L’anno scorso è uscito un libro molto, molto, molto interessante. Per il contenuto in sé, e per l’approccio. Ne avremmo voluto ovviamente parlare: ma la pandemia ha scompaginato un po’ tutto, e soprattutto ha scaraventato un po’ tutto in una specie di “eterno rimando”, di “…di questo ne parlo appena torniamo alla normalità“. Ed in effetti, era sensato parlare di un libro che approfondisce in maniera interessante come non mai il concetto di clubbing solo nel momento in cui il clubbing lo puoi tornare a fare davvero. Anche perché “Notti tossiche” di Enrico Petrilli, uscito per un editore prestioso come Meltemi, è da un lato una interessante ricerca universitaria dal piglio accademico, con tanto di citazioni e bibliografie e incedere di un certo tipo; dall’altro, però, è davvero “uno dei nostri“. Petrilli infatti non è il professore universitario che si diletta in ipotesi speculative anche originali o che si approccia, da interessato osservatore esterno, a fenomeni “giovani” (ancora si cita il buon Lapassade per le sue ricerche sui rave, per “Dallo sciamano al raver”: ma Lapassade raver certo non era); no, è uno che a ballare ci va, che esplora gli anfratti più underground, che non si tira indietro quando c’è da “immergersi” – dato il senso che volete – nell’energia dionisiaca del ballo.
Le cose di cui parla, le conosce. Le mette in pratica. Le vive. E non si nasconde dietro ipocrisie. Il cielo sa quanto avremmo bisogno di un corpus intellettuale di questo tipo. Non sappiamo se Petrilli farà carriera universitaria, ma quello che vi possiamo consigliare sono due cose: uno, incontrarlo in giro, visto che è una persona molto simpatica; due, fare vostro il suo libro perché davvero vi può dare un’approfondimento non banale e molto particolareggiato a ciò che è l’esperienza-ballo, l’andare nei club, il cercare situazioni non convenzionali.
E visto che oggi è il primo weekend legalmente concesso al ballo dopo chissà quanto tempo – estati ed illegalità a parte – abbiamo voluto festeggiarlo non solo parlandovi di questo libro, consigliandovelo come corredo indispensabile per capire meglio l’architettura delle vostre passioni, ma anche presentandovene qui un estratto che gentilmente Enrico ci ha concesso. Buona lettura. E in questo weekend, ballate felici, ballate consapevoli. E la consapevolezza, nelle cose che fate, nei pensieri che avete, nelle letture che scegliete, ve la dovete costruire voi.
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Le ambivalenze del dancefloor
«All’inizio sono un satellite. Ho orbitato intorno alla pista, ma non ho neanche disdegnato la forza gravitazionale degli altri pianeti – birra presa al bancone del bar e sopralluogo ai cessi – ma la forza del dancefloor è la più potente, non riesco a staccarmici a lungo. Il dj mette pezzi molto allegri, il ritmo è costante e incalzante, c’è già un bel gruppo di persone attente e in fotta a ballare. Giro intorno alla pista-pianeta per un po’, vedo Martina ballare nelle prime file. Oggi sono più lento del solito. Ad un certo punto parte un pezzo violentissimo (cassa dirompente e suoni acidi), una virata inaspettata dal dj e cambia l’umore della sala, anche io rispondo d’istinto: mi tramuto da satellite a meteorite, attraverso ballando convulsamente il dancefloor in direzione di Martina, c’è tutto un delirio intorno a me» (Berlino, 04 settembre 2016)
Ad un certo punto scatta qualcosa. I piedi o la testa non sono più le sole parti del corpo a rispondere alla musica, perché il bacino, le gambe e le braccia iniziano a prendere vita: “[la musica] vibra attraverso il tuo corpo e lui inizia a ballare” (Jeroen, B07MOE). Per qualcuno questo processo di possessione inizia immediatamente, appena possibile ci si getta sul dancefloor per sfogare la propria voglia di ballare, ma la maggior parte, invece, aspetta la traccia e il momento giusto. Come insegna Malbon (1999, p. 98) la scelta su dove posizionarsi in questa fase dipende dalla necessità di assicurarsi un proprio spazio personale o per avvicinarsi e connettersi con gli altri. Teresa (M14FOE) deve essere assolutamente nelle prime file per non perdersi “l’espressione dell’artista mentre mette un disco o spippola”, Jeroen (B07MOE) vuole un posto rialzato dove poter avere una visione d’insieme della calca di persone, ma anche per essere più in vista. Per Adriano (M07MOE) la comfort zone è sottocassa quando non è troppa affollata, altrimenti “preferisco stare un po’ defilato, ma dove posso tenere sotto controllo tutto” e anche Gaëlle (B09FYE) non vuole un posto congestionato e cerca un punto in cui le persone attorno a lei siano nel suo stesso mood.
