L’avete visto ieri, il set di tre ore di Ilario Alicante sotto l’Albero della Vita dell’ex distretto Expo di Milano? L’hanno visto in tanti – oltre mezzo milione di visualizzazioni a leggere il counter accanto al video – ma il fatto di aver potuto vedere soltanto l’inizio in presa diretta ci ha spinto a guardarcelo con calma il giorno dopo, ovvero stamattina. Ed è stata una ottima visione anche così. Se per caso ve lo siete perso, recuperatelo qui, lo inseriamo poco più in basso. Ma intanto, seguiteci anche in qualche considerazione.
Ieri ci eravamo concentrati su un altro punto: non la musica, non l’iniziativa in sé, quanto il fatto che avesse creato un “ponte” fra sfera clubbing ed istituzioni. Qui le nostre considerazioni. Oggi l’obiettivo va spostato. Va spostato prima di tutto perché è stato di gran lunga l’evento più grande, più ambizioso e meglio organizzato fra tutti quelli che si sono succeduti on line in queste settimane. Senza nulla togliere agli altri set (se ne sono visti di musicalmente notevoli), qui davvero si è giocato su un altro livello. Per vari motivi.
Uno di questi è che qui si è trattato veramente di concentrarsi su un evento, e su un artista. Chiaro: c’era la causa, fondamentale e sottolineata mille volte dallo stesso Ilario, della raccolta fondi a favore della Croce Rossa. Ma al contrario di tutti gli altri set visti finora, non era un qualcosa legato a un club, a un’etichetta, a un’agenzia; non rappresentava insomma esplicitamente un’identità collettiva ed allargata ben specifica, né era una “soluzione d’emergenza” tanto per fare qualcosa a club chiusi per tenerci tutti quanti in contatto e creare gruppo. Era ed è stato invece un progetto preciso, articolato ed ambizioso.
La cosa si è riflessa anche nella musica. Il set infatti ha avuto una grammatica molto precisa, con un inizio e una fine espressamente pensati e calibrati e con tutto quello che stava in mezzo, in generale, molto attentamente stilizzato e ben selezionato. Non era insomma “suono due dischi per divertirmi e divertire”: ma era evidente la voglia di dare vita a qualcosa che fosse uno step in più. E non c’era nemmeno la voglia di strafare, non ci sono mai stati dei passaggi incentrati sul virtuosismo tecnico più scintillante, visibile e superficiale. Insomma: si è sentito il peso della responsabilità verso un progetto così sfaccettato, fatto anche di un estesissimo network di partner, fatto di una location per nulla banale ed invece altamente simbolica, fatto di una regia, fatto di droni in giro per la città deserta ad “arricchire” l’impatto complessivo del progetto.
Ecco. Questo potrebbe essere il nostro futuro. Almeno per un po’ (notizia di oggi: il Kappa FuturFestival è rimandato al 2021). Questo potrebbe essere, finché non vengono a cadere tutta una serie di limitazioni anti-CoVid, l’unico modo per portare avanti dei progetti capaci di creare risonanza ed aggregazione. Una volta di più, è apparso chiaro che aggregazione fisica ed aggregazione virtuale, per uno spettacolo artistico come è la musica (e quindi anche un dj set), corrono su due binari molto diversi. Se la seconda prova a ripercorrere solo le dinamiche della prima, fallisce. O comunque, funziona a metà.
Allo stesso Ilario, per abitudine, per entusiasmo, per intensità, è scappato qualche volta un gesto che è apparso totalmente lunare, quasi fuori luogo, per quanto sia in realtà un gesto normalissimo e che appartiene a ogni singolo dj a parte quelli davvero troppo imbalsamati: alzare la mano, agitarla a ritmo, presi dalla musica. Un gesto che nella sfera EDM è stato ripreso e portato al parossismo macchiettistico, ma che comunque ha una chiave chiara e ben precisa: trasportare empatia ed intensità dalla console verso il pubblico.
