Cosa sarà, sarà una serata di reduci? Una rimpatriata in versione minore, una piccola reunion locale dove i fondatori se la ridono e se la raccontano fra di loro? Magari anche sì. Ma nell’eterno presente e nell’ansia di instant satisfaction che il clubbing pare voler imporre monodimensionalmente come rappresentazione di se stesso, avere dei momenti in cui si inizia a riflettere su ciò che è stato e soprattutto sul perché è stato così, beh, è fondamentale. Domani venerdì 16 febbraio, al Circolo Tunnel di Reggio Emilia, a partire dalle 20:30, ci sarà un appuntamento che, se avete dai quarant’anni in su, potrebbe riempirvi il cuore, per un prezioso ciclo di eventi chiamato Microclub.
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Già. Il Maffia. Che proprio da Reggio Emilia è partito per innervare l’Italia tutta di nuove vibrazioni, nel passaggio dal vecchio al nuovo millennio. Nuove vibrazioni che però oggi, nel 2024, sono (apparentemente?) archeologia. E non perliamo solo di suono, di genere musicale. Oggi infatti che la musica è fluida, che tutti ascoltano di tutto e che soprattutto tutti possono ascoltare tutto, è forse più difficile cogliere quanto rivoluzionaria fu quella esperienza, quanto cambiò la vita, l’attitudine e la percezione di molte persone. Ma forse provare a ri-riassumerla in poche righe può essere un’ispirazione, oggi: perché al di là dei megafestival che si reggono in piedi sui megaheadliner (che sono tali più per fama che per bravura effettiva, si sa) e in fondo sul fatto di avere il beneficio inerziale di essere situazioni one-off e con quindi la caratteristica di eccezionalità e di “evento”, oggi il clubbing ha una crisi di identità e di interesse. Stupido nasconderlo. Perché a furia di voler massimizzare il guadagno attorno ad esso, necessità che nasce dalla sempre maggiore avidità di tanti elementi del macro-sistema (gli artisti, i loro management, i grandi promoter…), si è trasformato troppo spesso, in troppi luoghi e in troppe situazioni da orgogliosa manifestazione d’identità di cui andare fieri a mero consumo divertentista. Dinamica che è come la coltura intensiva: nell’immediato rende i raccolti molto più ricchi, sul medio-lungo periodo questi stessi terreni li brucia, ne dimezza la fertilità, se non peggio.
Il Maffia non è mai stata una storia di grande successo economico e numerico. Non lo è stato agli inizi, quando i bilanci si chiudevano sempre in perdita (solo che per fortuna all’epoca i costi e di conseguenza le perdite erano un decimo o un ventesimo rispetto ad oggi), ma anche quando le cose hanno preso ad andare bene, quando cioè per qualche anno eri abbastanza sicuro che i sabati sarebbero andati sold out e qualche volta pure i venerdì, parliamo comunque di un posto che – anche a riempirlo a uovo – più di 700/800 persone facevi fatica a buttarle dentro. È il primo posto dove un già famosissimo Fatboy Slim è venuto a suonare, in Italia: la capienza del capannone di Viale Ramazzini era chiaramente insufficiente per un evento del genere (tradotto: Fatboy Slim ha rinunciato ad un sacco di soldi, gli organizzatori non ci hanno guadagnato più di tanto), ma Quentin Norman Cook si impose al suo entourage dicendo “Io la mia prima data in Italia la voglio fare lì, punto”.
Oggi questo tipo di favori, già rari di per sé, essenzialmente si ottengono offrendo prebende e benefit vari, e in realtà anche allora era già abbastanza così (lasciamo alla vostra quali fossero i benefit e quali le prebende); ma in realtà negli anni ’90 e nei primi anni 2000, quando sopravviveva ancora un po’ di romanticismo pure nei giri nobili e forti dell’industria del clubbing, poteva ancora accadere che un artista di peso scegliesse di suonare in un posto perché ne apprezzava il coraggio, le scelte musicali, la dedizione, e fanculo il resto. Il Maffia praticamente dal nulla aveva importato in Italia il big beat, diventando una imprevista ed imprevedibile succursale europea della serata Big Beat Boutique di Brighton, “casa” originaria di Fatboy Slim e di tutta una serie di dj/producer like-minded. Fra le mura del club reggiano si alternava una serie di artisti che erano nicchia della nicchia, visto che da noi in Italia ballare era ancora o techno o house, e stop. Stesso discorso per la drum’n’bass, altra arma danceflooriana sincopata, che non è stata una “invenzione” del Maffia per quanto riguarda il nostro territorio – altri sono stati i santuari originari – ma era comunque una bandiera identitaria e fortemente minoritaria per limitati manipoli di appassionati, gente che aveva appunto il coraggio di uscire dalla dittatura estetica della cassa in quattro, house o techno che fosse, e che intendeva il ballo anche come controcultura, come ricerca di una alternativa profonda.