“C’è stato un momento, quando poi siamo tornati a ballare, che non sapevo bene cosa dovevo fare, come dovevo muovermi. Avevano messo questa traccia, che dice ‘relax your body, relax your soul’, è un pezzo House di fine anni ’80, quindi ho preso alla lettera quello che questa canzone mi stava dicendo e ho detto ‘va bene, adesso mi rilasso, mi lascio andare, ballo, e lascio il mio spirito e le mie gambe andare a ritmo della techno. […] Questa canzone qui è stata essenziale per entrare dentro”.
In questo flashback Ele (B16FYE) racconta il suo primo evento di musica elettronica significativo. Benché lo spaesamento e l’insicurezza sia dovuto alla sua scarsa esperienza, il processo di abbandono alla musica è comune tra i clubber. Ad esempio, tornando alla scelta di Gaëlle di posizionarsi in mezzo a persone con uno stato d’animo simile, né sovraeccitate né passive, è una collocazione utile per fare in modo che corpo e musica inizino realmente a comunicare senza essere disturbata da chi le sta attorno. Per spiegare questa relazione tra corpo e musica, compara la gestione del flusso sonoro ad un evento di musica elettronica con quanto accade alle serate hip hop o dancehall: negli ultimi due casi le tracce musicali hanno una propria autonomia e sono presentate in maniera sequenziale, in discoteca la musica elettronica non si spezza mai e i clubber possono godersi “questa sensazione di maggiore continuità, in cui puoi entrare totalmente nella musica come fosse un viaggio” (Gaëlle, B09FYE).
Anche secondo Ettore (B10MOO) è un “viaggio sonoro”, una storia raccontata dal dj, in cui i suoni sono sostituiti alle parole e hanno il medesimo potere evocativo nel fargli provare sempre nuove emozioni e piaceri, perché “c’è ancora un altro ritmo o un altro qualcosa nella musica o nel mix che influenza le tue emozioni” (Gaëlle, B09FYE). I clubber intervistati non si basano solo su categorie estetiche o musicali nel descrivere l’esperienza del ballo. Superando una concezione elitaria della musica come ascolto distaccato e disincorporato, adoperano sensazioni, emozioni, immagini, paragoni e ogni altro riferimento in loro possesso per rendere la complessità di questa esperienza carnale: Maxime (B05MYO) preferisce della “happy music” che lo faccia ballare grazie alla sua semplicità compositiva e alla gioia sprigionata da suoni caldi e avvolgenti, Simone (B01MOO) adora la “techno estremamente tamarra” con “sonorità pam pam pam”, ossia molto potente e ripetitiva, in maniera simile Reina (B13FYO) desidera qualcosa di “molto veloce, molto aggressivo”, qualcosa che la costringa a muoversi. Anche Ale (M16MOE) è alla ricerca di esperienze forti, ma non è tanto una questione di genere o velocità, ma dall’accostamento e la diversità dei suoni, in grado di fargli provare “sensazioni quasi di beatitudine e subito dopo sensazioni di spavento, terrore”.
Mentre si balla la musica inizia ad assumere una sua materialità, perché coinvolge tutto il corpo, non semplicemente le orecchie. Maxime (B05MYO) nota al riguardo come con un buon sound system il piacere dell’ascolto non è solo astratto, ma diventa “un’esperienza davvero fisica, il mio corpo sente la musica dentro”. Ai coni delle casse che si muovano sprigionando i suoni, corrisponde un movimento dell’aria invisibile che colpisce prima «la cassa toracica in cui rimbombano i bassi», ma arriva ad estendersi su tutto il corpo, «la pelle è cosparsa di suono». Quanto scrivo nelle mie note è confermato da Angela (M10FYO) che indicandosi il petto: “sento le vibrazioni nella cassa toracica, che mi fanno sentire qua tutto che vibra, un brivido nelle spalle e nel collo, mi sta venendo solo a pensarci [ride]”. Teresa (M14FOE) spiegando cosa intenda con “sto entrando in qualche modo in contatto con la musica”, esprime tutta la multisensorialità di questi frangenti:
“Cercare di assorbirla in qualche modo, prenderla non solo con le orecchie, visto che è l’unico modo che abbiamo, forse è anche visiva in qualche modo, anche vedendo le altre persone come si muovono. Però stiamo parlando di onde, almeno come me lo immagino io, e quindi vuol dire che cerchi di assorbirla anche con il corpo, in qualche modo. Con altri sensi, forse […] Senti delle pressioni in alcune parti del corpo, vere”.
