Saranno tipo, boh?, quindici anni almeno che ci ripromettiamo di fare una lunga chiacchierata con Luca Roccatagliati alias Dj Rocca. Per il suo spessore artistico, la sua storia, per il suo ruolo assolutamente cruciale in quell’autentico miracolo della club culture in Italia che fu il Maffia di Reggio Emilia (ecco, anche lì è parecchio tempo che sarebbe il caso di parlare di quell’avventura, e di Kom Fut Manifesto, di Rizosfera: ci arriveremo); e anche perché è veramente una bella persona. Poi, come spesso succede con le cose che tanto vuoi fare, rimandi all’infinito – perché non ti sembra mai il momento giusto, quello cioè in cui hai abbastanza tempo, abbastanza calma, abbastanza ispirazione.
Per fortuna ogni tanto però scatta l’urgenza: e vedere Rocca alle prese con un progetto sulla carta così stimolante come Triorox, dove si affianca a uno dei più talentuosi ed illuminati pianisti jazz d’Europa come Giovanni Guidi e ad un musicista solidissimo come Joe Rehmer, ti fa scattare netto quel “Ok, ora però bisogna veramente farla, questa intervista”. Sì: perché Triorox non è solo un’avventura estemporanea per quanto d’eccellenza, ma ha figliato un vero e proprio album, “Moods”, uscito poche settimane fa. Così come non era un’avventura estemporanea questa immersione nel jazz di un dj che, tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, ha di suo letteralmente forgiato scena “alternativa” della dance italiana più visionaria, modernista, più anglosassone nello spirito e senza compromessi nella sostanza, mantenendo poi sempre solidi livelli nelle sue avventure successive di stampo italo-disco, electroclash e quant’altro, con signori come Dimitri From Paris, leggende come Baldelli, capitani dell’indie rock più autentico ed appuntito come Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò. Dj Rocca alias Luca Roccatagliati è insomma un pozzo di scienza. Ma è anche un pacioso galantuomo che negli anni non si è mai affannato a sgomitare, e che del clubbing attuale non condivide l’ansia di apparire, di vincere, di farsi vedere. Insomma: un personaggio fondamentale. Se ancora avete dei dubbi in tal senso, beh, questa intervista ci piace pensare che li fugherà tutti. Intanto un bel “Mood” come antipasto e poi, sotto, via a domande e risposte.
Di cose ne hai fatte veramente ma veramente tante, in tutti questi anni. “Moods” come si posizione in tutto questo percorso?
Sostanzialmente, è un’altra tappa di un viaggio la cui scintilla scatenante è stato l’incontro con Franco D’Andrea.
Eh, non certo un dj, un producer di elettronica…
Eh, direi proprio di no (ride, ndi).
Una leggenda del jazz italiano.
Sì: ora mi sento molto meglio ad esprimermi più nel jazz. Lo diciamo? Vogliamo dirla una cosa?
Diciamola.
L’elettronica un po’ ha rotto.
Ah.
La dance ormai la vedo un po’ come una roba da ragazzi – e noi, noi stiamo diventando un po’ grandicelli, no? Sia chiaro: è sempre un amore infinito, cerco comunque di infilarla dappertutto. Ma al momento non la vedo come l’unico orizzonte possibile.
Sul tuo incontro con Franco D’Andrea ho la sua versione, perché ho avuto quattro anni fa la fortuna di fare una lunga e meravigliosa chiacchierata con lui, vorrei sentire la tua.
Come si suol dire: tutto merito di una botta di culo. Raffaele Costantino aveva lanciato un contest di remix, solo che invece di mettere le “solite” cose come materiale da remixare c’era un assolo per pianoforte di Franco D’Andrea. “Ma che bella questa cosa, quando mi ricapita”, mi sono detto.
Fermo lì: tu, col tuo nome, con la tua carriera, ti metti a fare dei contest?
Beh dai, era dieci anni fa.