Ma quando il pubblico non c’è? Quando al suo posto c’è solo un vuoto metafisico? Al di là di ogni considerazione sul fatto se sia meglio o peggio, è uno sport diverso. E’ insomma uno sport in cui il gesto più semplice, positivo e naturale del mondo per un dj diventa, improvvisamente, “strano”. E’ uno sport in cui tutto deve essere un po’ più freddo, cerebrale, calcolato, stilizzato. E’ uno sport in cui cambiano le regole d’ingaggio estetiche – e questo anche se i suoni, i dischi e i protagonisti migliori possono essere gli stessi. Ecco: questo sport ieri Ilario Alicante se l’è giocato decisamente bene.
Abolire completamente la componente fisica e soprattutto quella di libertà, in favore di un’aggregazione irregimentata, è l’esatto contrario dei principi fondanti del clubbing
Però anche nel farlo, nel giocarselo cioè ben bene, ha fatto capire una volta di più che il clubbing è e sarà un’altra cosa (e lui lo sa bene, visto che in quella disciplina è un campione, come ha presente chiunque l’abbia visto suonare). Ci sono molte discussioni, lecite e doverose, su quando riaprire locali e discoteche e su come facilitare ed anticipare questa riapertura immaginandosi protocolli, misure di distanziamento, addirittura tute speciali dove isolarsi, cose così. Va bene, va benissimo. Ma va bene soprattutto se il focus è (lecitamente, doverosamente) imprenditoriale, se si vuole cioè cercare di salvare il salvabile. Ma abolire completamente la componente fisica e soprattutto quella di libertà, in favore di un’aggregazione irregimentata, è l’esatto contrario dei principi fondanti del clubbing. Può andare bene per l’intrattenimento in generale, quello sì; è più che possibile trovare soluzioni per i cinema, i teatri, perfino forse i concerti e i grandi festival all’aperto; in realtà può andare bene anche per disco-pub e discoteche più tradizionali, quelle dove ci sono i tavoli, dove c’è un certo tipo di atmosfera, dove la musica a predominanza ritmica è un pretesto per stare insieme in allegria e non il focus quasi sciamanico dell’esperienza. Ma non oltre.
Ci siamo forse un po’ dimenticati, da un bel po’, di ragionare sul senso di quello che facciamo, di cosa ci piace, di quali conseguenze porta
Ci possono essere infatti due chiavi, per declinare l’aspetto “culture” dentro “club culture”, in tempi di lockdown e di limitazioni stringenti d’assembramento. Uno è quello, appunto, quasi sciamanico, di sicuro molto meta-fisico (nell’accezione proprio tecnica, letterale); e in tal senso ieri Alicante e il team che ha costruito l’evento all’Albero della Vita hanno preso decisamente la via giusta, ciascuno nel suo: Ilario costruendo il set come l’ha costruito, calibrando tutto, il team creando luoghi, immagini ed immaginario di un certo tipo. L’altro invece è quello di (ri)trovare i fondamenti della cultura, di (ri)prendere ad esplorare radici e divagazioni e sviluppi estremi della musica da club, di (ri)scoprire la bellezza dello storytelling attorno alle scelte di un dj, di un promoter, di un’audience, per capirne/verificarne le reali dinamiche originarie e l’autenticità delle intenzioni.
Un futuro dove si tenta di imitare la Boiler Room così come nata originariamente (set in diretta web, posti piccoli, audience fisica limitata mentre quella virtuale è potenzialmente infinita) è perdente. Lo sa la stessa Boiler Room, che negli ultimi tempi ha lavorato molto per fare date “vere” in club di un certo tipo, ad alto tasso di autenticità, e ha lanciato anche moltissime operazioni di approfondimento (interviste, monografie, eccetera). Ma la Boiler Room così come era nata ha avuto successo non perché idea vincente (e monetizzabile) in assoluto, ma perché curiosità nuova ed originale che però è non più di uno sfizio collaterale&temporaneo rispetto a ciò che il clubbing più autentico è e rappresenta.
