E insomma: l’intervista più chiacchierata, anticipata, commentata senza ancora essere vista e discussa nel mondo musicale italiano degli ultimi anni da ieri è, finalmente, on line. Era ora. Se non sapete di cosa si sta parlando: Fedez – che non ha bisogno di presentazioni – incontra Antonio Dikele Distefano, il boss di Esse Magazine, il media più autorevole (con buona pace dei detrattori, i numeri in questo sono oggettivi) per quanto riguarda la scena hip hop italiana. “E allora?”, dira qualcuno di voi; e allora, il problema è che da anni c’è una palese inimicizia tra Fedez e la testata in questione. Una delle tante inimicizie nel mondo del rap, che durano anni ma che al tempo stesso ogni tanto si sgonfiano all’improvviso.
Poteva accadere anche qua. Non è accaduto. Altro che sgonfiarsi. Cosa è accaduto, insomma? Esse ha fatto la richiesta a Fedez per inserirlo nella serie di interviste che sta facendo con un format particolare (interviste sostanzialmente “pubbliche”, in un teatro da 400 persone che ad ogni appuntamento va sold out), Fedez ha accettato. Un po’ a sorpresa. Preludio di un calumet della pace? O semplicemente della voglia di parlare del proprio nuovo album “Disumano” (così magari ci si concentra sulla musica) o in generale di raccontarsi finalmente in modo disteso anche in un contesto in teoria ostile, per dimostrare di essere – come in realtà è – una persona intelligente e con posizioni interessanti ed articolate sullo show business? Poteva essere. Non lo è stato.
Non lo è stato per la sindrome di accerchiamento di cui Fedez ha sofferto per tutta la durata dell’intervista. Sindrome pregressa: è stata sua compagna prima ancora di salire sul palco, lo sappiamo come testimoni di prima mano. Giustificata? Non giustificata?
In realtà, è una cosa che non capiamo proprio alla base – perché averla, questa sindrome, questa tensione? Perché? Fedez ha tutto per essere soddisfatto il giusto nella vita, almeno per come lo percepiamo (…e lo percepiamo per quello che lui vuole farci vedere di sé, cioè tanto): nessuna preoccupazione economica, successo negli affari, possibilità di scegliersi i collaboratori più congeniali, una bella famiglia, libertà creativa. E’ talmente consapevole di sé ed equilibrato che ha avuto il coraggio – e questo è davvero molto apprezzabile, lo diciamo senza nessuna ironia – di far vedere anche i suoi lati oscuri e le sue insicurezze, in quella specie di docu-reality su se stesso e sulla moglie che è il “Ferragnez” che potete trovare ancora adesso su Amazon Prime.
E poi, come continua a ripetere più volte nell’intervista incriminata (controllate voi stessi per credere, non è una illazione malevola): lui col rap ormai c’entra fino ad un certo punto. Lo rivendica proprio. Lo rivendica con Dikele nell’intervista in questione, come detto, lo ha fatto e lo fa in molte altre chiacchierate. E ci sta, caspita se ci sta: di gente che vuole uscire dalla gabbia di onori ed oneri della street credibility da hip hop l’Italia è piena, da Neffa vent’anni fa ad Rkomi e Coez recentemente, e sono tutte persone che un percorso vero all’interno della scena lo hanno fatto, nessuno li può accusare di attribuirsi un passato che non hanno (non lo si fa nemmeno con Fedez, a ben vedere; non è Moreno). Al massimo li si può accusare di “tradimento”, ‘sti qua (lo diceva già Fibra, includendosi polemicamente e sarcasticamente fra i potenziali traditori): ma è una accusa a cui si può ribattere in molti modi. E se si ha la coscienza a posto e si è davvero concentrati oggi su altro, vedi Rkomi e Coez, è una accusa che scivola addosso che quasi manco te ne accorgi.
La domanda allora è: perché Fedez è arrivato così nervoso a teatro per l’intervista con Dikele, e nervoso ed ostile è rimasto per tutto il tempo dell’intervista stessa? Perché dice di non avere quasi più nulla a che fare con il rap, ma quasi tutte le sue risposte e i rimandi a cui porta fanno in direzione delle storie, dei riferimenti e delle baruffe chiozzotte dell’hip hop nazionale? Una risposta possibile potrebbe essere: perché Esse è “la” testata oggi in ambito rap, perché Dikele da lì arriva e lì in buona parte ancora opera. Ed è lì insomma che si va a parare, come target, come attenzione del pubblico. Ok. Ma resta il punto: perché sentirsi così toccato? Perché essere così aggressivo? Perché essere così polemico? Perché, se del rap e delle sue dinamiche di scena ormai ti importa fino ad un certo punto?
