colpevole di questa situazione sono io: mi capita spesso di suonare dei dischi che sono, complessivamente, “medi”: è che hanno una o due idee che mi piacciono dentro, prendo quelle, e con un paio di trucchi molto semplici sul mixer riesco ad irrobustirle, a dare loro personalità. E così le faccio circolare. E’ che mi piace troppo lavorare così, sono uno che fa edit in tempo reale di continuo, ad ogni set.
Senti, ti faccio una domanda che può sembrare molto banale, ma forse in realtà non lo è del tutto: quanto è importante “capire” le mode, nella musica da club attuale?
Eh sì, diciamolo: siamo in mezzo alle mode. Anche nella musica da club. Si alternano di continuo. La soluzione per non venire fagocitati da questo meccanismo? Di nuovo: affidarsi alle proprie orecchie. E magari riscoprire il piacere di offrire delle “perle nascoste” nel proprio set. Andando a ripescare quelle sensazioni e quella cocciutaggine che ti spingeva a stare otto ore in un negozio di dischi, alla ricerca della “perla nascosta” tra gli scaffali. Oggi si tratta di cercare otto ore tra i file. Ma ne vale la pena.
Ti è mai capitato però di scegliere determinate tracce perché “funzionano”, prima ancora che perché ti piacciono?
Credo sia il destino di tutti quelli che, come me, fanno veramente tante date in un anno. Perché diciamoci la verità: ogni tanto finisci in posti che insomma non sono proprio il massimo, no? Almeno rispetto ai tuoi gusti, rispetto a quella che sarebbe secondo te la situazione ideale. Però, ehi: si tratta di persone che ti hanno cercato, ti hanno voluto, ti stanno pagando. E io di questo sono e voglio essere grato, quindi cerco di dare sempre il mio meglio per far funzionare la serata. Io, ti dirò, preparo sempre nelle mie USB una cartelletta specifica con cose che, ecco, non sono proprio di mio gusto ma so che possono essere un’ancora di salvezza se la serata butta in un certo modo. Perché in realtà il tutto è molto semplice: la gente esce per andare a ballare, e tu sei lì per soddisfare la loro voglia. Puoi e devi iniziare col tuo stile, ovvio, ma ad un certo punto devi essere abbastanza intelligente ed umile da aggiustare il tiro, se necessario. Saper fare un “passo indietro” per me è una qualità. Se poi qualcuno per questo mi vede come un venduto, boh, peggio per lui. Io con la coscienza mi sento molto a posto.
D’altro anche interpretare chi e ciò che hai davanti è uno skill…
E’ un cazzo di lavoro, fare il dj! E il lavoro è: far ballare la gente. Faccio fatica ad immaginare un lavoro più bello e, quindi, mi pare doveroso adeguarsi un minimo, se e quando necessario. In più devo dire che per me personalmente è un periodo davvero bello: ho una notte settimanale ad Ibiza, al Pacha, Labyrinth, che va davvero alla grande (l’ultimo weekend abbiamo fatto 3200 persone, le stesse che fa Solomun); ho appena finito un album; dopo diciotto anni, sono ancora qui, e le cose vanno bene, anzi, meglio come non mai. Ti pare sia possibile lamentarsi?
Hai mai pensato “Prima o poi tutto questo finirà”…?
Se tutto finisce, io sono già pronto: l’idea è di aprire un piccolo ristorante nella cittadina in cui sono nato, quella di cui ti parlavo all’inizio. Cucino un po’ di cose, mi rilasso, faccio crescere in modo sano i miei figli, porto in giro il cane, tutto questo in posti tranquilli e, appena fuori dal centro, pieni di verde. Se mi vedo nel futuro, mi vedo così. E questo scenario non hai idea di quanto già ora mi renda sereno. Il solo fatto di diventare padre e di poter crescere i propri figli… come si fa a non essere tranquilli e felici, ad un pensiero del genere? Quindi se anche finisse tutto domani, per quanto riguarda il djing, se mi incontrerai, beh, incontrerai sempre una persona grata e soddisfatta.
Intanto, visto che le cose per ora non accennano a finire, sei diventato ambassador pure per Burn, per la Burn Residency.
Questa cosa mi fa davvero un sacco di piacere. Sai, anche io ho un’etichetta, ho appunto una residency a Ibiza, quindi so quanto sia importante il marketing, il promuoversi, e il farlo nel modo più efficace possibile. Che un marchio così importante, che tra l’altro in questi anni sta facendo cose molto significative nel campo del clubbing, mi venga a cercare per me non può che essere motivo di enorme soddisfazione. Guarda qua: siamo in un festival eccezionale come il Kappa FuturFestival, e io sono qui anche grazie a Burn. In generale è bello quando un brand si accorge di te e ti chiede una collaborazione, ma quando lo fa un brand così forte e che soprattutto fa cose così grosse e significative in quello che è il tuo campo, la soddisfazione è doppia. Non è come essere testimonial, che so, di una marca di orologi che sì, vuole sfruttare la tua popolarità e va bene ma in realtà del mondo del clubbing non gliene importa granché; con Burn è evidentemente diverso.
Ok, ora che sei ambassador alla Burn Residency una delle prima cose che ti capita è avere davanti dei ragazzi che vogliono emergere, che vogliono farsi notare: qual è il primo consiglio che gli dai?
