E’ veramente difficile da capire, negli anni, com’è possibile che la scena elettronica sia sempre stata così tiepida nei confronti della musica classica. E non parliamo di Mozart, Beethoven, Bach et similia: non che non siano geni dell’umanità, ma in qualche modo sono già “canone” – e sono strettamente legati ai loro tempi, nelle modalità di composizione, è la loro qualità intrinseca ad averli resi immortali. Ci riferiamo invece alla classica contemporanea. Le affinità elettive dovrebbe essere, come dire?, immediate: la musica elettronica così come la conosciamo e trattiamo noi, “figli” di techno, house, IDM, ambient-noise e dintorni, è una musica che fin da subito ha cercato di scardinare i confini della notazione su pentagramma lavorando su timbri (la “qualità” digitale o analogica dei suoni), giustapposizioni nuove, scarnificazioni del tutto anti-pop, fruizioni che rifiutano la formuletta del tre-minuti-e-mezzo-strofa-strofa-ritornello-strofa. E’ una cosa di cui andare fieri, è uno dei principi fondanti della club culture (che è nata iniziando appunto a scegliere brani lunghi, ipnotici, in grado di portarti in uno stato “altro” che non sia quello della fruizione allegra della hit pop-rock del momento). Ed è un peccato che se ne stia perdendo la consapevolezza: tra le messe cantate a Ibiza a Berlino per quanto riguarda techno e house, tra i frizzi, lazzi e fuochi d’artificio di chi arriva dall’EDM (…e spesso ha da spartire, in certi meccanismi, più col pop che con l’elettronica: da qui il motivo della continua tensione su se e quanto l’EDM appartenga a un certo ceppo. Interrogandosi su questo, e facendo muro, non si capisce che è proprio la sfera techno-house, o underground che dir si voglia, che sempre più adotta principi di funzionamento propri del mondo dell’EDM, ma questo è un discorso lungo).
Però ecco, il punto è: se alcuni dei principi fondanti che hanno portato alla nascita e allo sviluppo della club culture e di un certo tipo di musica sono questi (e lo sono), è assolutamente colpevole che non si sia mai guardato con reale attenzione al mondo della classica contemporanea. E’ brutale ridurre quest’ultima – con la sua complessità e le sue evoluzioni – in poche righe, ma è innegabile che dal ventesimo secolo in poi la strada perseguita a grandi linee sia stata proprio quella di andare al di là della “bella melodia”, della musica che vive solo sul sistema tradizionale di notazione su pentagramma, della voglia di esplorare in modo anche parossistico le possibilità timbriche di uno strumento, stravolgendole. Qualcosa c’è stato: pensiamo ad esempio agli storici dischi di Murcof di un decennio e passa fa, notevolissimi nel combinare sample di musica classica e trattamento digitale. Ma è poco. E’ troppo poco.
Chi vi scrive ormai da quasi quindici anni è un affezionato frequentatore della Biennale Musica di Venezia: uno dei “covi”, una delle notorie “riserve protette” della classica contemporanea. Non sono ovviamente mancate le digressioni (dal molto jazz presente nell’anno in cui il direttore artistico era Uri Caine, e riemerso negli ultimi anni con Fresu, Bosso, Victor Wooten, fino ai nomi “nostri” ospiti più volte negli anni: da Hawtin un decennio fa ai recenti Yakamoto Kotzuga, Demdike Stare), ma il “core” del festival è sempre andato nella direzione della cosiddetta musica “colta”. Quella, per intenderci, che potete sentire su Radio Rai Tre e che mai sentirete su un network radiofonico commerciale. Ecco, questo contesto – visto con gli occhi di un “esterno” come il sottoscritto – ha un grave limite: non riesce a comunicarsi bene. Non riesce a comunicare con le generazioni più giovani, non riesce a spiegare quanto di rottura sia il lavoro teorico che viene portato avanti, non riesce a far capire come siano “giovani” ed iconoclaste certe soluzioni, accontendandosi di farsi validare da una ristretta cerchia di gatekeepers – che a sua volta è legata al doppio filo alla scena “colta” e solo a quella ha interesse di rivolgersi. Forse solo Stockhausen (non a caso presente in eventi targati Dissonanze), vuoi per la sua musica vuoi per la sua aura da rockstar spiritato, è riuscito a fare breccia nel pubblico “elettronico” non propriamente “colto”, almeno a livello di impatto mediatico e di nome.
E’ assolutamente colpevole per la club culture che non si sia mai guardato con reale attenzione al mondo della classica contemporanea
Ma c’è vita oltre a Stockhausen. Parecchia. E ce n’è anche molta oltre a John Cage, altro santino più citato che capito. La quantità di idee che si possono assorbire andando ad indagare i sentieri della classica contemporanea è prodigiosa, se uno si avvicina alla musica con un certo tipo di piglio. E i margini per aumentare le potenzialità di un incontro tra questa sfera e quella dell’elettornica più “da club” (o “da Atonal”) sono, credeteci, ancora enormi e quasi del tutto inesplorati.