Il flusso ininterrotto di movimenti, sensazioni, emozioni e pensieri non è determinato solo dalla forza evocativa della musica, ma è il risultato di un concatenamento complesso di musica, luci, corpi, temperature e sostanze stupefacenti. I fattori scenici più rilevanti sono le luci e il fumo, la cui azione combinata ha conseguenze sull’atmosfera della pista da ballo e sulle esperienze dei clubber. I due attori non umani delimitano e caratterizzano lo spazio del dancefloor, rendendolo unico rispetto al resto della discoteca: il fumo ne traccia i margini e crea un alone di mistero al suo interno, mentre le luci accecano e contemporaneamente rendono visibile per qualche istante cosa succede attorno. Malbon (1999, p. 97) luci e fumo “disorientano sensualmente e isolano fisicamente il clubber”, creando quello spazio fisico e mentale in cui si muove chi balla, come nota Adriano (M07MOE) “queste luci a intermittenza ti portano in un altro mondo”. Inoltre, aggiunge Ale (M16MOE) le luci a “livello ritmico sono estremamente potenti” perché in grado di interagire con la musica e renderne visivamente qualità sonica e carica seduttiva. Ritorna la multisensioralità del dancefloor, come spiega Simon Frith (1996, p. 156) per i clubber la distinzione tra musica e contesto perde di significato, i loro movimenti agiscono sulla realtà circostante “trasformando lo spazio stesso in una sorta di immagine sonora in movimento”. Il regime scopico e quello uditivo si sovrappongono, non sono più distinti chiaramente, quello che vedi è sempre anche il risultato di quello che senti e viceversa (Malbon, 1999).
In questi frangenti avviene qualcosa di fondamentale per poter comprendere i piaceri del dancefloor: “mi piace quando senti che la vibrazione è entrata nel tuo corpo e il tuo corpo reagisce di conseguenza” (Matteo, B02MOO) e una “reazione fisica, come un topino: fai sentire un suono e forse lui farà qualcosa” (Teresa, M14FOE). La materialità del suono «è un assalto ai sensi», ha un effetto diretto sul corpo di chi balla, producendo una reazione diretta che proviene dalle loro viscere. È il primo punto di un cambiamento nel rapporto tra soggetto e musica, una fase di passaggio descritta da Frith (1996, p. 221) come “l’atto stesso di cedere il controllo alla musica – questa è la differenza tra un movimento che coincide con un beat e un movimento che si sottomette ad esso”. Non si tratta più dei movimenti iniziatori di chi si muove per seguire la musica a bordo pista, come un «surfista che sta cercando di prendere l’onda», ma sono i movimenti sincopati di chi ormai sta già ballando, come un «surfista che sta cavalcando l’onda, perché è già dentro la musica».
La metafora del surfista dalla mia nota di campo è suggestiva quanto limitata per l’eccessivo peso sull’agency del soggetto, ancora una volta si rischia di sottovalutare gli effetti degli attori non-umani e delle relazioni più-che-umane instaurate sul dancefloor. Nelle mie note di campo descrivo quanto avviene in questi termini: «il dancefloor è un campo di forze creato dalla potenza delle casse, l’oscurità della sala, i flash delle luci, i corpi degli altri. Sono attraversato da queste energie e il mio corpo è una cassa di risonanza che le accoglie, le processa e le fa esplodere». Il riferimento alle energie è una costante anche nelle memorie sensoriali dei miei interlocutori: Gaëlle (B09FYE) concepisce la musica come una “un’energia che mi attraversa”, mentre per Kristen (B04FOE) queste energie sono come onde che la muovono e, allo stesso tempo, restituisce agli altri ballando. A rendere ancora più dettagliatamente l’immagine delle forze che dominano la pista e dei loro effetti su chi balla è Federico (M04MYE):
“[…] più che cosa ho sentito posso dirti come ho agito, che è una naturale conseguenza. Di fatto ho sentito necessità di muovermi, di liberare dell’energia che sentivo in quel momento e che sentivo come indotta da quel contesto, da quella situazione. Non era un qualcosa che mi sentivo dentro già prima, dopo è arrivata a quel punto. Prima ero anche quasi abbastanza preso male e entrando in quel contesto… questa cosa me la sono completamente dimenticata. L’unica esigenza che sentivo era quella di muovermi, sentivo la musica particolarmente vicina, dentro, come se stimolasse qualcosa di soddisfacente, mi sentivo a posto con me stesso, centrato diciamo”.
