Parlare male di Kanye non è proprio un buon affare: lo sembra, ma non lo è. Se lo fai, il sospetto che ti accompagna è infatti che tu lo stia facendo solo per fare il bastian contrario, solo per farti notare, solo per mietere attenzione e solidarietà pronto-uso presso chi odia Kanye, e/o anche presso chi per principio odia chi ha troppo successo. Non sarebbe la tua intenzione. Non odi il suo successo per principio. Né odi lui. Non vorresti nemmeno sminuire il fatto (il merito…?) di chi come lui riesca a porsi così al centro dell’attenzione mondiale, arrivando ad essere monitorato-amplificato-giustificato qualsiasi cosa si faccia. Però davvero ti chiedi: ma la gente che magnifica così tanto West, ha provato a pensare quali potrebbero essere i meccanismi che hanno portato a questa fama, a questa attenzione spasmodica attorno a qualsiasi cosa venga sputata fuori dall’universo-Ye?
Non sono dei meccanismi bellissimi, purtroppo. Soprattutto nell’ultimo decennio. All’inizio, e parliamo ormai di più di quindici anni fa, Kanye s’è – giustamente! – fatto largo in una scena hip hop che stava attraversando una delle sue cicliche fasi di calo d’ispirazione presentandosi con un disco, “College Dropout”, che finalmente riportava la complessità, il gusto e l’inventiva al centro del villaggio (parafrasando Garcia), ripigliando gli elementi attitudinali migliori del rap primi anni ’90 riproponendoli brillantemente in una veste sonora e testuale aggiornata, non nostalgista. Evviva! Era stata la cosa giusta al momento giusto. Era ed è un ottimo disco, quello; ma quanti ottimi dischi sono passati quasi inosservati, nella storia della musica? Il “fattore culo”, il fare cioè la cosa giusta al momento giusto, è sempre una variabile importantissima.
L’onda lunga presa da Kanye era proprio perfetta, con quel lavoro: in quel determinato momento storico c’era bisogno di un “eroe nero”, nella industria musicale globale, che fosse educato, articolato, presentabile, anche se urban e musicalmente “di strada”. I pianeti si sono allineati. E quella è stata, per molti versi, la più grande fortuna e al tempo stesso la più sciagurata sfortuna nella vita dell’artista americano. L’essere trasportato da outsider-con-gusto ad artista mainstream di primissimo piano, vincendo lo slot che ti permette di cavalcare quella forza d’inerzia e per cui tutti gli investimenti e tutte le attenzioni mainstream ti dipingono in un primo momento come un “vincente” senza macchia, come la persone con le intuizioni “più giuste di tutti” per definizione, ha creato degli smottamenti nell’output artistico di Kanye (…probabilmente anche in quelli personali, a giudicare da molti fattori; ma quelli lasciamoli stare per un attimo): con sempre meno sforzo, ha ottenuto sempre più complimenti, sempre più attenzioni, sempre più credito.
Kanye, ne siamo convinti, è una persona di base molto intelligente ed articolata. Proprio con questa sua sensibilità, deve essersi accorto che c’era una incoerenza di fondo in tutto quello che gli stava accadendo “addosso”: e come mossa artistica ha iniziato a divincolarsi e a fare mosse sempre più sgraziate e provocatorie, per vedere fino a che punto poteva tirare la corda. All’inizio l’equilibrio era quello giusto, la “Twisted Fantasy” artisticamente intrigava eccome, ma poi le cose si sono fatte sempre più zoppicanti. Contestualmente, qualcosa deve essersi incrinato anche nel suo equilibrio psichico: non è una malignità, lo dicono pubblicamente anche molte persone vicine a lui – e non solo la serie di tweet discutibili e le prese di posizioni ondivaghe o semplicemente incomprensibili degli ultimi anni.
Lì quando inizi a dar di matto possono succedere due cose, allora: l’industria dello spettacolo a trazione statunitense o ti butta, o decide invece di spremerti fino in fondo. Il grande artista famoso mentalmente o fisicamente in difficoltà, vende. Vende parecchio. Vende tantissimo. Attira l’attenzione spasmodica del pubblico (ovvero: noi) esattamente come il sangue attira gli squali. L’artista “estremo” di talento, che sragiona e deraglia per droga, per problemi mentali, per stili di vita eccessivi, è da decenni uno dei primi motori economico del sistema globale dello spettacolo. Da Morrison a Hendrix alla Joplin arrivando fino alla Winehouse (vi rendete conto quanto è drammatico e poco “mitico” morire a soli 27 anni? Riuscite ad immaginare un parente o amico vostro che muore a quell’età?), passando in modo per fortuna un po’ meno cruento da Micheal Jackson a Britney Spears, le star planetarie spesso diventano tali non (più) per la forza della loro arte, ma più di tutto per lo scandalo della loro condotta e del loro essere “estremi” o, semplicemente, “scentrati”.
A Kanye è capitato tutto questo. E siamo sinceramente dispiaciuti per lui. Siamo però anche dispiaciuti per chi si presta a questo colossale, collaudatissimo gioco al massacro. Non state facendo un buon servizio in primis a West, ma nemmeno lo state facendo a voi stessi – perché in mezzo a tante parole, apologie, analisi, esegesi, state in realtà solo rafforzando le dinamiche più consolidate e ciniche dell’industria dell’intrattenimento globale. Non le più artistiche, innovative, controcorrente; no, le più consolidate e ciniche.