Quest’anno, alla Biennale Musica, di tutte le cose viste ce n’è una che ci ha colpito in particolar modo. Ovvero, la collaborazione tra Mivos Quartet (che continua la tradizione dei quartetti d’archi americani attentissimi alla musica contemporanea, nome storico di riferimento il Kronos Quartet) e il bravissimo manipolatore digitale Sam Pluta. “Chain Reactions / Five Event” può essere un ascolto illuminante per tutti: certo, se non si è cultori di musica “colta” l’inizio può risultare faticoso, ma andando avanti ed “entrando” in certi meccanismi sonori quello che viene fuori è una interazione di livello altissimo fra le potenzialità del digitale e quello di un quartetto d’archi dalla mente aperta e libera. L’elettronica, in questo caso, è diventata veramente una “marcia in più” per la classica e, in cambio, l’ancoraggio sonoro che quartetto d’archi può dare è diventato un binario perfetto per impedire che la sperimentazione elettronica diventi fine a se stessa. Obiettivo: una musica che sia pena di spunti, che sia suggestiva, che sappia trasportare in un mondo “altro” partendo da due cose molto note (appunto un ensemble di quel tipo e l’uso del computer per trattare i suoni) però contrapposte come DNA. L’elettronica può dare alla musica classica una complessità esecutiva, sonora e ritmica che lo strumento “umano” non può toccare; la musica classica può dare all’elettronica la fisicità del suono e dell’esecuzione.
Non sempre va così. Come si diceva: nel mondo classico contemporaneo c’è molta apertura verso il mondo dell’elettronica. La si usa parecchio, e manco da pochi anni. Ma spesso, ad orecchie allenate da anni di ascolti di robe Warp o di Villalobos, c’è un approccio molto naïf, un accontentarsi del “Oh, ma che meraviglia i suoni prodotti digitalmente”, quando noi sappiamo invece che qualsiasi stronzo sedicenne armato di un software decente può mettersi a lavorare con l’elettronica tirando fuori un po’ di tutto in mezz’oretta, lì dove in passato nei Conservatori si instauravano corsi lunghi anni sull’uso del digitale nella composizione, e suonando pure molto meglio di accigliati pluridiplomati. Peccato però che a questo stronzo sedicenne (ma manco ai trentaseienni e quaranteseienni che prendono 20/30/40.000 a data suonando dischi altrui per un paio d’orette) non venga in mente manco per sbaglio di documentarsi e di scoprire ad esempio strumenti come la Feed-Drum o lo SkinAct, percussioni in grado di ricreare – tra particolarità dei materiali e naturale inclinazione a “flirtare” col trattamento digitale del suono – dei tappeti ritmici e timbrici pazzeschi, che farebbero andar via di testa anche il peggio bufalo tamarro da Time Warp o Social Music City. Però ecco, queste cose puoi andare a scoprirle solo se bazzichi gli ambienti della classica contemporanea. E non bisogna farsi respingere da, appunto, l’ingenuità dell’approccio al digitale degli ambienti suddetti (le parti puramente elettroniche in questo concerto per percussioni “speciali” erano davvero poco significative). Passaci sopra. Prendi il meglio. E se non capisci le provocazioni avanguardiste di John Cage, che in effetti erano provocazioni rivoluzionarie molti decenni fa ma oggi fisiologicamente mostrano un sacco di rughe e sono vuoti riti rassicuranti per un pubblico colto pluristagionato, pazienza. Anche noi veneriamo – e giustamente – “Strings Of Life”, che però in tutta onestà è invecchiata maluccio, se uno è un minimo onesto con se stesso nell’ascoltare la versione originaria di trentuno anni fa.
Ci sono dei riti che vanno rispettati. Delle pietre miliari che segnano il senso di appartenenza ad una cultura, ad una scena. Ci sta. E’ doveroso. L’avanguardia alla Cage rientra fra questi. Ma sarebbe altrettanto doveroso sapersi confrontare: e apprezziamo moltissimo il coraggio avuto quest’anno dal direttore artistico Ivan Fedele non tanto nella scelta di aprire la Biennale con Frank Zappa (cosa che ha fatto molto discutere, tra gli ambienti “colti”) quanto in quella di chiuderla con qualcosa di cui si è parlato molto di meno: affidare l’ultimo “concerto” (virgolette d’obbligo) a due musicisti al cento per cento “da club” come Alexander Robotnick e William Bottin. Giocando sulla crasi dei due cognomi, i due hanno dato vita al progetto Robòttin, che poi non è altro che un alternarsi dei due in console, un po’ live un po’ dj set, un po’ interagendo un po’ dividendosi gli spazi. Bene: è stata una delle esperienza più intense e sorprendenti a livello di club culture che abbiamo visssuto negli ultimi anni. Perché c’erano mani di persone con le mani in aria? No: eravamo un duecento, di cui almeno la metà (ma forse di più) in un club non ci ha mai messo piede o non lo fa dai tempi ruggenti di De Michelis. Perché il posto era un club intimo dall’atmosfera della madonna? No: eravamo in un posto di incredibile fascino (il Teatro alle Tese, nel Bacino dell’Arsenale), spazi amplissimi e nessuna predisposizione da club, da “abbraccio” alla console ed aizzamento al ballo. Eppure, anche e soprattutto per merito dell’eccezionale e calibratissimo lavoro di Robotnick e Bottin, con la loro “italo” rimodernata e superiore, abbiamo un visto un posto trasformarsi da freddo contenitore di un uditorio a luogo dove scorreva la vera ricchezza della club culture – quel piano piano sciogliersi, lasciarsi andare, farsi trasportare dal ritmo e della musica elettronica, entrare in un’altra dimensione lasciando perdere le forme standard di fruizione della musica. Farlo con ventenni “agitati” che non aspettano altro è un conto, farlo con chi esula completamente da questa intersezione socio-demografica è maledettamente più difficile. Ma se ci riesci, capisci quanto il clubbing possa essere un linguaggio universale: non solo un sistema che serve ad ingrassare i conti in banca di dj/producer, promoter, agenzie di PR e di booking, cosa che purtroppo dalle nostre parti è sempre più invece il meccanismo predominante. E manco ce ne stiamo rendendo veramente conto.
