Sì, lo sappiamo: sono altri i concerti epocali davvero, quelli che restano appunto nei libri di storia e cambiano il corso degli eventi (o ne sanciscono la fine), non quello di cui vi stiamo per parlare ora qui. Tanto per stare in Italia: Bob Marley a San Siro o il primo Springsteen sempre nello stadio milanese, oppure i Clash a Bologna, Vasco nella “sua” Modena, il Jovanotti spiaggiato e grandioso… Si parla di situazioni che radunano decine di migliaia di persone, se non direttamente centinaia. E’ la folla, a fare la storia. E’ la folla a rubare l’occhio, l’attenzione, e l’epica.
Eppure vi assicuriamo che ieri domenica 13 marzo 2022, Casino Royale di nuovo dal vivo a Milano, negli spazi della Triennale – c’è stato qualcosa di più unico che raro, che ha raccontato parecchio di quali vertici la musica italiana possa raggiungere se tirata a lucido – e anche di cosa invece le manchi ormai sempre più spesso, soprattutto adesso che le cose vanno gran bene. Il tutto di fronte a mille persone, non di più – neanche tutte assieme, ma divise in due turni da 500 persone l’uno: perché quella è la capienza del Teatro della Triennale Milano, lo spazio per i concerti di una delle più importanti ed anche ultimamente vive realtà culturali italiane. Per capire cosa sia successo e perché davvero si sia “fatta la storia”, bisogna insomma distogliere lo sguardo dall’epica – che epica vuoi che ci sia in uno dei tanti concerti che ogni mese, ogni settimana, ogni giorno percorrono la città lombarda? E per giunta di fronte a solo qualche centinaio di persone? – e concentrarlo sull’analitica.
Attenzione: non che quello dei Casino Royale sia stato un seminario di filosofia o un coltissimo display di cultura musicale “complicata”, non alla portata di tutti, quella roba lì: al contrario. Anzi, nella primissima parte addirittura è affiorata in più di una occasione una aperta componente ska e ricordiamo – a chi non lo sapesse o non se lo ricordasse – che lo ska era la lingua d’elezione dei “primi” Casino Royale, quelli più ruspanti e meno sofisticati della fine degli anni ’80; e in generale il quantitativo poi di funk – scarnificato e digitale in alcuni passaggi, va bene, ma comunque funk – è stato altissimo, come forse mai nella storia del gruppo. Il groove ha colpito duro. E parliamo della band di “Dainamaita” (probabilmente il miglior disco funk-rock-crossover mai fatto in Italia, e pure di varie lunghezze), o di quella che l’eleganza suprema di “Sempre più vicini” (album-simbolo per una generazione di intellighentsia alternativa di quaranta-cinquantenni, colpevolmente non citato dalle generazioni successive che hanno preferito gli 883, e non fa loro onore per un cazzo) la innervava con molta più robustezza dal vivo, rispetto levigatura trip hop immortalata dal disco. Ne sanno e ne praticano, di funk, i Casino, ma bene come ieri mai.
Insomma, in questa data speciale milanese dei Casino Royale anno 2022 si è suonato tanto e con piglio, se guardiamo ai “basics”, ovvero all’intreccio tra sezione ritmica e tastiere. Se allarghiamo poi l’obiettivo, il quadro inizia a farsi addirittura più interessante. Parliamo per l’appunto di “data speciale”, parlando di ieri: vista l’aggiunta non solo di una ospite (la brava e misurata Marta Del Grandi, già arruolata tempo fa in un bellissimo progetto di Jazz:Re:Found) per qualche pezzo, ma direttamente di un quintetto d’archi, il Venaus Quintet, incontrato originariamente per questioni di manifestazioni No TAV (sotto la direzione di Giorgio Mirto, il sodalizio con lui nasce invece dal materano Open Sound, un’avventura musical-culturale davvero di pregio). Questi gli elementi. Ora: i Casino hanno fatto ska, crossover, pop / trip hop, drum’n’bass, breakbeat/dub nell’arco dei loro decenni di carriera: bene. Ma gli archi, quindi? Un orpello tanto per fare bella figura, per un tocco di spettacolarità “coreografata” in più? No. Zero.
E qui arriviamo al punto: ogni singolo elemento del concerto visto ieri aveva un suo perché, aveva una sua dignità; ma soprattutto – aveva un suo sviluppo. Ci sono gli archi, per dire? Costruiamo delle parti di live dove possano “respirare”, esprimersi, dove possano dare davvero un colore particolare immergendosi nella classica dell’ultimo secolo e creando silenzi, stasi, cambi di dinamica. Se sei intellettualmente pigro o bollito, se pensi solo all’incasso e/o alla bella figura “facile”, queste cose non le fai. Troppo complicato. Troppi rischi.