(Intanto, giudicate voi: eccola, l’intervista. Continua sotto)
Le risposte possibili sono due. La prima: si ha la sindrome di voler piacere a tutti. Francamente però Fedez ci sembra aver superato ampiamente questa fase: ha già dimostrato di poter piacere o comunque interessare ad un numero enorme di persone – e questo con la massima naturalezza, essendo semplicemente se stesso. La seconda, che è probabilmente quella più vicina alla verità: Fedez col rap e con la scena rap ha un problema ancora irrisolto. Ha il classico odio-amore catulliano (ereditato dal “fratello maggiore” artistico J-Ax), per cui a questa scena riconosce di essere stata madre – lo ha cioè formato artisticamente, ma anche umanamente – ed al tempo stesso di essere stata matrigna, una matrigna bella stronza ed arrogante, nel senso che ad un certo punto aveva pretese eccessive ed anche sostanzialmente ingiustificate nel momento in cui tu, il figliolo, decidi di crescere a modo tuo, non insomma per forza nei canoni dell’ortodossia. E questo esser stato – ed in parte essere ancora – matrigna, da parte dell’hip hop, a Federico Lucia non va giù. Non lo accetta. Lo agita. Non lo fa stare tranquillo. Non lo fa stare in pace con sé. Quando avrebbe tutti i motivi – e li elenca lui stesso, spesso con grande intelligenza – per esserlo.
Tutto questo è emerso molto bene nell’intervista con Dikele. E basterebbe questo per considerarla una intervista parecchio riuscita, giornalisticamente molto interessante. C’è contrasto e c’è tensione fra intervistato ed intervistatore? Va bene. O meglio: andrebbe male se il risultato fossero dieci minuti di risposte a monosillabi, ma la realtà dei fatti dice che i due sono rimasti seduti a parlare fra loro quasi due ore. Quindi oggettivamente è una faccenda interessante: due persone che non si rispettano, che hanno visioni del mondo diverse, in grado di stare sedute due ore a parlare fra di loro è una vittoria a prescindere e, giornalisticamente, è una cosa interessante e benefica a prescindere. Un valore. Non banale.
Qui però entriamo in campo noi. Noi pubblico. Che sempre più abbiamo bisogno di polarizzazione, di cercare un “vincitore”, quello e solo quello, a maggior ragione se si confrontano due persone, due partiti o due visioni della vita che sono diverse fra di loro; e nel cercarlo, lo facciamo con toni sempre più da curva (quando va male) o da analisi di un confronto elettorale tra candidati alle presidenziali americane (quando va bene). Sinceramente se dall’intervista a teatro di Esse sia venuto fuori meglio Fedez o Dikele è un problema relativo (e ognuno può dare la sua opinione) o comunque non è la questione più importante: la questione più importante, come appena detto, è che persone/visioni non coincidenti fra loro si siano confrontate a lungo, senza troppi filtri e senza nascondere antipatie, ma restando sempre nell’alveo dell’educazione (…per anni il rap italiano quando c’erano differenze capiva solo il linguaggio dell’insulto alla madre o delle mani addosso: meno male che si è cresciuti).
Questo accade per molti motivi. Uno di questi, e se ne parla troppo poco, è che il giornalismo è diventato troppo addomesticato. Si sta sbilanciando sempre di più il rapporto di forza tra mondo dei media ed artisti, a favore di questi ultimi: un tempo erano i media a sancire la buona sorte degli artisti, oggi ormai è sistematicamente il contrario. L’artista famoso “concede” pezzi di se stesso ai media, giusto come favore (e i media questi pezzi se li prendono per avere un boost di numeri, di visualizzazioni di esposizione), perché per il resto può lavorare meglio, più efficacemente e con meno rotture di cazzo senza nessuna intermediazione, rivolgendosi direttamente al pubblico tramite i social. Cosa prima impossibile: dai giornali, dai magazine, dalle radio ci dovevi passare, se volevi esistere presso un grande pubblico. Oggi non più.
E’ cambiato anche il comportamento del pubblico: un tempo solo i fan sfegatati cercavano notizie sugli artisti attraverso i loro canali diretti (incontri dei fan club promossi dall’artista, eccetera), farlo era insomma un po’ da maniaci un po’ da sfigati, oggi invece è la regola. Il risultato è che ci si è abituati – da entrambi le parti: sia artisti che pubblico – ad una informazione non mediata e soprattutto acritica, piana, priva di contrasti, molto accomodata e funzionale. “Fa sensazione”, oggi, che ci possa essere una intervista contrastata tra intervistato ed intervistatore come nel caso di Fedez e Dikele, quando invece in passato era abbastanza la normalità, soprattutto se non ci si accontentava della pappa pronta dei media generalisti mainstream e si cercava qualcosa di più specializzato.