(Margaret Leng Tan, esecutrice prediletta di Cage, in azione alla Biennale Musica 2018; continua sotto)
Insomma: anche quest’anno alla Biennale Musica di Venezia abbiamo visto cose che ci hanno annoiato un po’, altre belle ma prevedibili (riproporre oggi Piazzolla come portabandiera dell’influenza della musica sudamericana nel panorama sonoro contemporaneo, per quanto grande Astor sia, fa molto “effetto cartolina” banale: però è servito a racimolare un sold out, quindi amen); ma anche quest’anno abbiamo constatato come essa, anche al netto di scelte non convincenti o almeno non significative per noi, possa essere un arricchimento incredibile. Peccato però che il pubblico “nostro” non si sia visto, se non in microscopica parte nella serata di Robòttin. E non vale dire “Eh, ma è Venezia”, perché invece lo splendido festival Set Up ha avuto un successo totale, fatto di sold out secchi ad ogni serata. Chiaro, una cosa come Set Up gioca in modo più “facile”, con nomi molto più pop (per un pubblico di “elettronici”, ovvio) ed accattivanti; ma lo stesso pubblico che ha riempito Punta della Dogana a febbraio avrebbe dovuto farsi vedere, almeno in parte, anche nei dintorni della Biennale Musica adesso e no, non l’ha minimamente fatto. Colpa della Biennale che “comunica male”, che si rivolge per definizione a una fetta di pubblico ben precisa, quello dei giri della classica, delle opere commissionate, dei Conservatori, di quelle cose insomma un po’ agée? A parte il fatto che questo pubblico ha una preparazione di base altissima (e, come si diceva, è molto più incline alla sperimentazione di quanto lo siano pubblici più giovani e pop), quindi dovremmo solo stare zitti, nell’era di internet, della musica liquida disponibile sempre e comunque e della scoperta di mondi differenti e lontani in pochi clic, inizia ad essere una giustificazione non più accettabile. Qualcosa si muove: è ad esempio molto interessante un format sbarcato già da un po’ su Radio Raheem, sempre benemerita, ovvero Classical Hooligans, che fa un intelligente e calibrato lavoro di “scolarizzazione” su questo terreno d’incontro tra pubblico “nostro” e musica classica. Dobbiamo però fare ancora molto. Molto. Soprattutto se per noi la musica è veramente (anche) cultura, non solo la colonna sonora dei nostri edonismi o un mezzo furbo per inventarsi un lavoro piacevole tra free drink e nottate in allegria.
(Le fasi iniziali di Robòttin; continua sotto)
Cosa deve fare invece, la Biennale Musica veneziana? Imparare a concedere e concedersi di più alle dinamiche di un pubblico che non sia il solito. Certo: si tratta di scuotere certezze acquisite, riti consolidati, gerarchie da decenni marmoree, si tratta di aprirsi un po’ ai “barbari”, agli “hooligan” appunto: può però diventare una botta di vita non da poco, può portare ad un rigenerarsi (numerico e demografico) di cui purtroppo c’è oggettivamente bisogno e soprattutto, last but not least, può portare effettivamente ad approcciarsi in modo ancora più incisivo alla contemporaneità, “sporcandosi le mani” ed uscendo dalla riserva protetta sì nobile ma tenuta in vita esclusivamente dai finanziamenti pubblici e in parte minore privati. Senza pensare, ecco, che basti uno Zappa (peraltro ormai stagionato pure lui come figura, per quanto enorme…) a far primavera, e perseguendo invece esperimenti coraggiosi come il Robòttin di quest’anno o lo Yakamoto Kotzuga o Demdike Stare alle prese col Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza dell’anno scorso. E’ una cosa che farebbe bene sia alla musica classica attuale, che alla contemporaneità culturale a 360° delle nuove generazioni. Win-win, come si dice. Lo sappiamo: il rischio è di “involgarirsi”, piegarsi unicamente alle brutali e sboccate leggi del mercato, eccetera eccetera. Ok. Vero. Ma il rischio estinzione, il rischio riserva indiana sfilacciata e residuale, è ancora maggiore.
Immagini courtesy of La Biennale di Venezia – foto di A. Avezzù