E’ nei momenti di crisi che bisogna essere coraggiosi, e che bisogna saper sparigliare le carte. Ma anche se la crisi non c’è, o è solo parziale, c’è una cosa che non deve fermarsi mai: il coraggio di proporre la propria visione, le proprie idee, il proprio stile. Se il clubbing italiano è entrato in una spirale fatta di chiusura di locali e di presenze in costante calo, è sicuramente per fattori “esterni”: la stretta sugli orari, quella sugli alcolici, i controlli per strada, concorrenze prima impensabili (internet, i social, Netflix, eccetera: posti dove puoi trovare il “tuo” divertimento e/o conoscere persone con facilità, tutto quello che prima i media non ti offrivano e il clubbing invece sì), la flessione economica che ha sgonfiato la bolla degli anni ’80 e che ha avuto la sua coda lunga per tutti gli anni ’90, in Italia.
Ok. Ma ci sono anche dei fattori “interni”. Nei primi 2000, quando imperversava l’ondata minimal “commerciale”, ma anche prima a dire il vero, quante serate senza identità sono nate? E intendiamo: quelle che hanno relegato a ruoli risibili ed irrilevanti i dj residenti, che hanno iniziato a prendere sempre lo stesso giro di ospiti stranieri (perché erano nomi “sicuri”), che non hanno mai provato ad esplorare qualcosa di diverso musicalmente (perché quel che contava era l’incasso, non il discorso culturale, con la cultura non ce se magna)? Ve lo diciamo noi: tantissime. Il discorso sui “soliti” ospiti stranieri andrebbe anche approfondito: hanno avuto una valenza molto importante per sprovincializzare il clubbing italiano, farlo entrare nei network d’eccellenza e strapparlo dalle routine localare coca, papponi & champagne, facendo capire che anche nella nostra nazione c’era un network per la club culture alla londinese o berlinese. Questo è bene non dimenticarlo. Anche noi come Soundwall abbiamo “spinto” molto su loro, sulla loro presenza, sulla loro importanza. Ma ogni periodo ha il suo ciclo vitale. E ora, davvero, c’è necessità di iniziare un ciclo nuovo.
(Ripensare i club, anche spazialmente; continua sotto)
Un ciclo che, attenzione, ciascuno deve giocarsi secondo le proprie attitudini, le proprie inclinazioni, la propria storia, il proprio entusiasmo. Questa è la chiave. Non esiste infatti “una” chiave risolutiva per tutto; men che meno in una fase altamente competitiva come questa, dove il clubbing deve saper essere di qualità e deve distinguersi, le due cose assieme, per sopravvivere, per non essere qualcosa destinato a morire – come le tante megadiscoteche spiaggiate, abbandonate, demolite. Il modello della megadiscoteca vecchio stile, a più spazi (che però può anche essere efficacissimo nel presente). E’ per questo motivo che abbiamo deciso di puntare la luce dei nostri piccoli riflettori su due realtà molto diverse fra loro: Nobody’s Perfect la storia serata al Tenax di Firenze, una realtà fresca e relativamente nuova come Tangram all’Urban di Perugia. Tenax e Tangram, una specie di “fattore T” insomma (e volendo, potremmo aggiungerci anche la “T” di Tropical Animals: in questa intervista ci sono millemila spunti interessanti).
Nobody’s Perfect non ha bisogno di molte presentazioni, il Tenax nemmeno. Da anni, anzi praticamente da sempre, è una roccaforte del clubbing italiano: se il Belpaese è entrato nel network ai più alti livelli del mercato europeo, e ci è entrato, il Tenax e Nobody’s Perfect c’hanno messo molto del loro. Come spiegavamo, è un merito. Ma come spiegavamo, bisogna capire quando è il momento di cambiare, aggiustare la direzione, creare delle scelte di rottura. Ce n’era già più di una avvisaglia, ma quest’anno davvero si è scelto come mai in passato di uscire da quella specie di “routine d’alto livello” che ruota attorno ai nomi dei soliti, grandi ospiti, per fare invece scelte coraggiose. Tipo: fare serate solo coi resident. O: chiamare come guest dei nomi fuori dai grandi giri dell’ultimo decennio, poco “sexy” all’apparenza. Abbiamo avuto la possibilità di esserci a quella che era un po’ alla celebrazione ufficiale dei vent’anni (…vent’anni!) di Nobody’s Perfect: e quello che abbiamo visto è stato molto, molto interessante. E significativo.