La musica è così pervasiva nel farti muovere e l’energia del dancefloor è tanto potente che «avviene un processo di possessione, e come se si perdesse il controllo del corpo. Dei burattini mossi con fili fatti di suoni». Le mie note possano sembrare esageratamente liriche, ma nelle parole dei clubber ritroviamo il medesimo potere seduttivo: “il mio corpo si muove per la musica e con la musica” (Matteo, B02MOO). In questi frangenti ci si lascia andare e si perde il controllo di sé, una de-soggettivazione descritta da Maxime (B05MYO) nei seguenti termini: “mi sono completamente abbandonato, […] come se, in un certo senso, il tuo io si fosse lasciato indietro completamente, perché ti dissolvi completamente nella musica. Una sensazione di resa incondizionata e gioiosa alla musica, con la mente totalmente liberata – “non avevo più pensieri, c’erano solo sentimenti” (Maxime, B05MYO) – e non si avesse più il controllo sul corpo – “momenti in cui proprio non capisci un cazzo, senti solo la musica e il tuo corpo va e tu non ci pensi a quello che stai facendo” (Angela, M10FYO). È un canto delle sirene capace di far perde valore a tutto il resto, per raggiungere un senso di libertà (anche da se stessi):
“Non mi interessa più di nulla, solo di questa situazione. […] è come se il corpo si emancipasse da tutto, anche da te stesso. Ad un certo punto è come se non fossi più me stesso. Un’esperienza musicale che mi porta così nel profondo che non sono più io” (Gabriel, B14MYE)
Lo stato di abbandono sonico e il dissolversi nella musica sono elementi essenziali del potenziale edonico del dancefloor, ma sarebbe impreciso fermarsi qui. Dalle parole dei clubber emerge come lasciarsi andare a tali energie sia propedeutico per poter esprimere con il proprio corpo qualcosa che non potrebbe essere compiuto/detto altrimenti. Il legame stretto tra clubber e musica diventa esso stesso un ballo a due, reso da Kristen (B04FOE) in questi termini: “dare un movimento ad ogni ritmo, ad ogni fottuto beat, ad ogni fottuta cosa che puoi ascoltare”, mentre Angela (M10FYO) constate che “mi piace il fatto di cercare di aderire il più possibile a ogni pezzo del suono che mi sta passando alle spalle, cercando di esprimerlo con tanti movimenti diversi”. Come loro, ogni clubber sembra avere sviluppato i propri gesti/vezzi, muovendo in maniera specifica una parta del corpo, come se la caricasse con una scossa di piacere: chi balla sensualmente muovendo il fondoschiena, chi muove le spalle e il collo contorcendo la testa a secondo dei suoni o semplicemente spostandola avanti e indietro seguendo la cassa, chi si affida alle mani stringendo forti i pugni quando le casse diventano prorompenti o tagliando lo spazio attorno, infine c’è chi digrigna i denti e corruga il volto, in un sorriso inquietante.
“D: Prima hai usato il termine reinventare quando hai parlato dello sculettare, twerkare… perché reinventare?”
“R: Perché non ho alcuna esperienza in materia. Mi sono un po’ costruita il mio modo di ballare, il mio approccio al ballo in contesti di clubbing da zero, come tutti credo. […] Non dico che c’è uno studio particolare però mi piace che ci sia stato questo percorso” (Elvira, M02FYE)
In questo capitolo i piaceri elettronici sono analizzati attraverso una prospettiva sincronica, tuttavia è utile approcciare il ballo anche con uno sguardo diacronico. Mentre il corpo aumenta la propria tolleranza ad una specifica sostanza psicotropa se è assunta in maniera ricorrente, con la conseguenza che se ne godranno sempre meno gli effetti psichedelici, eccitanti, epatogeni, rilassanti ricercati, per quanto riguarda la danza è possibile affermare l’opposto. Come segnala Elvira (M02FYE), il dancefloor delle discoteche è il primo e unico contesto dove gran parte dei clubber impara a gustare i piaceri del ballo: è una sorta di palestra dove attraverso l’osservazione, l’imitazione e la sperimentazione si può migliorare ogni weekend la propria capacità a muoversi e a rispondere alla musica (apprendere a ballare) come la propria capacità di goderne (apprendere a riconoscere i piaceri del ballo).
