Inizia tutto sulle note improvvise di “Blitzkrieg Pop” dei Ramones, da lì si spengono le luci, parte il boato. No: non è una scelta casuale, iniziare così. Questa infatti è la cronaca di un concerto che non avrebbe dovuto svolgersi – non ora, non così. Ed è anche un concerto che per certi versi avremmo preferito non vedere. Cosmo infatti, per lanciare un disco bellissimo e forse non del tutto capito (ma quando rompi le regole del gioco in modo così netto è forse destino accada), aveva preparato uno show molto particolare. Tre date a Bologna (in origine una, poi due, infine tre: la forza dei sold out che si susseguono uno dietro l’altro), un allestimento scenografico e visuale fatt’apposta, una specie di Sabba collettivo che doveva essere un po’ di più di un concerto. Il tutto in una venue circense, un po’ chiusa un po’ no. Bene: l’assurdità bizantina della legislazione italiana – e la voglia di non decidere del Governo, che su cose marginali non si impunta, lascia che i ministri si scannino fra loro, la strategia Draghi è questa – ha fatto sì che a Bologna la firma per consentire lo svolgersi di questo evento non è arrivata, a Milano sì. Per lo stesso numero di persone, più o meno. Solo al chiuso.
Per fortuna l’Alcatraz è vasto ed accogliente, la trafila all’ingresso è stata precisissima (misurazione temperatura, controllo Green Pass, controllo documento: niente cazzate, niente Pass falsi), e le tremila e passa persone che in meno di quindici giorni hanno fatto loro il biglietto si sono trovate bene, sono state bene. Sì: meno di quindici giorni. Perché davvero, questo concerto non avrebbe dovuto esserci; questo concerto è stato deciso praticamente all’ultimo; questo concerto è un moto di impazienza e un atto di vita diventato improvvisamente impellente, necessario. Questo concerto è stato ed è un Blitzkrieg, una guerra-lampo, decisa d’impulso. Ed è stato una guerra all’interno del pop. O contro il pop, chissà.
Cosmo non arretra, infatti. Se “La terza estate dell’amore” era (ed è) come album un notevole atto sovversivo contro i binari prestabiliti del pop, col suo scegliere la via del clubbing e dell’espressionismo testuale quasi frichettone abbandonando quella del pop e dell’indie “pulito” che ora tanto furoreggia, la sua traduzione dal vivo segue esattamente la stessa via. Nessuna marcia indietro. Di più: i brani storici, quelli che hanno catapultato Cosmo nel pop, negli airplay radiofonici e negli streaming milionari, giocoforza non mancano è anche vero che vengono completamene riarrangiati. Ci viene passata sopra una pesante mano di vernice che sembra tirata da Rick Smith. Sì: c’è molto, moltissimo Underworld nel modo in cui questo live è costruito, musicalmente parlando. Musica a cassa dritta “piena”, pad di synth assai avvolgenti, il tocco umano della voce e delle parole a scompaginare e spezzare, più che cantare ed accompagnare. Ma più di tutto, c’è una grande attenzione a rendere l’intero insieme coeso e coerente, a costo appunto di stravolgere melodie ed armonie dei pezzi che tutti vorrebbero cantare in coro (…e che alla fine, comunque, cantano).
Cosmo non arretra neppure nel prendersi dei rischi. E’ un concerto lungo, lunghissimo per gli standard normali: tre ore, praticamente. Ed è un concerto che non si fa problemi a lambire la stasi, anche la noia volendo, ma – fidatevi – è una scelta bellissima: la parentesi ambient che plana a metà sul tutto o i cali di intensità voluti in certi momenti rendono il concerto un’esperienza, vera, autentica, lunga. Chiunque balli in un club o sia abituato ad abitare la notte lo sa: prima di arrivare all’alba, si passa per momenti di totale esaltazione ma anche per alcuni di noia, di scesazza, di stanchezza – e ad un certo punto però ti rendi conto che senza questi ultimi la magia non sarebbe scattata, non scatterebbe così forte nelle tue emozioni. Abituati come siamo ultimamente a consumare tutto subito, abituati ai brani che devono durare due minuti o meno sennò la gente non li ascolta fino alla fine, questo se ci si pensa bene è un altro gesto sovversivo; ed è un perfetto suggerimento di come la club culture possa essere l’antidoto più efficace e la resistenza culturale migliore alla liofilizzazione e banalizzazione delle dinamiche di fruizione sonora. Che sono dinamiche oggi in atto, negarlo è stupido, affermarlo non vuol dire per forza essere un boomer nemico della contemporaneità.