Ogni periodo ha il suo ciclo vitale. E ora, davvero, c’è necessità di iniziare un ciclo nuovo
Abbiamo visto che il “padrone di casa”, Alex Neri, ha voluto completamente reinventare lo spirito e la logistica del club fiorentino nella prima parte della serata, spostando il focus dell’attenzione e della musica dalla console in alto ad un vero e proprio palco calato, “immerso” in mezzo alla pista, con uno speciale live A/V dei “suoi” Planet Funk. L’effetto è stato bellissimo, il flusso di energie inedito live set + musicisti messi in mezzo a tutto ha funzionato alla grande, anche grazie ad un pubblico seriamente intergenerazionale (i Planet Funk, si sa, sono trasversali da sempre). Ma anche quello che è arrivato dopo è stato forte davvero: metà della crew di Fragola, Philipp, ha preso possesso della console (tornata al posto tradizionale nella seconda parte della serata) sentendosi addosso la libertà di suonare più a ruota libera, uscendo dai soliti seminati senza però per questo perdere in ballabilità. Raramente li abbiamo sentiti suonare così bene; e questo, ci piace pensare, nasce anche dal fatto che si respirasse un’aria particolare al Tenax quella sera, un’aria di “rompiamo gli schemi tradizionali, rompiamo le routine”. E le ha rotte pure Neri: che pur essendo il “nome forte” in line up, è salito nel mini-privé al piano di sopra a mettere vinili tutti datati primi anni ’90 davanti una cinquantina di persone infuocate (solo perché di più non ce ne stavano). E’ stato splendido.
(Neri nel privé; continua sotto)
Ma è stato ancora meglio quello che si è dimostrato il vero headliner della serata, Francesco Farfa. Ora: per chiunque ne capisca di musica da dancefloor, Farfa è assolutamente una istituzione. Per mille motivi, da un certo momento in poi è uscito dai “giri giusti”: è impossibile cioè vi capiti di vederlo come +1 di Solomun, o col suo faccione su un cartellone sulla statale per San Antonio, per intenderci. Cosa che in parte ha scoraggiato anche lui, ad un certo punto. Da un po’ di tempo a questa parte però si è tolto molti pesi e fisime di dosso e ha ripreso a suonare al massimo delle sue possibilità. Chi lo frequenta, chi lo ascolta, lo sa. E al Tenax hanno deciso di offrirgli il massimo dei palcoscenici in serata, venendo ripagati da un set techno assolutamente monumentale: molto old school nel modo di usare in modo creativo il mixer, molto consistente nel colpire alla pancia il dancefloor, molto personale nel dare una interpretazione all’alfabeto techno molto lontana tanto dal Berghain quanto da Detroit quanto dall’Inghilterra primi anni ’90, fondendo queste tre declinazioni in qualcosa di unico con un tocco molto specifico, molto “Farfa”. Davvero: uno dei migliori set che mi sia capitato di sentire da tempo a questa parte. E ne ho sentiti tanti. Con ospiti di tutti i tipi, anche giganteschi. Chi c’era, lo sa. E chi c’era, se l’è goduta fino alle prime luci dell’alba. C’era proprio la percezione che di fosse stato qualcosa di magico.
