I Chemical Brothers di “geography”, nel mondo della musica elettronica, ne hanno sempre avuta pochissima: come sarebbe possibile inquadrare in un singolo genere quanto messo in mostra negli ultimi trent’anni da Ed Simons e Tom Rowlands senza trovarsi al centro di un dibattito infuocato? I Brothers di Manchester sono stati tutto ed il contrario di tutto. (Quasi) sempre attenti a non cavalcare l’onda dei trend musicali di facile assimilazione. Risultando spesso originali, variegati, un po’ zarri ma anche dannatamente, dannatamente stilosi.
La loro nuova fatica, appunto denominata “No Geography”, uscita questa mattina in tutti gli scaffali – digitali e non – del globo, era molto attesa per tutti i motivi di cui sopra. Ma soprattutto, in un momento storico in cui tanti artisti seminali della musica elettronica si stanno imbolsendo – musicalmente quanto fisicamente – i Chemical Brothers hanno trovato nell’ultima decade, grazie al grande impatto di “Further” e “Born In The Echoes” e dei rispettivi live show, una quanto meno sorprendente fonte di nuova giovinezza. Continuando a far impazzire la propria fan base storica, che non li ha mai abbandonati. Neanche quando avevano fatto qualsiasi cosa – tranne ascoltare i Tokio Hotel o andare a ballare con le scarpe da calcetto – per farsi voler male nei primi 2000. Ma anche incuriosendo coloro che la musica elettronica la spizzicano in maniera sommaria. Ne avevo scritto anche lo scorso anno quando avevo portato un amico – astemio di elettronica – a sentirli all’Heineken Music Hall ad Amsterdam. E non ero riuscito a trattenere la gioia nel vederlo realmente divertito di fronte al palco nonostante non conoscesse quasi niente di ciò che stava ascoltando.
Perché, diciamocelo, quei due lì il culo alla gente lo hanno sempre saputo far muovere. Nei dischi così come sopra ad un palco. E quindi, quando mi sono ritrovato la scorsa settimana in un bellissimo negozio di dischi nel centro storico della città dei canali per l’anteprima ufficiale, ero curiosissimo di testimoniare se avrebbero saputo mantenere il trend anche in questo nuovo album. E la risposta semplice sarebbe: “Cazzo sì!” senza troppa fatica. Il disco scorre via bene, con la solita varietà di contenuti ed influenze. Lasciando subito la voglia di premere play un’altra volta. E magari un’altra ancora. Perché, si sa, lo stile ed il gusto non si comprano come i like di Instagram. E basterebbe “We’ve Got To Try”, nata dalla collaborazione con il campionato 2019 di Formula 1, per mettere in fila molta dell’elettronica da big room contemporanea e mandarla dovutamente a stendere. Un pezzo di rara raffinatezza ma allo stesso tempo di grande impatto, con orchestre d’archi a braccetto con epiche acid capaci di rivoltare il dancefloor come un calzino.
(Eccolo, “No Geography”; continua sotto)
Così come “MAH” e “Free Yourself”, che già giravano col carrozzone dell’ultimo tour, e che erano state rilasciate come primi singoli nei mesi scorsi. Tracce dalla base croccante, degne di un nuovo “Electronic Battle Weapon” che molti pensavano sarebbe uscito al posto di quest’album, anche se forse un filo caotiche in alcuni passaggi. Tanto da mandare in distorsione gli impianti senza troppa fatica durante i live a cui avevo assistito lo scorso anno. Ma indubbiamente dei veri e propri “dancefloor banger” di cui ogni album che i Brothers hanno messo in terra è sempre stato ben farcito. Allo stesso modo non è mancata una parte più leggiadra e melodica, perfettamente racchiusa in “Catch Me I’m Falling”. La traccia che fa calare idealmente il sipario, come era stato con “Radiate” e “Wide Open” pochi anni fa. Come da tradizione, i Chemical Brothers prima ti prendono a ceffoni, poi però si preoccupano di non lasciarti andar via senza farti almeno due grattini al cuore prima di rispedirti al VIA per un’altro giro di calcinculo.
Ora però, avendo fatto le dovute riverenze, tocca essere un filo più critici e mettersi a scavare un filo più a fondo. Cosa potrebbe mancare a questo album? Inizialmente, appena ascoltato, avevo pensato a quei 2-3 singoli che anche nei dischi peggiori – vedi “Galvanize” e “Believe” – erano comunque rimasti impressi nella memoria collettiva negli anni a venire. Ma credo sia troppo presto per fare questo tipo di valutazione: quando avevo sentito “Go” la prima volta non credevo avrebbe resistito più di qualche mese. Invece è stata ancora la traccia di apertura dell’ultimo tour con conseguente plebiscito da parte del pubblico. Si potrebbe tirare le orecchie ai Chemical Brothers per essersi fatti, in qualche passaggio, risucchiare un po’ dal circolo vizioso della synthwave alla Stranger Things. E di aver strizzato l’occhio anche al ritorno dell’electro. Tutte cose che normalmente avrebbero lasciato indifferenti i ragazzi di Manchester. Ma che gli possiamo perdonare all’interno di un lavoro, ancora una volta, davvero ben fatto.
Potremmo anche dire che, ancora una volta, non ci sono state rivoluzioni musicali o spunti che possano aprire al nuovo. Simons e Rowlands stanno continuando a succhiare la tetta di “Further” da due album a questa parte. Proponendo il loro, o meglio I loro suoni caratteristici riuscendo comunque a mantenere una certe freschezza di fondo. Cosa sicuramente non da tutti. Ed in un’epoca in cui di innovazione reale in campo musicale se n’è vista davvero poca, affidarsi al caldo abbraccio delle proprie sicurezze risulta essere un più che discreto premio di consolazione.