(Luca Roccatagliati, alias Dj Rocca. Continua sotto)
Obiezione respinta. Il nome e la carriera li avevi già eccome. Li hai da oltre vent’anni, se è per questo.
A quale livello siano arrivati il tuo nome e la tua carriera in realtà lo puoi capire solo quando paghi le bollette: è lì che si misurano veramente le cose (sorride, ndi). Bello l’hype, bella la considerazione, quando si tratta di nutrire l’ego sono perfetti, ci mancherebbe; ma poi la verità concreta è un’altra. Una cosa te la posso dire: in quel momento lì, quando mi sono lanciato in quel contest, mi ricordo che iniziavo già a sentire molto l’esigenza di progredire, di tornare ad esplorare nuovi territori. Avevo realizzato in modo nitido che non volevo restare schiavo a vita delle grammatiche del mondo dance.
Ok.
A dirla tutta, comunque, quel remix che feci non era chissà che…
Dai, su, smettila.
Ma no, davvero. Non era qualcosa di veramente “superiore”, come invece poi ho imparato a fare suonando fianco a fianco con Franco. No: era una roba alla Kruder & Dorfmeister, nulla di incredibile, beat lenti, atmosfera jazzata, quelle cose così. Ad ogni modo, ‘sto contest lo vinco; e il premio era che il brano venisse fatto sentire prima di un concerto di D’Andrea stesso. Lui lo sente, e ne resta affascinato. D’altro canto lui non era certo uno che aveva speso tempo ad ascoltare mille volte le cose di Kruder e Dorfmeister, quindi per lui quello del mio brano era un mondo nuovo, inedito, lo intrigava sentire la sua musica prendere quella forma lì. E insomma: vuole conoscermi. È l’inizio di un’amicizia e di un viaggio artistico che mi porta a suonare con lui prima in trio, poi in un ottetto, poi addirittura in duo. E credimi: accidenti, che cosa stimolante.
Ah, ci credo sì.
Se vogliamo essere onesti, la dance negli ultimi trent’anni – da quando eravamo lì noialtri al Maffia, per dire, fine anni ’90, inizio 2000 – non è che sia cambiata granché. Quando iniziammo al Maffia un certo tipo di musica da dancefloor era fresca, innovativa, particolare; era insomma avventurosa. Oggi? Mi sembra che siamo ancora lì, come suoni, peccato però che sono intanto passati trent’anni. Nel campo della dance di nuovo e di avventuroso, magari per colpa mia, ne sento poco.
La dance ormai la vedo un po’ come una roba da ragazzi – e noi, noi stiamo diventando un po’ grandicelli, no? Sia chiaro: è sempre un amore infinito, cerco comunque di infilarla dappertutto. Ma al momento non la vedo come l’unico orizzonte possibile
Questo è un discorso molto interessante. Anche perché tra l’altro l’esperienza del Maffia, quando è nata, parlava effettivamente all’iper-presente, ad un “futuro possibile” nei dancefloor da declinare però nel qui& ora. Di tutto questo tu eri protagonista in prima persona. Ma negli ultimi anni del club reggiano, e anche in quello che è arrivato dopo, mi sembra tu per primo ti sia concentrato più a riutilizzare e rivitalizzare suoni da dancefloor “vecchi”: la disco, gli anni ’80 EBM…
Guarda, sarò sincero: è una questione di mercato. Negli ultimi anni del Maffia, e anche nei primi anni dopo che questa esperienza era finita, drum’n’bass e breakbeat erano in una fase calante, anzi, cadente, almeno dal punto di vista dell’interesse del pubblico, e in più il loro linguaggio si era completamente standardizzato. Che altro c’era, di nuovo, attorno al 2006, 2007? C’era la minimal; ma quella è una sfera in cui non sono mai riuscito ad entrare, non faceva per me, troppo poco musicale. E poi c’era anche, un po’ più di nicchia ma molto interessante, una nascente scena che ruotava attorno ai re-edit, che andava a ripescare nella disco più oscura, vedi esempio i vari norvegesi…
E tu ci andasti incontro subito.
