Si è fatto un gran parlare – o almeno, l’argomento è apparso più volte nella bolla degli appassionati hip hop in zona –enta o –anta – del nuovo disco dei Public Enemy. Anche in questo speso si è spesa la ormai tradizionale formula “…è il miglior album dei PE dai tempi di”, che più o meno accompagna ogni release successiva a “Muse Sick N-Hour Mess Age” (all’epoca un mezzo passo falso, col senno di poi e vedendo cosa è uscito poi un signor disco). Stavolta però c’erano un bel po’ di fattori in più a solleticare gli animi, le nostalgie e a far tirare fuori dagli armadi – se non devastate dalle tarme e dai troppi lavaggi – le magliette col logo della band: il ritorno su Def Jam dopo vent’anni, le comparsate di pregio (due terzi dei Beasties, Run DMC, Nas, Questlove, Black Thought, Dj Premier, B-Real: un sogno bagnato per chiunque abbia messo cuore e anima nel rap “storico”) e poi insomma, anche il fatto che a sparare contro Trump si guadagna sempre l’attenzione dei media di una vasta area e tante pacche sulle spalle (comprensibile e giusto: Trump, a scanso di ogni equivoco, è veramente immondo in quanto a statura politica ed onestà intellettuale).
Purtroppo la brutta notizia parte proprio dalla politica: se l’opposizione a Trump è questa, preparatevi a rivedere il Parrucchino Rosso a pascolare per altri quattro anni nel giardinetto della Casa Bianca (…e ovunque nel mondo, con la sua spocchia e la sua ignoranza elevata a valore e strategia politica). Sì, ok, bella causa “STFU”, poi c’è pure Flavor Flav – ennesima puntata di un triste teatrino che si trascina da anni, ‘sto litigio / non litigio tra Chuck D e Flav – e insomma, via, siamo tutti contenti. Siamo tutti contenti? In realtà, no. Un’opposizione di questo tipo a Trump è come una cartolina ingiallita con una foto del lungomare adriatico e la scritta “Saluti da Rimini” sopra: sa di altri tempi e, anche a pensarla fatta per davvero in questi “altri tempi”, sarebbe del tutto prevedibile, formulaica, banale. Qualcosa insomma fatto quasi per onor di firma – massì, mandala una cartolina “tranquilla” e rassicurante alla nonna, anche se in realtà ti stai calando le paste in Piramide già da tre giorni – e che tornando alle contingenze del contemporaneo già fatica a scaldare i cuori dei già convertiti, figuriamoci quanto può spostare tra gli indecisi e i più ben disposti verso Trump. Se l’opposizione è questa, il Toupet Carota può dormire sonni tranquilli.
Non si capisce che senso abbia buttarsi così tanto – come mai in passato – nell’operazione nostalgia, e farlo però così male
In generale, è tutto “What You Gonna Do When The Grid Goes Down?” che sa clamorosamente, e tristemente, di vecchio. E fatto male. Sì. Come uno show di avanspettacolo di un comico un tempo fortissimo in televisione che oggi, di fronte a una platea che è un centesimo di un tempo (e chi c’è, è invecchiato e ha messo su famiglia), prova a riproporre le battute di repertorio. Ma le ripropone male. In modo stanco. Sbagliando i tempi comici – anche perché sta ancora seguendo, pure con poca verve, quelli di trent’anni fa. E’ un po’ ingeneroso dare del “comico da avanspettacolo bollito” a Chuck D, ce ne rendiamo conto, e in realtà la nostra durezza nasce dall’amore e dalla stima.
E’ che davvero non capiamo che senso abbia buttarsi così tanto – come mai in passato – nell’operazione-nostalgia, e farlo però così male. Nonostante le cartucce a disposizione. Appunto: Trump, gli ospiti “storici” da sogno, la voglia di molti di un rap che torni ad essere opposizione e non solo Versace-Versace-Versace: tanta, tantissima roba, no? Che se facevi un disco degno, artisticamente vitale, stilisticamente aggiornato, era proprio da dire “IL RE E’ TORNATO”. Poteva essere veramente il disco giusto al momento giusto, il degno complemento a “RTJ4” e la saldatura tra vecchia scuola e quella contemporanea nel nome del rap per-gente-intelligente-e-non-per-teenager.