(Farfa in azione quella sera; continua sotto)
E lo è stato, lo è stato mettendo Francesco Farfa come headliner: una scelta commercialmente suicida, se pensiamo alle dinamiche dell’ultimo decennio non solo del Tenax ma di tutte le realtà grosse italiane ed anche europee di pari peso. Ma con questa storia delle scelte “commercialmente redditizie” abbiamo creato una routine fatta di soliti noti e di serate sempre più uguali fra loro, dove per il noto di turno in fondo non cambia più di tanto se suona a Firenze, Roma, Milano, Madrid, Stoccolma, Hong Kong, dove volete voi. Il Tenax, nel (ri)chiamare Farfa, è andato a pescare nella sua storia, nel suo territorio, nella incredibile tradizione toscana degli anni ’90, e lo ha fatto cercando e valorizzando un artista che non fa il monumento nostalgico di se stesso ma che è maledettamente in forma (anche) secondo gli standard del qui&ora. Insegnamento molto importante. E questo filone del non cedere alla necessità/schiavitù del “solito grande nome” come fulcro della serata non è stata solo un’eccezione, ma è stata anche cercata, voluta, effettuata in altre serate targate Nobody’s Perfect. Bravi. Applausi veri.
Esattamente come gli applausi li meritano, e non da poco, quelli di Tangram, a Perugia, in quel posto figo che è l’Urban. Mea culpa: avrei voluto e dovuto scrivere di loro fin dall’inizio, per dare nel nostro e mio micro-piccolo un appoggio, un incoraggiamento, un’esposizione che il progetto si meritava tutta. In pratica: il format vuole che il fulcro della serata sia sì la musica elettronica, ma in versione rigorosamente live; e il focus è stato dato spesso e volentieri a progetti italiani. Ora: i grandi e consolidati live set “veri” dell’elettronica costano un fottio di soldi. Spesa che la crew di Tangram non poteva (ma nemmeno voleva) permettersi. La scommessa, invece, è stata quella di fare scouting: di seguire i propri gusti e le proprie conoscenze, di rischiare provando a percorrere strade poco battute, di credere nel fatto che la qualità può bastare a “fare” la serata, anche se non c’è il “nome”. Un esperimento che già è difficile fare nelle grandi città, tipo Milano, Roma o Torino, figuriamoci in una zona decentrata come l’Umbria; in teoria, è così. In pratica, l’Umbria ha una lunga tradizione sia in fatto di live che in fatto di clubbing (nella stessa piccola regione c’è stato e c’è un fenomeno mondiale come Umbria Jazz, tanto quanto la legacy del Red Zone o oggi di Serendipity/Dancity o anche di Ralf e Bellaciao), Tangram ha creduto in sé e nella forza delle proprie idee ed eccolo lì, una sorta di “calabrone”: non dovrebbe stare in piedi come serata (ospiti poco “famosi”, per giunta nel format “complicato” del full live), invece inanella numeri che parecchi club che fanno sempre i soliti noti, beh, se li sognerebbero nei loro desideri migliori.
(Tangram, la sera di Aura Safari; continua sotto)
Ecco. Abbiamo voluto darvi due istantanee. Due istantanee relativamente dettagliate, su come però le idee possano portarti a galleggiare benissimo nel mare complicato della contemporaneità pure nel campo dell’intrattenimento, piuttosto che essere invece un ostacolo o una cosa da romantici “che però non paga le bollette e le fatture”, come in troppi e per troppi anni hanno continuato a ripetere. Coi risultati che poi abbiamo visto, e che ora stiamo vedendo. Poi chiaro, uno può organizzare la cosa più bella del mondo ma il discorso torna al 100% solo se i numeri stanno in equilibrio e quindi voi, voi che leggete, la sera uscite di casa e vi regalate una serata di clubbing: che è ancora oggi, nonostante tutto, una delle emozioni più belle che si possano provare. Forse negli ultimi anni troppe serate troppo uguali, con sempre le stesse dinamiche, ve l’hanno fatto nel tempo un po’ dimenticare. E a noi pure. Ecco, è ora di ricominciare.