Certo: perché io in fondo sono comunque un figlio di Baldelli e della Baia. Quando avevo 15 anni, io la disco la ascoltavo eccome. Nel momento in cui è riemersa in superficie e rifatta a modo, rimodernata con le nuove tecnologie di incisione e produzione, mi sembrava una cosa molto figa. Peccato che poi tutto questa cosa si sia anch’essa decisamente inflazionata e, pure lei, alla fine molto standardizzata.
Ho l’impressione che il dancefloor sia diventato un contesto artistico molto statico. Nel jazz sento molto più coraggio, molta più sperimentazione
A posteriori, non ti è mai venuto il rimpianto di non aver insistito nel tuo suono “da Maffia”, tra breakbeat e drum’n’bass intelligente, invece di virare su altro? Magari oggi saresti un vero e proprio “venerabile maestro”, tanto per usare la scala di Arbasino, quella per cui in Italia si passa sempre da “giovane talento” a “solito stronzo” per poi essere, alla fine, “venerabile maestro“…
Onestamente? No. Nessun rimpianto. Quando un linguaggio non si evolve più, e diventa formula, poi piano piano vanno a male sia lo spirito di un locale se parliamo del Maffia che la creatività personale se parliamo di me stesso. Se il Maffia avesse continuato, probabilmente avrebbe abbracciato l’ondata dubstep arrivata attorno agli anni ’10, d’altro canto la radice giamaicana è sempre stata molto forte nelle musiche che proponevamo. Ma anche quel fenomeno mi pare abbia perso presto impatto, nella sua forma più pura. Oggi vedo che c’è un certo ritorno del breakbeat ma, onestamente, mi pare non aggiunga nulla di nuovo a quello che già facevano vent’anni fa progetti come Plump Dj’s o Stanton Warriors… Davvero: ho l’impressione che il dancefloor sia diventato un contesto artistico molto statico. Nel jazz sento molto più coraggio, molta più sperimentazione.
Forse anche perché nel jazz, quando entrano in contatto col mondo “nostro”, con l’elettronica, lo fanno con un entusiasmo ed una curiosità quasi ingenui – che poi è il tipo di entusiasmo e curiosità che avevamo noi quando sentivamo per la prima volta certe cose provenire dall’Inghilterra di metà anni ’90.
Questo! Esattamente questo.
Che poi, nelle tue avventure jazz, ti piace trattarti bene quando si tratta di pianismo: prima Franco D’Andrea, ora Giovanni Guidi… Come siete entrati in contatto, tu e Giovanni?
Sempre merito di D’Andrea, anche solo indirettamente: lui ha veramente una sorta di “tocco magico”, almeno per quanto mi riguarda. Dovevamo suonare io e lui ad un festival organizzato dal contrabassista Paolo Damiani, però Franco appena prima della data aveva avuto dei problemi di salute. Ne parliamo tutti assieme con Andrea Scaccia, che era il nostro agente, e lui fa “Ma perché la data non la facciamo comunque, solo con Giovanni Guidi al posto di Franco?”. E io: “Mah, proviamoci…”.
Non eri convintissimo?