(ascoltare per credere; continua sotto)
Purtroppo l’album non è né vitale, è infatti quasi necrofilo nel suo indulgere sul passato e nel provare a disseppellirlo, né aggiornato, con le basi che sono una copia stanca dei capolavori della band. E lo capisci del tutto quando parte “Fight The Power: Remix 2020”: che suona subito come di gran lunga la base migliore, più tesa ed intensa del disco (tolto il buon “cioccolatino” regalato da Premier, che peraltro non si è sbattuto molto a rifinire), e stiamo parlando di musica pensata e creata trentuno anni fa. Trentuno. I feat di prestigio, poi, sono appiccicati col nastro (…e in qualche caso fatti da artisti ormai fuori forma in modo evidente). Chuck D si suo ha mantenuto la voce stentorea suo – bellissimo! – marchio di fabbrica, ma ha sempre più difficoltà a stare bene sul tempo. Ed è paradossale che la cosa risalti così tanto, ora che grazie ai trapper è stato sdoganato come non mai il rap scarso forte.
Non mettiamoci le fette di salame sugli occhi, ecco. Il fatto che ai nostri occhi i Public Enemy rappresentino (e veicolino, Flav permettendo) il messaggio “giusto”, il fatto che noi si abbia voglia di un hip hop che torni ad essere consistente come contenuti e non solo come tatuaggi e treccine, il gusto di ritrovare al microfono tanti vecchi amici per una (apparentemente) buona causa, non deve impedirci di vedere come questo “What You Gonna” eccetera sia triste, proprio triste. Lo è in primis per gli obiettivi che si pone, tipo tornare alle vette di un tempo: ma se provi a farlo ripercorrendo male e stancamente ricette con tre decenni alle spalle, puoi anche metterci tutti i migliori sentimenti del mondo, però il risultato musicalmente, artisticamente, culturalmente resta abbastanza deprimente, impalpabile. E con la possibilità di essere incisivo e rilevante presso i non-fedeli pari a: zero meno di zero. Ma al di là di questo, al di là della sua rilevanza nello scacchiere socio-politico contemporaneo, è proprio un disco prodotto maluccio, rappato male, mixato alla cazzo, che suona come un demo di una rock band di dopolavoristi di Montevarchi del 1997 mixato dal cugino che, normalmente, lavora facendo il fonico di sala per le band di liscio. Cioè: il fatto che tu abbia delle “belle” idee, una magnifica storia e degli ideali nobili ti giustifica nel fare le cose così alla cazzo? E a farle così perché vuoi, o perché – ancora peggio – oggi non riesci evidentemente a fare di meglio?
Dicono bene i Beasties nell’intro di “Public Enemy Number Won”: “Ehi, ti ricordi quando nel 1985 Rick Rubin ci diede il demo dei Public Enemy e noi lo ascoltammo tipo un milione di volte?”. Il pregio maggiore e, al tempo stesso, il difetto peggiore di “What You Gonna Do When The Grid Goes Down?” è proprio farci andare col pensiero a quando Chuck D e soci erano devastanti, davvero devastanti. E quanto oggi, evidentemente, non riescano ad esserlo più, manco con tutte le condizioni di partenza apparentemente a favore e dalla loro come in questo caso.
E attenzione: a rendere più avvilente il tutto, arrivano gli Arrested Develpment. Sì, perché col loro nuovo disco uscito anch’egli in questi giorni dimostrano che non per forza le vecchie glorie dell’hip hop “intelligente” fine ’80 / inizi ’90 sono bollite, costrette a ripetere se stesse stancamente, esteticamente anacronistiche: il loro “Don’t Fight Your Demons” sprizza freschezza pur stando su un suono “classico”. Batte insomma il lavoro dei PE tipo 5-0 in quanto a qualità, vitalità artistica, rilevanza nel 2020, e questo senza nemmeno mezzo ospite e considerando pure, siamo sinceri, che se ci avessero detto che gli Arrested Development si sarebbero conservati nel tempo meglio dei Public Enemy non ci avremmo creduto, da quanto erano nulla-più-che-carucci i primi mentre Chuck D e soci stavano, letteralmente, cambiando la musica e un po’ pure il mondo, all’inizio degli anni ‘90.