Ma i Casino in vita loro hanno (quasi) sempre rischiato. Facendosi spesso del male. O per lo meno complicandosi sempre un sacco la vita. Autolesionismo. Romantico autolesionismo. Forse per scelta etica ed identitaria; forse per il fascino discreto del “beautiful looserism” anni ’90; forse per superficialità ed irresponsabilità. Sta di fatto che sì, hanno rischiato anche stavolta, suonando nella città che è la loro “casa”. L’hanno fatto riarrangiando tutte, letteralmente tutte le canzoni presentate al concerto: chi lo fa, oggi?
E qui arriviamo al punto, ad uno dei punti che ci sta davvero più a cuore in assoluto. Oggi che le cose nella musica italiana vanno da qualche anno sorprendentemente bene (diciamolo!) con live parecchio pieni, con esordienti che nell’arco di un disco e mezzo strappano cachet da veterani, con gente indie diventata in poche mosse più famosa di Baglioni, con Sanremo che stende tappeti di velluto perfino ai rapper tatuatissimi, ecco, oggi che ci sono tutte queste condizioni di grande vantaggio e di vento in poppa si dovrebbe/potrebbe usare il suddetto vento, guarda un po’, anche per prendersi dei rischi in più. Per tentare nuove idee, per “sfidare” il proprio pubblico ed anche quello generalista, per sentirsi vivi senza rischiare ogni volta di dover tornare a fare il magazziniere o la commessa appena si vende un biglietto in meno e si scontenta un fan in più (…lavori nobilissimi, peraltro, ma ci siamo capiti). Che cazzo: davvero, oggi saremmo nella condizione di avere più coraggio artistico che mai.
L’Italia è diventata un paese per vecchi prima di tutto per un motivo preciso, e paradossale: perché non sa invecchiare
Invece, nulla. Invece tutto questo potere – anche economico – viene usato al massimo per frizzi e lazzi circensi, per videowall grandissimi e potentissimi, per fuochi d’artificio, per costumi sgargianti (ah, tanto quelli li offrono le maison d’alta moda ora tutte convertite allo street ed al pop), per consulenze roboanti, per produzioni di dischi fatti col bilancino in quanto a suono e struttura, col misurino, disegnati sartorialmente (ed industrialmente) per le regolette d’oro dello streaming. Magari anche belli, magari anche ispirati; ma nel migliore dei casi, sono dischi di artisti che celebrano essenzialmente se stessi e le loro intuizioni più consolidate, questo fanno, in loop continuo, invece di sfidare e sfidarsi andando a solcare mari inesplorati e nuove frontiere. Il massimo a cui si può aspirare, oggi, è il momento di grazia dei rapper quarantenni capitanati da Marra, che hanno (ri)alzato il livello dei testi e delle analisi: alleluja. Ma musicalmente c’è una stasi e un conservatorismo che fa spavento, nella musica italiana (ex) alternativa ed (ex) indipendente; e come messaggi lanciati, si privilegia lo spettacolo e il grande effetto all’introspezione politica e sociale. “Facciamo festa” o guardiamoci l’ombelico, ecco: forse la musica italiana è giustamente euforica e/o spensierata perché ora, stop pandemico a parte, le butta bene, guadagna, fattura, o ha ragionevole speranza di farlo. Comprensibile, via.
Quando però vedi un concerto come quello di ieri dove una band si butta senza rete, dove si mette a nudo e si espone quasi pornograficamente pur di far vedere tutto il suo DNA, un DNA che passa attraverso diversi momenti musicali e (contro)culturali, ma lo fa non per vanagloria ma per raccontare il presente, il cazzo di presente, beh, lì la differenza la vedi.
Merda se la vedi.
…e soprattutto, hai visto un’altra cosa molto importante: hai visto la capacità di saper invecchiare. Hai visto la serenità nel decidere di maturare – anche perdendo dei pezzi e dei punti se necessario – e di farlo pure vedere, senza (più) vergognarsene. Ehi, stando agli esempi più grandi e di successo: Vasco a settant’anni fa ancora il rocker ruspante e Ligabue con dieci anni in meno pure, Jovanotti sgambetta come se avesse ancora la metà dell’età che ha, i Subsonica – che amiamo, eh, e che nell’ultimo tour hanno messo su uno spettacolo meraviglioso – forse solo con alcune parti di “8” stanno iniziando a venire a patti col fatto che sono cinquantenni ma anche loro sono ancora ben fermi, soprattutto dal vivo, nelle coordinate di “Microchip emozionale”. Ma la lista potrebbe essere infinita. Infinita davvero. E racconta di un’Italia che è diventata un paese per vecchi prima di tutto proprio per un motivo preciso e paradossale: perché non sa invecchiare. Perché chi ha cinquant’anni vuole ancora comportarsi come chi ne ha venti/trenta, e chi invece ne ha sessanta o settanta vuole ancora – per principio e non per merito – il potere che, altrove in Europa o in USA o in Asia, hanno quelli che ne hanno quaranta. Va così, da noi.