Mettiamola così: io Giovanni lo avevo incrociato prima, sempre grazie a Raffaele Costantino, loro due avevano fatto delle cose assieme, e insomma diciamo che era in una fase abbastanza selvaggia, avevo pensato che non sarebbe stato facile creare un concerto dal nulla con una personalità così esuberante come la sua. Invece, andò benissimo. Andò benissimo perché anche se era una cosa praticamente tutta improvvisata Giovanni era forte dell’esperienza recente con Matthew Herbert nel progetto con Enrico Rava, quindi sapeva dove mettere le mani – o anche dove non metterle – quando si trovava a suonare a fianco di un dj/producer. Ci siamo trovati così bene assieme, io e Giovanni, che sono nati subito discorsi sull’opportunità di fare qualcosa assieme. Abbiamo convenuto sul fatto che ci voleva anche un bassista, in questo nostro progetto. Inizialmente contattai Blake Franchetto dei Savana Funk, ma Blake ormai è troppo fedele ai Savana, non vuole distrazioni… Allora Giovanni se ne venne fuori con Joe Rehmer. Che io onestamente non conoscevo. Ma che, ovviamente, si dimostrò subito un drago assoluto. Giovane, americano, ha proprio un altro modo di rapportarsi con lo strumento, ed è molto bravo a fare le linee di basso anche col synth, una cosa che da noi si fa ancora molto poco e che io invece già da tempo avevo sentito fare e non poco, visto che è una caratteristica di tantissime release broken beat.
(Triorox: Dj Rocca, Giovanni Guidi, Joe Rehmer. Continua sotto)
Quanto c’è ancora di potenziale inespresso nell’incontro tra jazz ed elettronica?
Molto, ce n’è molto… Siamo rimasti ancora tanto sulla superficie. Da entrambe le parti. Per quanto riguarda l’elettronica, quasi tutto è sfociato nelle produzioni broken beat e in un certo tipo di scena che… mah… Guarda, ti faccio un esempio pratico: l’estate scorsa abbiamo suonato, come Triorox, a Roma, abbiamo aperto a Kamaal Williams, quindi dopo sono rimasto a sentire il suo live, figurati se non lo facevo, i suoi dischi mi piacciono molto. Però lo vedo dal vivo e… boh: in fondo lui si limita a fare quasi sempre i soliti quattro accordi e poi sì, accanto ha anche adesso un batterista della madonna come poteva essere prima Yussef Dayes, ma tutto questo non è veramente jazz. A Reggio diremmo: “Mangia coi denti alzati”.
Bellissimo. Però spiega meglio.
Non andavano mai oltre la superficie. Che poi è quello che si può dire di tutta la scena broken beat, almeno per quanto riguarda il rapporto col jazz. Sì, bellissimi accordi, per carità, anche cambi armonici non scontati; ma manca l’improvvisazione, manca una reale “esplorazione” dei linguaggi, manca la libertà di imprimere delle svolte davvero inaspettate. Tipo sconfinare nell’atonalità, come invece ho imparato da D’Andrea. Che poi, lo so, il rischio è quello di diventare troppo cerebrali, poco immediati. Però sinceramente, sai cosa – chi se ne frega! Chi l’ha detto che l’incontro tra jazz ed elettronica deve sfociare solo in musica ballabile e molto diretta e semplice come impatto?
(Rocca e D’Andrea “cerebrali”. Continua sotto)
Alla luce di tutto quello che mi stai raccontando, mi sa che devo farti una domanda: ma tu, a fare il dj, ti diverti ancora?
Sì. Sarò sincero: quando siamo ripartiti con la nuova stagione di Microclub, la serata che è nata qua a Reggio e dove son coinvolto…
…molto bella e stimolante, mi piace un sacco!
…esatto, ma quando siamo ripartiti il mio primo pensiero è stato “Oddio, di nuovo torno a quella cosa per cui devo aspettare fino alle due di notte prima di poter fare qualcosa”. Poi però quando sei in console, inizi a suonare, vedi che la gente si gasa di fronte a te e balla contenta sulla musica che stai scegliendo tu, è sempre bello come la prima volta. Ed inoltre, esattamente come nel jazz, è una faccenda di interplay. L’unica differenza è che qui l’interazione non è con altri strumentisti ma con la pista: respiri le vibrazioni che arrivano da essa, sì, ma al tempo stesso sei tu stesso a poterle influenzare, queste vibrazioni, con le tue scelte. Non sempre le vibrazioni sono quelle giuste, non sempre funzionano, ci mancherebbe. Ma quando funzionano, è semplicemente qualcosa a cui non vorresti rinunciare mai. Non sai quante volte il mio amico Zed Bias negli anni è arrivato da me dicendo “Basta, basta, devo smettere, sono stufo, non posso andare avanti a fare il dj, è ora di darci un taglio”. E invece, è ancora lì che suona (ride, ndi). E penso lo farò per moltissimi anni ancora!
