E’ curioso, pochi giorni fa è mancato un amico. Uno di quelli che era impossibile non notare: in strada, sul ring o dietro ad un bancone. Di quelli che il freno lo usano solo per dividere l’acceleratore dalla frizione. Sempre a cento all’ora, contromano. E proprio così ha deciso di lasciarci: un martedì qualunque, in una terra lontana. Senza avvisare, come suo solito.
Ci eravamo visti poco tempo fa. L’avevo trovato imbolsito, trasandato. Evidentemente scosso da un periodo difficile. Ma non aveva perso quella scintilla di follia e di vita che lo teneva sempre al centro del villaggio. Era comunque sempre nei pensieri di tutti, nel bene o nel male. Ed ora non riesco ad accettare che quella resterà la nostra ultima pinta insieme. L’ultimo abbraccio. Forte, come piaceva a noi. E poi via, puff. Cenere. Polvere.
Anche col Dude ci eravamo visti qualche tempo fa, in un weekend come un altro di ritorno dall’Olanda per salutare gli amici. Ed anche in quel caso mi era dispiaciuto trovarlo invecchiato, meno rilevante, peggio frequentato. Devo ammettere che l’amore con la nuova venue non era mai sbocciato, ma il grande lavoro eseguito sul lato artistico nel corso degli anni – specialmente nell’Osservatorio Astronomico – era stato sotto gli occhi di tutti. Così come la magnitudo delle line up mensili che per un po’ vi avevo raccontato proprio su queste pagine. Ma non era più tempo, per un milione di motivi che sono stati spiegati nell’esauriente comunicato di ieri mattina, 29 agosto.
Per il Dude potrei spendere tante parole: un club che, in un modo o nell’altro, è stato per anni il perno attorno a cui ha orbitato la clublife milanese. Sia quando è stato un rifugio inaspettato dalla monotonia della tech house dei primi anni ’10 fino a quando ha deciso di andare all-in con un nuovo spazio ed ambizioni magniloquenti. E per un po’ ha vinto, anche pesantemente. Salvo poi accartocciarsi su se stesso in un lento (ma inesorabile) declino che ha portato all’epilogo odierno in cui la proprietà ha alzato bandiera bianca, facendo un passo indietro prima che fosse troppo tardi.
Il vento è cambiato ancora. L’abbiamo visto accadere tante volte nel corso degli ultimi anni. E continuerà ad accadere. Specialmente in Italia: un Paese senza memoria e sempre più schiavo della mentalità americana di masticare a digerire tutto in un battito d’ali di farfalla. E ancor più specialmente a Milano: una città volubile, irascibile, dove la gente passeggia nervosa anche quando non va di fretta. Eppure per il Dude, come era stato per il Cocoricò poche settimane fa, non si riesce davvero ad essere tristi. Orgogliosi di esserci stati, quello sì. Perché la scintilla scattata fra le colonne del 16 di via Plezzo – dopo la prima promettente stagione sul Naviglio – era stata fra le cose migliori viste in città nell’ultimo decennio. Perché la spensieratezza di quando le nostre carte d’identità erano meno impietose e le gambe più vogliose di stare alzate tutta la notte non la cancella di certo una chiusura. Anzi, paradossalmente perdere qualcosa amplifica il ricordo di quando c’era.
E lo ribadisco, forse è meglio così.
Una volta, dopo aver visto un film della giovane (e belissima) Lilly Carati – recentemente scomparsa – Giovanni Brera esclamò convinto: “Spero che muoia giovane“, suscitando non poco scompiglio fra i membri della stampa. Ma il messaggio di fondo era chiarissimo: quando qualcuno è di così forte impatto da sembrare divino all’apice della sua arte, non vuoi trovarlo vittima delle stesse pene e fragilità che la vita distribuisce impietosamente a ciascuno di noi. Nessuno vuole vedere un supereroe perdere i propri poteri e lentamente svanire nel nulla. Come disse Freddie Mercury poco prima di annunciare al mondo la sua terribile lotta con l’AIDS: “A nessuno interessa guardare un sessantenne in tutù sopra ad un palco“.
Non è così paradossale provare sollievo nel non dover oltremodo assistere allo sfiorire di un locale che per un po’ era stato al timone della nightlife milanese – forse addirittura italiana in certi ambiti musicali – e che si è poi scoperto fragile, senza direzione. Perdendo inoltre nell’ultimo periodo alcune delle figure chiave alla base del suo operato – e questo, si sa, non è mai un buon segno – e rimanendo sostanzialmente fermo mentre tutto in città continuava ad evolversi.
E allora forse, a volte, è meglio andarsene quando ancora si è in grado di premere a fondo il piede sul gas. Quando ancora la gente parla di te, nel bene o nel male. Quando i ricordi delle tante notti passate insieme fanno ancora pendere la bilancia dal lato giusto. Prima che l’alone grigio dell’indifferenza o (ancora peggio) della pietà inizi ad aleggiare all’orizzonte.
Fino a che quell’abbraccio – forte, come piaceva a noi – non riusciremo a darcelo di nuovo.