Potrebbe anche essere una occasione interessante. Potrebbe anche essere il momento, finalmente, per favorire i dj che hanno una vena artistica e creativa, quelli con personalità, quelli che davvero “disegnano” idee, ideali, storie, riferimenti, suggestioni ad ogni singola scelta, e non che si limitano ad accompagnare il suono del momento e la fattanza di chi gli balla di fronte stando attenti a non disturbare troppo questa “dinamica perfetta” (che è diventata altamente remunerativa dal 2000 in poi, da quando cioè la minimal ha smesso di essere sfida artistica per diventare, invece, efficace grimaldello economico).
Forse in questa maniera sarebbe più facile catturare favore attorno ad una giustissima battaglia “tecnica” fiscale-legislativa (e quindi importantissima) che è stata riassunta davvero bene da Francesco Susca, boss di Musica&Parole, in un post su Facebook che siamo molto contenti di riportare qui e che vi consigliamo di leggere attentamente:
Poi chiaro, il confine è sottile e sarà sempre oggetto di discussione. Per qualcuno Loco Dice è arte e “clubbing”, per altri no; per qualcuno l’Objekt più destrutturato e sperimentale è l’apice dell’idea di deejaying, per altri l’esatto contrario, è la sua negazione. Però è importante stimolare il dibattito ed interrogarci tutti quanti sul ruolo del dj oggi. Perché se c’è ancora – e c’è eccome – l’equivoco del mondo del ballo come mera discoteca-grandi-successi-e-champagne, del dj che è nient’altro che un mettitore di hit più o meno stagionate, non è per un complotto dei poteri forti e per la stronzaggine di chi ci governa ma anche un po’ per una realtà dei fatti dove ancora non si è fatta abbastanza chiarezza, e ancora non ci si è divisi per bene i ruoli (…e sarà difficile dividerseli, finché il feeling principale non sarà la tolleranza ma la competizione attorno alla torta, la rabbia e il sospetto). Dopodiché, in realtà, entrambi i fronti – quello “grandi hit” e quello più artistico – potrebbero e dovrebbero ambire allo status da artista non di Serie B, come delineato da Susca. Ma la differenza di background, di obiettivi, di riferimenti deve essere chiara, discussa, sviscerata.
A questo potrebbe servire il lockdown, a questo potrebbe servire la Fase 2 (e, chissà, la Fase 3). Alla fine tutti quanti noi (proprietari di club, dj, promoter, appassionati) nel correre e nel cercare di (rac)cogliere tutto ciò che c’è da (rac)cogliere, ci siamo forse un po’ dimenticati, da un bel po’, di ragionare sul senso di quello che facciamo, di cosa ci piace, di quali conseguenze porta.
Ragionare ti porta anche a capire che quello di Ilario Alicante all’Albero della Vita è stato un bellissimo momento di unione per molta scena club ma, al tempo stesso, rispetto a questa scena è stato comunque qualcosa di “altro”, uno spostamento&scostamento. Ci ha fatto vedere uno sviluppo possibile, sì, un futuro che al momento nessuno può escludere: l’esperienza del clubbing che viene “sublimata” e resa metafisica, in un procedimento simile idealmente a quello approntato da Lorenzo Senni col suo “rave vouyerism” e la sua trance pointilistica senza beat. Ma il clubbing è un’altra cosa, e va al di là dei dischi (ottimi) che suoni. Il clubbing è quella cosa per cui, quando alzi la mano a ritmo perché è entrato un disco forte e una bassline avvolgente, l’energia del pubblico che ti sta di fronte inizia a scorrere forte, potente, evidente, empatica, fisica. Un’energia che non puoi e potrai mai ricreare in vitro, su schermo, da casa, se nella vita reale è tutto come nel “Detroit People Mover” di Squarepusher.