Chi l’ha detto che l’incontro tra jazz ed elettronica deve sfociare solo in musica ballabile e molto diretta e semplice come impatto?
Tornerei un attimo su Microclub, che nella scorsa stagione – nel suo format molto carino, dove spesso la serata è preceduta da un talk – ha dedicato un intero appuntamento al Maffia, alla sua storia. Non so tu, ma io non mi aspettavo così tanta gente al talk. La sala era letteralmente murata.
Sai cosa? Penso che il Maffia sia stata un’esperienza importante non solo dal punto di vista musicale.
Era un’ideale, il Maffia. Concordo.
Forse è per questo che in tanti ci sono rimasti affezionati. E che c’è un’eco che, incredibilmente, ancora non si è spenta ed anzi pare tramandarsi di generazione in generazione. Quella sera, nella sala che effettivamente era bella piena, c’erano anche i figli di quelli che andavano a ballare allora: per loro noi siamo diventati una specie di culto, esattamente come per noi lo erano magari la Baia e il Cosmic. Credo sia un po’ questo, ecco. Il Maffia è stato speciale non solo per la musica in sé, ma perché era diventato un punto d’incontro naturale per tutti quelli che in qualche modo erano dei “reietti”, che non si sentivano parte integrante dei meccanismi e delle situazioni che in quel momento andavano per la maggiore. Erano persone che magari avevano voglia di ballare, e anche tanta, ma che non sarebbero mai andati in una discoteca tradizionale, perché quella per vari motivi le avrebbe messo a disagio. Bene: per loro, c’eravamo noi. Così come c’eravamo per tutti quegli appassionati di rock alternativo, e in quel periodo erano tanti, che erano così curiosi da aver iniziato a guardare pure verso l’elettronica, che invece di suo era visto in generale come un mondo completamente separato ed anche un po’ bruttino, dall’appassionato di rock medio. La verità è che il Maffia è nato e si è sviluppato in un contesto storico e geografico molto peculiare, difficile da ripetere. Forse sarebbe da studiare, da insegnare; di sicuro però prima di tutto la cosa ha funzionato per un motivo ben preciso: perché abbiamo avuto culo. Culo, sì, e anche la testa dura, che è una cosa tipica dei reggiani.
(Baldelli e Rocca in azione assieme. Continua sotto)
Prima citavi Baldelli, che è ovviamente un grande maestro. A parte lui, quali sono i dj che negli anni ti hanno impressionato di più? Perché tu ne hai visto parecchi… e parecchio bravi…
Ne ho visti tanti, sì! E quelli bravi in effetti li riconosci subito. Sai cosa distingue quelli bravi da tutti gli altri? La passione. La passione per la musica. Te ne accorgi subito, quando c’è; o anche quando non c’è. Sapessi quanti ne ho visti in questi anni, ma anche già negli anni del Maffia, di quelli che in realtà più che alla musica erano interessati a quello che girava attorno alla musica ed al clubbing: la fama, i vari benefit… Se sei bravo ed hai un minimo di spirito d’osservazione, te ne accorgi subito. Capisci cioè subito la differenza. Difficilmente quelli che lo fanno non per la musica ma per altro riescono ad essere davvero trascinanti, coinvolgenti, emozionanti. Sai perché? Perché fanno il compitino, musicalmente parlando. E non si prendono invece il rischio artistico e la responsabilità di farti “viaggiare”. Io sono cresciuto ascoltando e ballando in pista Baldelli e Mozart: questa cosa del “viaggione” l’ho sperimentata fin da subito, e fin da subito ho capito che era questo il modo in cui veniva interpretato il ruolo del dj da chi della musica è innamorato, innamorato per davvero. Ti senti cioè investito del compito di far scoprire cose che di solito difficilmente si sentono in giro, rendendole non noiose ma ma seducenti, trascinanti. Questo è il vero dj: quello che al tempo stesso ti educa e ti fa divertire. Le due cose assieme.