Ieri i Casino hanno citato eccome generi musicali anche “giovani” e/o da dancefloor, ma lo hanno fatto con gusto e compostezza senza fingere di essere quello che non sono (più). Nel momento in cui poi hanno incorporato dei momenti “anziani” (gli archi, appunto, i rimandi quasi schönberghiani, o certi rallentamenti, certe pause quasi teatrali), paradossalmente si sono ringiovaniti come non mai. E nel farlo non hanno dovuto tradire se stessi, esprimere abiure. In nessun modo.
Musicalmente c’è una stasi che fa spavento, nella musica italiana; e come messaggi lanciati, si privilegia lo spettacolo e il grande effetto all’introspezione politica. “Facciamo festa” o guardiamoci l’ombelico, ecco: forse la musica italiana è giustamente euforica e/o spensierata perché ora, stop pandemico a parte, le butta bene, guadagna, fattura, o ha ragionevole speranza di farlo
Nemmeno nella scenografia, ad esempio. Anzi, “scenografia” è riduttivo, perché quello di ieri più che una scenografia diventava proprio un’autentica “drammaturgia”, tra l’apporto grafico – ed anche fattuale, come spieghiamo tra un attimo – del venerabile DeeMo, uno dei padri della cultura hip hop italiana, e quello proprio “registico” di Pepsy Romanoff. Non ve la vogliamo raccontare questa “scenografia/drammaturgia”, perché rischieremmo di spoilerare una cosa che non va assolutamente spoilerata se questo spettacolo avrà altre repliche. Una cosa però ve lo possiamo dire, ecco: ad un certo punto in sala si diffonde addirittura l’odore acre delle bombolette spray, perché si crea dell’aerosol art dal vivo, lì sul palco, a contatto di narici, di senso, d’olfatto. Il sapore della “strada” nella sua declinazione più arty – che nella storia dei Casino Royale è sempre stato bussola – viene insomma celebrato a dovere pure lui: in maniera molto intelligente e, pur con pochi mezzi, in maniera spettacolare e decisamente d’impatto.
Ieri, questa data specialissima dei Casino Royale (…ce ne saranno altre? Sono sostenibili le economie di un concerto che coinvolge il lavoro di almeno una trentina di persone, se non sei una band basata dal successo degli streaming e dei play su YouTube?), ha segnato insomma davvero la storia. Non è una esagerazione.
Lo ha fatto perché ha dimostrato che in Italia si può essere quarantenni/cinquantenni senza rinunciare alle intuizioni avute quando gli anni erano la metà (e senza rinunciarle a svilupparle bene, in modo cioè “vivo” e non solo revivalistico), ma anche senza per forza dover restare la replica di se stessi all’infinito. Puoi restare rilevante anche se ti evolvi, se invecchi, se aggiusti il tiro, se esplori territori sconosciuti e scoscesi (Casino Royale e la dodecafonia sinfonica con gli archi e i beat autechriani, ma che davvero? Sì, davvero). Puoi riuscirci. E’ possibile. Anche se la discografica o il tuo manager ti dicono di no, timorosi degli effetti sulla market share.
Speriamo davvero ci siano altre date. Speriamo che questa del 13 marzo di Milano, grazie al festival Fog voluto e realizzato dalla Triennale, non si riveli essere un unicum che resterà nelle retine e nelle sinapsi di chi c’era, e stop. Sarebbe un bel segnale per tutti, se vivesse ancora questo live. Se trovasse i mezzi per farlo. Anche perché sennò ve li meritate i Thegiornalisti, i trapper, i Pezzali, i balletti addomesticati e i tormentoni finto-tristi: che fanno tutti onestamente il loro lavoro per carità, in qualche caso lo fanno anzi pure bene, ma raccontano essenzialmente di un paese che nella cultura popolare si rifiuta in modo cocciuto di privilegiare l’intelligenza e la competenza al successo (ed all’apparenza), o almeno di dar loro pari dignità. Non chiediamo tanto: almeno pari dignità. Almeno quella. E poi ci sorprendiamo se siamo in declino (o addirittura: ce lo nascondiamo da soli, rimozione della realtà).
Nota a margine finale: i difetti che nel concerto ci sono stati, le piccole imperfezioni ed imprecisioni, le cose da mettere a posto, che non sono sì mancati, non hanno però fatto altro che aggiungere più sapore e più intensità: In epoca in cui perfino i dj set sono preregistrati (vi rendete conto?!) e nei live abbondano le parti in playback e le tracce vocali “a sostegno”, ecco, abbiamo trovato molto importante e “vivo” pure questo.
Ieri, i Casino Royale hanno costruito un pezzo di storia. La loro, di sicuro: hanno dimostrato infatti di essere più vivi e propositivi che mai. Ma anche, allargando l’obiettivo, la storia che sarebbe bello diventasse un po’ più di tutti: per scrollarci di dosso il declino e l’immobilismo. Per far capire che evolvere, ed evolvere bene, si può, è possibile, e senza nostalgia di un passato che non tornerà più (ma senza rinunciare a, giustamente, citarlo, rispettarlo). Succederà mai? Questo cambiamento di mentalità arriverà mai, arriverà mai “Tra noi”?