Ma appunto: esiste una alternativa. Esiste una via di fuga. Esiste la possibilità di fare a modo proprio. Se ci si crede davvero.
…chissà fino a che punto il pubblico di Cosmo questo messaggio lo ha interiorizzato, e fino a che punto invece vuole giusto cantare in coro le hit ed inneggiare all’idolo. Una cosa è certa: in questo momento il pubblico è dalla sua. Il boato che lo accoglie all’inizio e quello che lo saluta alla fine sono impressionanti. “Mango” e “Musica illegale” funzionano assai, e sarebbe bello funzionasse anche “Vele al vento”, prossimo singolo ed una delle tracce più belle dell’ultimo album, anche se probabilmente brano troppo malinconico e sofisticato per sbancare davvero (ah, accidenti se speriamo di sbagliarci…). Ma mai fidarsi troppo del successo e del pubblico che ti idolatra. Mai. Oggi c’è, domani chissà. O magari c’è anche domani, sì, ma per esserci vuole tenerti “in ostaggio”, vuole che tu faccia quello che si deve fare per restare sulla cresta dell’onda. Cosmo anche ieri a Milano ha dimostrato che in ostaggio non ci vuole stare, in ostaggio col cazzo che ci sta.
Ci sono ancora cose da aggiustare in questo show, musicalmente parlando: qualche incastro, parti della scaletta, una sezione finale di bis che probabilmente è troppo un anti-climax (anche se “Noi” in chiusura va lasciata). E ci sono cose che non vale nemmeno la pena giudicare, anche se lasciano qualche riflessione importante. Già: l’aver deciso di fare un concerto-blitz, preparato cioè in pochissimo tempo, ha fatto saltare tutte le progettualità più complesse legate a luci ed eventuali visuals. Ormai ci siamo abituati che qualsiasi concerto di una certa dimensione abbia un apparato luci-immagini-colori di prim’ordine, ormai anche Calcutta col suo indie-pop usa i megaschermi dei Chemical Brothers più acidi e spettacolari, e se non lo fa ci si resta male. Il live di ieri di Cosmo è stato invece decisamente “alla vecchia”, un po’ di luci da muovere in modo più o meno pianificato ma nessun “concept” particolare, nessun messaggio impressionante, nessun effetto-wow. Un po’ la cosa ci è mancata, ed è la dimostrazione di quanto ormai siamo “drogati” da questo tipo di stimoli aggiuntivi nel momento in cui andiamo ad un concerto dal vivo; ma la sfida – vinta – di Cosmo è stata quella di non farcela mancare troppo. Ad un certo punto infatti la presenza “fisica” della musica ha prevalso e non c’hai pensato più, a quanto sarebbe (più) bello questo concerto con una scenografia ad hoc più grande, più spettacolare, più pensata, più drammaturgica, o anche solo più particolare (…come lo fu il palco del tour di “Cosmotronic”: nulla di gigantesco e kolossal, non c’erano le economie allora e nessuno pensava che Cosmo esplodesse a tal punto, ma un uso intelligente, studiatissimo ed anticonvenzionale di elementi di loro standard).
Ora: ogni blitz ed ogni azione d’impulso si porta dietro delle imperfezioni, dei “sarebbe stato meglio se…”, e la data di ieri all’Alcatraz di Milano non fa eccezione. Ma è stata comunque una data in cui tremila persone hanno vissuto tre ore ballando, sudando, esaltandosi; e tutte sono uscite sol sorriso sulla faccia, nessuna esclusa. Ci puoi riuscire anche senza mega-effetti e produzioni pantagrueliche. Ci puoi riuscire anche in una fase in cui tutti abbiamo ancora paura, tutti siamo ancora preoccupati, qualcuno è ancora parecchio incattivito nelle diatribe su vaccini e non vaccini. Ci puoi riuscire; e se ci riesci hai fatto una cosa grande, importante. La prima battaglia è stata vinta.
Il premio, ora, è aumentare ancora di più l’attesa per quelle ancora più grosse ed ambiziose che sono – lo speriamo – in arrivo. Senza essere ostaggio di se stessi. Senza essere ostaggio del successo, e delle sue regole predeterminate.
(foto di Mattia Tommasone)