Possiamo però dire che oggi il pubblico è diventato meno esigente, più di bocca buona? E si fa andare bene anche cose meno profonde, artisticamente meno ambiziose?
Ho paura di sì.
Eh.
Si accontenta, il pubblico di oggi. Ti faccio un esempio molto concreto: negli anni del Maffia, mi ricordo di alcuni clienti che arrivavano alla serata con Howie B – che era un grande nome, aveva di riflesso la fama legata agli U2 – e gli dicevano senza mezzi termini: “Oh te, ma quand’è che inizi a suonare per davvero?”. Questo solo perché lui era più un selecta che un dj, quindi ecco, non è che fosse concentrato a fare dei mix perfetti… Venivano lì a cazziarlo per questo, anche se all’epoca era uno “famoso”. Oggi sarebbe possibile una cosa del genere? Non lo so. Ho l’impressione che oggi l’unico motivo per cui vai a parlare col dj sia per chiedergli di menare più forte. Non ti interessa altro. Non sei più portato a fare delle critiche nel merito, a pretendere un certo tipo di approccio, di qualità.
E il pubblico del jazz invece com’è?
Eeeeh, ha bisogno di una svecchiata… Ci sono i giovani, eh, non è che non ci siano. Giovani di anagrafe ed anche di spirito. Ci sono, sì. Ma ho come l’impressione che stiano più tra i musicisti stessi che tra il pubblico… Poi magari in realtà è solo una questione di contesto, perché quando invece mi è capitato di suonare con Franco D’Andrea in posti non del tutto convenzionali – mi ricordo ad esempio una volta a Torino – non solo i giovani fra il pubblico c’erano sì, ma erano pure particolarmente entusiasti a fine concerto, perché mi ricordo tutto questo nugolo di persone che viene a complimentarsi con Franco dicendogli “Oh, bomba, bomba!” (ride, ndi). Il pubblico giovane per il jazz ci sarebbe, anzi, c’è; solo che probabilmente per andarlo a intercettare bisogna evitare di andare sempre nei soliti posti “da jazz”, nei soliti festival più che consolidati… Ma prendi queste mie parole col beneficio d’inventario, eh. Anche perché io da tempo mi sono ripromesso di non mettermi più ad organizzare nulla, men che meno dei festival. È un dedalo complicatissimo, farlo. Quindi, sto zitto.
(Dischi complicati, ma bellissimi: in questo ottetto guidato da Franco D’Andrea ai piatti ed all’elettronica c’è il nostro Rocca. Continua sotto)
A proposito di cose complicate: in queste tue nuove avventure nel jazz ti sei sempre trovato a suonare con musicisti eccezionali, preparatissimi. Ora Guidi, prima D’Andrea e i vari organici che ti ha costruito attorno e in cui ti ha inglobato… Ok che tu hai un background solidissimo come conoscenza teorica e strumentale, qualcosa tra l’altro raro per un dj, però ecco: non deve essere stato facile iniziare a misurarsi d’improvviso con gente dalla preparazione tecnica così profonda su accordi, intervalli, cambi, divagazioni, improvvisazioni…
Non è facile, ma ti apre la testa. Il modo di improvvisare di Franco, che è tutto costruito su aree ed intervalli specifici, una cosa molto particolare, è stato davvero una illuminazione, mi ha arricchito a dismisura. Ma bisogna sempre stare attenti a non esagerare, a non finire troppo in soggezione: perché se tutta questa gente vuole suonare con me o comunque accetta di farlo, è evidentemente perché gli piaccio e gli interesso così come sono, non perché cerco di arrivare al loro livello ed alla loro impostazione. Non vogliono che diventi come loro. Non me lo chiedono. Al tempo stesso, tutti mi dicono: “Vabbé, che problema c’è, tu hai iniziato suonando con Franco… Da lì in poi, è tutta discesa”. Lui infatti ha una impostazione talmente raffinata, sofisticata ed interessante che è come se fosse già una sorta di “Università”: non lo penso io, lo pensano tutti i suoi colleghi, e vedere che mi ha adottato con così tanta fiducia evidentemente ricrea fiducia anche in tutti gli altri jazzisti che via via mi hanno accompagnato e mi accompagnano, e che mi accompagneranno – come ad esempio ora con Roberto Ottaviano, un altro grande, con cui stiamo ricreando un progetto dove oltre a noi due c’è anche un suonatore di oud ed un batterista.