Semplice: devi imparare a fare la “tua” musica. Quando ho iniziato io, parliamo della fine degli anni ’90, era più che altro fondamentale – per farsi notare – essere prolifici. Oggi è diverso: non ci vuole nulla a produrre una traccia, quindi è molto più facile per chiunque essere prolifico. Dirò di più: oggi le opportunità sono molte più di prima, si ascolta più musica di un certo tipo, si balla più musica di un certo tipo, siamo entrati in modo organico nel panorama della cultura contemporanea. E allora, a maggior ragione: concentrati a fare la “tua” musica, e falla col cuore. E anche: falla bene.
Detto così, pare semplice…
Non lo è, perché nel fare tutto questo devi comunque lavorare duro. Ma vale per il djing, varrebbe anche se tu volessi diventare un buon meccanico o un buon elettricista.
A proposito di come fare la musica e di come viene fuori, quanto sei cambiato tu, musicalmente parlando, negli anni?
Fortunatamente, sono riuscito ad evolvere negli anni. A dare le risposte giuste alle nuove sfide che via via mi si presentavano. Quando ho iniziato io ero molto legato alla house più classica, più soulful, Vega, Morales, Knuckles, quella roba lì. Questa era la “mia” musica e, guarda, a dire il vero lo è ancora adesso. Oggi però che mi ritrovo sempre più spesso a suonare in orari da peak time quello che alla gente va dato è anche energia, e una house troppo improntata sui vocal può non essere la cosa giusta al momento giusto. Ho imparato a gestire questa cosa. Io mi porto dietro sempre tanta, tantissima musica, ma non ti nascondo che quando succede di arrivare, magari in qualche festival, subito dopo un dj dall’impronta molto techno posso andare un po’ in difficoltà. Ecco perché, potendo scegliere, amo quando ho degli slot abbastanza lunghi: ho il tempo di “calmare le acque” un po’, portare le persone sulla mia lunghezza d’onda, per poi piano piano farle partire verso un viaggio nuovo, diverso. In generale, capita anche a me di sbagliare, di non imbroccare il set: sono un essere umano, mica un robot. Ma una cosa è certa: ci metto sempre il massimo impegno.
Quando è iniziata la tua “seconda vita artistica”, quella appunto a nome Hot Since 82, pensavi che saresti arrivato fino a certi livelli?
Proprio per nulla! Io ho iniziato a fare il dj a fine anni ’90, le mie prime release risalgono al 2003. Ad un certo punto ero arrivato anche a un buon livello, si potrebbe addirittura parlare di successo, qualcosa durato un paio d’anni. Ma la musica e il djing sono anche il frutto di come stai emotivamente: e ad un certo punto mi sono ritrovato in una fase difficile della mia vita, sia emotivamente che economicamente, e tutto è iniziato ad andare un po’ a rotoli. Fino a quando ho proprio smesso. Mi sono fermato. Non facevo più nulla. Sono stati anni veramente duri, scuri. Anche perché io sono troppo una persona caotica e disorganizzata per pensare di fare qualcos’altro…
…non vedo benissimo il ristorante che aprirai, quando ti sarai ritirato.
(risata, NdI) Grazie per la fiducia! Dai, diciamo che ci proverò! Comunque ecco, tornando a noi, tornando a quel periodo brutto della mia vita. Mi spostai a Leeds, la capitale dello Yorkshire, la mia regione, e Leeds bisogna dire che ha una storia molto lunga e ricca in fatto di scena house. Mi ha fatto bene, andare a vivere lì. Ho ripreso ad uscire; e, coincidenza fortunata, era proprio il periodo in cui un certo tipo di sonorità, in Inghilterra, stava avendo una grande rinascita. Parlo di musica con molti più vocal dentro, pensa in primis a Jamie Jones, lui e altri hanno veramente dato una scossa notevole in certi anni, influenzando tante persone. Anche me. Tant’è che insomma mi ritrovavo immerso in tutto ciò e, come d’incanto, ho ritrovato l’entusiasmo. Potere della musica. Ho ritrovato entusiasmo, ho ripreso ad emozionarmi. E ad un certo punto mi sono pure detto: “Vabbé, perché non riproviamo a fare qualcosa?”. Metto in circolazione un paio di tracce, e provocano subito fra i miei amici un entusiasmo to-ta-le. Al che loro mi fanno: “Ok, come si chiamano queste tracce? Come le fai uscire?”. Di una cosa ero certo: non volevo usare più, come avevo fatto fino ad allora, il mio nome e cognome, per le mie produzioni e per la mia attività da dj. Ma sai quanto è durato il brainstorming, per arrivare a Hot Since 82 come nome d’arte? Dieci secondi. Non più di dieci secondi. Infatti mi fa ridere quando oggi la gente mi avvicina e mi fa “Il tuo nome d’arte è fantastico!”, sapessero quanto c’ho messo a sceglierlo… (ride, NdI) Comunque sì: ora sono in una fase bellissima. Direi proprio la migliore della mia carriera. E nell’esserlo, guardarmi: sono qua con te, al Kappa, e quello che sto bevendo è acqua. Questo dice molto.
Oggi il tuo set mi ha veramente impressionato, il festival è pieno di grandi nomi che hanno anche fatto bene, qualcuno anche più di quanto mi aspettassi, ma tu sei stato uno dei migliori.
Di nuovo: la musica che fai e che suoni è il riflesso di dove stai come persona. Sono una persona felice, oggi. E l’anno prossimo mi sposo. Ora posso dire che davvero le cose non potrebbero andare meglio, ma sono passato come ti dicevo anche dall’aver toccato il fondo. Un fondo molto brutto. Ma questo è importante: perché ti dà la consapevolezza che se anche tutto questo finisse domani, il mio è stato comunque un viaggio bellissimo, un viaggio di cui andare orgogliosi.
Foto di Andrea T