Il giornalismo è diventato troppo addomesticato. Si sta sbilanciando sempre di più il rapporto di forza tra mondo dei media ed artisti, a favore di questi ultimi: un tempo erano i media a sancire la buona sorte degli artisti, oggi ormai è sistematicamente il contrario
Ora che invece gli artisti e i loro management hanno scoperto che sono più potenti dei media (sono loro a fare i numeri e a muovere gli investimenti oggi coi brand che si trascinano dietro, mentre fino ai primi anni ’90 erano i media a sancire le fortune commerciali di un progetto artistico), questo potere lo esercitano troppo spesso nel modo più bieco possibile. Fuori i fatti: sempre più artisti pretendono di sapere le domande prima dell’intervista, sempre più artisti danno per scontato che l’intervista è un mezzo promozionale e non un momento di confronto (se non addirittura di scontro), sempre più artisti desiderano che ciò che esce sui giornali sia perfettamente funzionale alle loro strategie di marketing e comunicazione – e se non lo è, sono i giornali che sbagliano e vanno corretti, se non bastonati. Nel breve periodo, gli artisti possono pensare che sia una figata: si evitano tante fatiche e seccature. E i management degli artisti sempre più possono ritenere che fanno l’interesse dei loro artisti se e soprattutto se esercitano in modo sistematico questa nuova – e inedita – forma di controllo. Ma è una illusione. Una illusione di breve periodo. Essere circondati da “yes men” non ha mai portato la felicità e spesso, anzi, ha portato al disastro nell’arco di qualche anno. A maggiore ragione se gli “yes” arrivano proprio dalle persone e dalle realtà che dovrebbero avere un po’ più di spinta alla critica ed all’analisi.
Vero è che i media spesso si prostrano e si prostituiscono di loro iniziativa: chi lo fa per numeri (appunto: per lucrare soldi ed esposizione in più, rubando brandelli di luce riflessa), chi lo fa anche solo semplicemente per ottenere la benevolenza di un artista, di una sua struttura, in generale di pezzi di meccanismo della scintillante industria dello spettacolo – ancora oggi l’industria più divertente ed appagante che ci sia, se non si pensa solo alla vil moneta.
Cosa possiamo fare, noi come pubblico? Tornare a rompere i coglioni. O, ad esempio, esultare quando entrano in circolo interviste scomode, accidente e non addomesticate come quella tra Fedez e Dikele. Esultare, e volerne di più. Invece per ora stiamo leggendo solo commenti in cui si schiera con l’uno, ci si schiera con l’altro, o ci si lamenta che questa intervista è una “occasione persa”, perché invece si poteva tranquillamente parlare del disco, o della figura-Fedez, o di chissà cosa, invece di star lì ad essere tutti ostili e pieni di frecciatine l’uno contro l’altro.
No, cazzo.
Il contrasto ogni tanto ci vuole.
L’informazione, in particolar modo quella attorno alla musica, deve avere il coraggio di tornare ad accoglierlo fra le possibilità reali. L’informazione deve tornare a essere cronaca non solo di un mondo “perfetto”, in cui tutti vanno d’accordo, tutti si vogliono bene, tutti si “spingono”, ma anche di un mondo – molto più reale – dove esistono le opinioni diverse, esistono le linee differenti, esistono le antipatie personali, esistono le diverse interpretazioni di una serie di eventi e di valori. Tutte cose che vanno espresse non con la rissa, o con le punchline di due righe buone per Instagram o per Twitter, che sono la morte del ragionamento e sono solo circo ed artifizio verbale, ma con confronti lunghi ed articolati, talvolta ostili talvolta no: per riabituare gli altri e se stessi alla complessità, alla diversità. E al fatto che non per forza esiste solo la propria bolla, e tutto ciò che non vi è allineato è “nemico”.
La realtà è molto di più di una “bolla”. Sempre. Stiamo pericolosamente iniziando a dimenticarlo.
Ah, postilla: tutta questo casino attorno al pubblico-non-pubblico dell’intervista Fedez/Dikele non ci sarebbe stato se, come normale, non ci fosse stato bisogno dell’approvazione dell’artista per la messa in onda – integrale e senza tagli – dell’intervista stessa. Ma oggi gli artisti vogliono approvare ogni virgola viene scritta, detta, girata su di loro. Sennò non si sentono artisti – si sentono sminuiti.
Basta.
Cari artisti: siete già diventati abbastanza potenti da contare molto di più della critica, della stampa, dei media – ci riuscite con la sola forza della vostra fama, del vostro carisma, dei numeri dalla vostra. Vedete di non esagerare, con gli appetiti. Prima o poi questo eccesso di hybris potrebbe ritorcervisi contro. Oh sì.
Ps. Come policy, sono anni che Soundwall rifiuta le interviste in cui gli artisti chiedono di sapere preventivamente le domande che gli verranno fatte. Noi non contiamo nulla. Ma almeno, abbiamo la coscienza a posto.