Per la domanda finale, beh, ti sei un po’ autoincastrato, quando hai detto che hai smesso con ‘sta cosa dell’organizzare festival. Io però ti ci voglio ritirare dentro, almeno idealmente, in ‘sta roba dei festival ora tanto di moda; e ti chiedo che line up avrebbe un tuo festival oggi, se tu avessi un budget illimitato o giù di lì per tirarlo su…
Il primo nome te lo dico subito: Herbie Hancock.
Quello acustico al piano, quello funk alla “Head Hunters”, o addirittura quello electro di “Rockit”?
Lui ancora oggi può fare tutto. E fa tutto, in effetti. Ma “Head Hunters” è stata la mia porta d’ingresso al jazz, quindi vada per quello.
Perfetto. L’headliner ce l’abbiamo. Poi?
Beh, dobbiamo trovare qualcosa di un po’ più fresco, direi. Ma aspetta, in questo festival l’obiettivo è fare abbastanza gente, o fare semplicemente contento me?
Fare contento te.
Mmmh. Allora: Theo Parrish, Daniele Baldelli; poi un dj drum’n’bass, e in tal caso direi Fabio, perché è quello col tocco più liquido, più felpato. Nomi un po’ più nuovi, invece, ti direi Floating Points a fare un live. Ah, aspetta, mi stavo dimenticando Moodymann: non puoi non mettere dentro Moodymann… Dopodiché sai chi mi piacerebbe invitare, che non se lo fila mai nessuno? Ross Allen. Di tutto quel giro lì, Patrick Forge, Gilles Peterson, Ross Allen era forse addirittura quello più aperto, sarei curioso di sentire che musica suonerebbe oggi. Ho spazio ancora per altri?
Certo.
Direi Mala, quello che fa dubstep. Mancano dei tedeschi: dobbiamo metterceli, dai, non possiamo non metterne.
E mettiamone.
Roman Flügel. Perché lui è della vecchia scuola, quindi uno che spazia fra tutti i generi. Uno che invece da un lato vorrei chiamare dall’alto non so è Mathias…
Mathias chi?
Mathias della Toy Tonics.
Ah, Munk! O per meglio dire, Kapote.
Lui è uno molto competente, ma diciamo che ora ha finalmente infilato quella strada che era trent’anni che cercava di infilare… Fa bene, eh, fa benissimo, ma diciamo che per me è diventato un po’ troppo festaiolo: intendo per i miei gusti, per il “mio” festival. Però sono contento per lui, e l’invidio pure. Bravo lui! Ad ogni modo, ovviamente in festival dove decido io la line up non possono non esserci i norvegesi, Lindstrøm, il mio “fratello” Bjørn Torske.
Giusto.
Pensa che mi stavo dimenticando Mr. Scruff: lui, ovviamente, deve esserci. E poi mi pare il caso di aggiungere un live, abbiamo nominato troppi dj, quindi ti direi di mettere in lista anche Badbadnotgood.
E pure Triorox.
Eh sì, dai. Bisogna portarlo in giro, questo progetto! Bisogna farlo conoscere!