In questo processo di apprendimento carnale la pista diventa uno spazio di forte espressione personale. È la presentazione del sé di Goffman (1969), di chi attraverso gesti e movimenti mette in scena il proprio personale rapporto con la musica per veicolare una qualche immagine di sé, per quanto semplice o poco definita. Marco (M13MOO) sente l’urgenza fisica ad “esprimermi, muovermi. Di esprime il mio me, quello che provo in quel momento” che lui esemplifica attraverso il gesto di togliersi la maglietta, simbolo della sua carica sessuale, un’energia fortissima che non riesce a dominare; mentre per Simone (B01MOO) muoversi in maniera molto sensuale è un gesto per rivendicare la sua femminilità contro il machismo della scena gay. Ancora Ilaria (M08FOO) distingue tra quando agli inizi ballava come gli “scimpanzé che allargano le braccia” per colpa del suo “lato molto da maschio alpha, per cui per me è sempre stato un po’ sfoggio e marchio del territorio”, e oggi in cui “salto, sono molleggiata” perché è più tranquilla e la pista é “sempre meno [uno spazio] di messa alla prova della mia persona”.
Il rapporto tra musica e soggettività mostra un doppio movimento tra de-soggettivazione e ri-soggettivazione21 espresso da Gomart e Hennion (1999, p. 221) con la locuzione “abbandono consensuale”, dove la musica è un “dispositivo di passione” a cui il soggetto sceglie volontariamente di abbandonarsi. Ci troviamo di fronte ad un equilibrio tra passività e agency, tra attore umano e attore non-umano, in cui soggetto e oggetto sono necessari nelle relazioni che instaurano l’uno con l’altro. Dissolversi nella musica ed esprimersi ballando non sono due esperienze opposte, ma piuttosto la dimostrazione di quanto postula Frith (1996) sulla danza: non è una pratica brainless, senza cervello, in cui l’urgenza del corpo sopprime tutto il resto (come vorrebbe il razionalismo occidentale), all’opposto attraverso il ballo ci si connette alla musica e perdendosi in essa è possibile ragionare attraverso il corpo. La musica e i movimenti dell’ascoltatore attivo che balla riconfigurano il rapporto tra pensiero e azione in chiave non dicotomica, con il dancefloor come spazio di ambivalenza in cui dominano le “sensazioni piacevoli dello stare-tra” (Malbon, 1999, p. 71): lasciare andare il proprio corpo e acquisire un maggiore controllo su di esso, perdere contatti con il proprio self ed esprimerlo attraverso i propri movimenti, dipendere totalmente dal dj e fornirgli gli stimoli necessari per poter continuare, perdersi nella massa di corpi e sentirsi parte di qualcosa, liberare la mente da ogni pensiero o ripensare alla propria vita mentre si sta ballando.
Sono tutte esperienze ambivalenti, apparentemente contrapposte, che prendono forma sul dancefloor. Come per la socialità polimorfa anche sulla pista ritroviamo la medesima capacità dei clubber di riconoscere, distinguere e provare sensazioni e emozioni molto diverse tra loro. Anche in questo caso i piaceri del dancefloor sono modellati dall’incontro caotico tra quei soggetti, oggetti ed energie che attraversano questo spazio e lo animano. Non è il semplice esito di un processo di causa-effetto, ma il prodotto dell’unione e dell’interazione di molteplici fattori distinti tra loro, i quali si combinano nel creare quell’evento eccezionale e difficilmente descrivibile che è una massa indistinta di copri mossi all’unisono dalla musica, ognuno secondo il proprio stile e gusto personale. Per descrivere il complesso equilibrio di una gioia contemporaneamente collettiva e individuale – quella che Malbon (1999, p. 70) definisce come “processi di piacere estatico e vitalità individuale e di gruppo”, Regina (M12FYO) ritorna alla sua infanzia, quando era più facile lasciarsi rapire dalla sorpresa e dall’euforia:
“D: Quando balli a cosa pensi?”
“R: Spesso mi rendo conto di pensare. ‘È tutto così giusto qua. Mi sento così giusta qua’. Sono tutti pensieri molto positi-
vi. È tutto molto acceso, molto una cosa di benessere ‘Dio, che figo! Come sto bene, speriamo che non finisca’.”
“D: Se dovessi descrivere come ti sei sentita con una metafora, quale utilizzeresti?”
“R: Mi sono sentita come la mattina di Santa Lucia, quando da bambina sei convinta che il 13 Dicembre arrivi Santa Lucia a darti i regali e tu ti svegli e ‘wow proprio quello che volevo!’, c’è tutto. Proprio sorpresa, così come una bambina la mattina di Santa Lucia.”