Sì: cercare dei suoni diversi, e avere l’orgoglio sia da promoter che da semplice utente di sceglierli, l’orgoglio di crederci, l’orgoglio di essere particolari, di essere diversi. Onestamente, oggi capita molto di più che l’unico orgoglio scatti solo quando riesci a mettere le mani su un nome più famoso di altri o più cool di altri, e vale sia per i promoter che per i semplici clubber. Un tempo il clubbing era invece prima di tutto una manifestazione di diversità e di originalità, di essere un altrove rispetto al mainstream, rispetto alla discoteca, rispetto al pop, rispetto al commerciale: lo eri di per sé. Eri poi in qualche modo contento di “saperne poco” (e/o di fidarti ciecamente di quei pochi che invece a occhio ne sapevano tantissimo), e di essere in un “contesto minoritario”: varcare la soglia del Maffia è stato soprattutto all’inizio una sortita verso l’ignoto e una voglia di abbracciarlo, questo ignoto.
Oggi quanto è sopravvissuto di questa attitudine?
La risposta a questa domanda può essere interessante. E speriamo non si trasformi solo ed unicamente in una litania di lamenti e di rimpianti, “Ah, un tempo sì che le cose erano fighe…”, ma sia lo stimolo per capire come, in che modo e in quale direzione il clubbing possa tornare ad avere un ruolo così viscerale ed identitario nella vita delle persone, in primis di chi oggi ha venti, trent’anni, perché uno dei problemi fondamentali della club culture in Italia ma non solo in Italia è il ricambio generazionale: i suoni sono gli stessi da vent’anni, le persone forti dell’industria e della scena sono quasi le stesse da vent’anni, l’unico ricambio reale lo si è avuto con l’avvento dell’EDM e, in parte, con la tech-house e/o la hard techno a favore di Instagram e di TikTok: ma non può esserci solo questo.
(e comunque al Maffia non c’era solo l’elettronica; continua sotto)
La capacità di immaginarsi un’alternativa, la bandiera appunto del “non può esserci solo questo, cazzo”, è ciò che ha generato la scintilla del Maffia: una scintilla che ha dato vita ad un fuoco che, per qualche anno, ha inciso tantissimo sulla vita e sulla formazione culturale di chi vi è entrato in contatto, donando la libertà di essere sia fuori dalle liturgie mainstream commerciali che da quelle antagoniste più polverose e militanti. Abbiamo amato di più il clubbing – e lo amiamo tutt’ora – perché abbiamo sentito che poteva essere qualcosa che ci rispettava profondamente e di cui essere orgogliosi, qualcosa che potevamo sentire come nostro, “personale”, non standardizzato.
In realtà non c’è nulla di male nell’avere un rapporto più superficiale e disincantato, nel farsi andare bene Peggy Gou e Guetta e la Paganotto e i fuochi d’artificio: è una caccia alle streghe di scarsa utilità ed efficacia cercare di bruciare tutto il coté commerciale&divertentista che ruota attorno al ballo (e non è nemmeno corretto farlo). Il messaggio che semmai deve passare con forza è che in realtà, quando hai un rapporto più profondo, personale ed originale con qualcosa, questa stessa cosa te la godi molto di più e, sul medio periodo, essa influisce molto più positivamente sulle tue emozioni.
Ecco perché nel 2024 parlare ancora del Maffia è importante, pure se è chiuso da vent’anni, pure se rispetto alla dinamiche odierne la sua esperienza fa sorridere per scala di dimensioni e tratti di ingenuità. Certe volte anche dalle “serate di reduci” possono scaturire riflessioni ed energie importanti, ed è quello che ci piace pensare abbia creduto chi ha creato il ciclo di appuntamenti Microclub: perché appunto non lo ha progettato come “mini Memorabilia”, in cui si balla con dei nomi amarcord in console e stop, tutti felici e nostalgici per una sera, ma nel suo format ha voluto anche la parte legata a un Talk, a una tavola rotonda cioè che coinvolge i protagonisti. Venerdì 16 febbraio, infatti, ci sarà una rappresentanza quasi integrale dei fondatori del Maffia, chi insomma più e meglio ne ha incarnato lo spirito originale; e conoscendo lo spessore umano ed intellettuale dei protagonisti, a partire da chi ha dato vita alla bella, sotterranea avventura di Rizosfera (una sorta di cellula di resistenza culturale tanto sotterranea quanto alta, adulta, curiosa e consapevole. che nasce al 100% dall’esperienza Maffia originaria come coordinate etiche ed intellettuali).
(ecco chi parlerà al Talk; continua sotto)
Della mitologica esperienza del club di Viale Ramazzini si potrebbero raccontare tanti aneddoti, tanti ricordi, tante vanterie (i primi ad aver fatto eccetera eccetera), ci si potrebbero appuntare tante medaglie sul petto tra chi l’ha fatto e chi l’ha frequentato; anche qui su queste pagine potremmo farlo, e probabilmente lo faremo
Ma forse ora più che celebrazioni c’è bisogno di riportare in circolo l’idea del si-può-fare. Si può immaginare cioè un’avventura che esuli da rotte predeterminate, mainstream o underground che siano, per inseguire il piacere dell’originalità, della personalità. Tutto questo per piacere proprio, e per tornare a rendere il clubbing una parte delle nostre vite e uno stimolo ad essere persone più consapevolmente felici, e non solo una parte intercambiabile del nostro menù di svago. Se proprio volete bene al Maffia e a ciò che è stato, connettetevi per bene a quanto fa nel suo piccolo Rizosfera, tra release di pregio e volumi cartacei significativi – una mappatura di menti coraggiose, oggi come allora.