“Donda”, come scritto da più parti, è effettivamente il suo miglior disco da anni. Concordiamo con questa visione. Riesce ad essere il suo miglior disco da tempo a questa parte nonostante il suo rap sia sempre assestato su livelli tecnicamente pessimi, per pura pigrizia ed auto-induligenza (confrontate come rappa adesso con come rappava invece ai suoi esordi); riesce ad essere il suo miglior disco da tempo a questa parte, e ad essere lodato per la forza dell’introspezione emotiva e psicologica, nonostante abbia dei testi che in parte sono sconnessi, in parte se le stesse cose le scrivesse un Jovanotti o un qualsiasi rapper o cantautore italiano il 90% dei fan di Kanye lo deriderebbe e/o inseguirebbe con la vanga o la scure dell’indignazione; riesce ad essere il suo miglior disco da tempo a questa parte, nonostante sia fastidiosamente lungo non per grandeur artistica ma per semplice incontenibile logorrea (non è infatti un disco dove alla lunghezza si lega l’altezza di obiettivi sonori non convenzionali: gli “obiettivi alti” sono solo il suo delirio mistico, ma non basta); riesce ad essere il suo miglior disco da tempo a questa parte nonostante di tutto l’armamentario di ospiti solo un Jay Electronica riesca a dare lì dove interviene davvero una piccola marcia in più; riesce ad essere il suo miglior disco da tempo a questa parte nonostante sia maledettamente piatto, piatto, piatto come abito sonoro (è sfinente, ascoltarlo tutto, in primis perché monocorde e tendente a ruotare sempre attorno alla stessa macro-idea di arrangiamento da Bon Iver annacquato, a fronte di qualche buona intuizione nella scrittura, vedi ad esempio “Junya”, “Believe What I Say”, “24”, o il Grandmaster Flash reso quasi “hauntologico” in “Heaven And Hell”).
Si farebbe del bene a Kanye a dire, senza acredine ma proprio con preoccupato affetto, che “Jail”, soprattutto nella versione senza super-ospiti che non piacciono a Diet Prada, pare uno scarto di lavorazione del più loffio Phil Collins anni ’80 con, sopra, un rap appiccicato male. Si farebbe del bene a fargli notare che iniziare il disco ripetendo all’infinito il nome della madre sta a metà – ma dalla parte sbagliata – del crinale tra coraggio artistico e liberazione emotivo e senso del ridolo (nota bene: quando Goldie fece qualcosa di molto più evoluto e coraggioso con “Mother”, tracciona infinita di decine di minuti, fu ben più crocifisso dall’intellighenzia). Si farebbe del bene a spiegargli che la rullata pastrocchiata appoggiata su “Remote Control” è uno sputacchio, non una genialata. Si farebbe del bene a fargli notare come una traccia come “Tell The Vision” sia sostanzialmente impresentabile, indegna per chiunque si fregi del titolo di produttore, e sticazzi se ci sono anche gli ospiti famosi nei credits. E’ più che altro, alla fine il massimo punto d’interesse nei credits, e da noi l’hanno ancora notato in pochi, è che l’ingegnere del suono coinvolto in tutte le tracce e in qualche modo titolare del ruolo è un italiano, Irko.
(Ascoltare per credere, e giudicare voi stessi; continua sotto)
Il punto è che da anni a Kanye si perdona (e si magnifica) ciò che a nessun altro si perdonerebbe (e si magnificherebbe): perché lo si fa? Lì sta il punto: perché lo si fa. Lo si fa perché ormai Kanye è famoso per essere famoso (quindi miete numeri ed attenzioni mediatiche in automatico), lo si fa perché in maniera cannibale tutti noi amiamo il personaggio del famoso-ma-matto. Per giunta appoggiando Kanye le anime belle pensano anche di contribuire al riscatto definitivo di quell’eterno outsider sfruttato nei decenni nella conversazione culturale pop contemporanea che è la musica e cultura black; intento nobile, ma non siamo del tutto sicuri che si stia puntando sul cavallo corretto. Si punta su un tizio che per auto-indulgenza personale e per cinico calcolo del sistema che lo allatta e sostiene da anni sta dando, artisticamente, un decimo di quello che potrebbe e dovrebbe. Invece di farglielo notare, gli si dice “Bravo!”, “Genio!”, “Maestro!” ad ogni mezza puttanata che fa. Quando poi appare qualche lampo di classe – perché appare: lo ripetiamo, di base Kanye è un artista mica male – allora poi si ritiene di poter giustificare e ri-considerare anche la monnezza, o il materiale inutile.
Kanye è nudo, e non sta tanto bene. “Donda” alla fine – lunghezza sfiancante a parte – si fa ascoltare; ma nudo resta, il suo fautore, anche se nessuno lo dice, e resta sfruttato dal più bieco e crudele dei meccanismi della fama planetaria. Non sarà certo il fatturato e lo sfarzo che circonda ogni cosa che fa a farlo stare meglio; né questo sfarzo e questo fatturato dovrebbero influenzare l’opinione di chi lo ascolta, di chi lo osserva. Ma invece…
(Anno 2004: mettete a confronto)