Andrea Mangia ci racconta il suo ultimo disco “Azulejos”
Parlare con Populous – al secolo Andrea Mangia – vuol dire farsi investire da un fiume in piena in cui c’è tutto il suo amore per la musica ma anche un vivo interesse nel comprendere i tempi che stiamo vivendo, quelli del qui ed ora della contaminazione musicale tra generi e dell’importanza di non vergognarsi dei propri ascolti, anche quando sono pop – a patto che sia buon pop, naturalmente. L’occasione è stata quella del suo mini live esclusivo registrato negli studi di “Musical Box Radio2” per presentare il nuovo disco “Azulejos”; ci siamo fatti raccontare questo nuovo lavoro e tutto ciò che si cela dietro di esso, a partire dalla voglia di vivere un’esperienza portoghese, trasferendosi a Lisbona per un paio di mesi, per catturare il suono – e il colore – della città.
Credo che ogni disco racconti una storia. Qual è quella di “Azulejos”?
Dietro ad ogni mio disco più che una storia c’è un viaggio, per esempio nel mio lavoro precedente “Night Safari” si trattava di un viaggio immaginario, mentre in “Azulejos” è stato reale, attraverso queste nuove canzoni racconto le mie giornate passate a Lisbona. E’ stata un’esperienza mai fatta prima, almeno con queste modalità: sono partito da solo e mi sono trasferito a Lisbona per un paio di mesi, senza sapere la lingua né conoscendo gente del posto. Ho cercato di vivere come un portoghese, non come un turista, e per comprendere meglio il luogo ho cambiato ben cinque volte appartamento, spostandomi da un quartiere all’altro, soggiornando ad Alfama, Barrio Alto, Alcantara, Santa Catarina e Principe Real.
Durante questo tuo soggiorno a Lisbona hai vissuto alla giornata oppure ti sei dato delle regole precise per non disperdere la creatività?
Il vivere in cinque quartieri diversi mi ha aiutato parecchio dal punto di vista creativo, mi ha permesso di entrare dentro ad una realtà complessa e multiculturale come quella di Lisbona. Per il resto, cercavo di fare cose normali, come la spesa o prendere il tram, e mi portavo sempre dietro il mio campionatore per catturare i suoni che mi colpivano o anche solo quelli comuni che si ascoltano tutti i giorni: quello di un giardino botanico, per esempio, oppure proprio il suono dei vecchi tram di legno che collegano tutta la città. Un’altra cosa che facevo era andare ai mercatini di dischi per acquistarne di portoghesi o sudamericani, che poi in alcuni casi campionavo. Ma solo roba proveniente da Brasile, Argentina, Colombia e Portogallo, rispettando una sorta di dogma che mi sono autoimposto per non rischiare di comprare vagonate di dischi che poi non avrei nemmeno avuto il tempo di ascoltare. Producevo principalmente la mattina, mentre il pomeriggio girovagavo e la sera magari andavo a dei concerti.
L’idea di Lisbona che avevi in testa è stata confermata oppure hai scoperto dell’altro?
E’ una città super tranquilla, rilassata, esattamente come me la immaginavo. I portoghesi ti accolgono bene e non c’è quel senso di falsità che si prova in alcune cittadine europee, in cui il turista viene visto come un estraneo da trattare in modo accondiscendente. Di base, io sono una persona positiva, che però ha anche una forte vena malinconica, che poi è esattamente il sentimento generale che ho ritrovato a Lisbona, forse è per questo mi sono trovato così bene. Si è creata una forte empatia con questo popolo. Poi, dal punto di vista musicale, i portoghesi sono bravi a comunicare attraverso il ritmo piuttosto che con la melodia. Non pensare al fado, che è una musica estremamente melodica, ma più in generale alle loro sonorità, sia tradizionali che moderne, che sono orientate alla danza più che alle robe che vanno da noi, tipo l’indie o il folk. Tutta la scena che ruota attorno all’etichetta “Enchufada” oppure alla “Prìncipe”, quindi i Buraka Som Sistema, Branko, Dj Marfox, Batida, sono super bravi a comunicare questo senso ritmico incredibile e sono proprio queste le atmosfere dalle quali volevo essere ispirato.
Populous alla ricerca del ritmo!
Esattamente. Mi interessava il connubio tra Sudamerica ed Europa o, per meglio dire, quella cosa che si trova a metà strada tra la tradizione sudamericana e l’evoluzione elettronica europea. Se tu ci pensi, il Portogallo è proprio lì in mezzo.
Il nome “Azulejos” fa riferimento a quelle mattonelle colorate tipiche di Lisbona, vero? In effetti tutto il disco è soprattutto colorato e solare.
Sì, con il nome Azulejos si indicano quelle piccole piastrelle smaltate, colorate e decorate in vario modo, che rivestono la maggior parte dei palazzi in Portogallo. In Italia si chiamano “cementine” e sono, per l’appunto, delle piastrelle di cemento multicolore fatte con degli stampi e decorate a mano, un po’ come le ceramiche di Vietri o lo zellige marocchino. E’ un elemento decorativo tipico del Mediterraneo, che rende le superfici colorate e luminose, soprattutto quando esposte alla luce del sole. Questo effetto a Lisbona ti dà un senso di calore e di stordimento, una roba psichedelica, quasi allucinogena.
Inoltre, le singole piastrelle colorate potrebbero rappresentare i campionamenti che hai realizzato, come se ogni singolo mattoncino sonoro formasse la parete luminosa che poi è il disco.
Esatto, questa potrebbe essere una delle interpretazioni del disco.
Ho ascoltato “Azulejos” in anteprima, ha un suono più compatto rispetto ai tuoi dischi precedenti. Credo che vada ascoltato tutto assieme, dall’inizio alla fine, per goderne appieno. E’ un’interpretazione corretta?
E’ esattamente la cosa che mi interessava fare, rendere il disco un flusso continuo. Infatti, non è un caso che in tutto il lavoro ci sono praticamente gli stessi suoni di cassa, di rullante, di basso, e questa è una cosa che non avevo mai fatto prima. E’ come quando hai una band ed hai a disposizione determinati strumenti musicali, che utilizzi in modo diverso ma che di base sono sempre gli stessi. Penso ai Tennis, che nell’indie-pop mi piacciono molto, che suonano utilizzando l’organo, la chitarra e la batteria e ogni pezzo è una combinazione di questi tre strumenti, con i quali cercano di comunicarti ciò che hanno in testa.
Immagino che non sia stato facile scegliere il primo singolo da estrarre.
Ho scelto la canzone che dà il titolo all’album, “Azulejos”, solo perché è quella che reputo ritmicamente più strana, non so se ve ne siete accorti ma non ha la cassa, c’è solo il basso e le percussioni, oltre che un corollario di melodie. Mi piaceva l’idea di lanciare un primo singolo bizzarro, che non poggiasse sugli stilemi classici di un pezzo ritmico, che trova nel suono della cassa il suo principale motore.
“Azulejos” esce il prossimo 9 giugno per “La Tempesta” e avrà anche una distribuzione nel resto del mondo attraverso la “Wonderwheel Recordings”. Ci racconti com’è andata?
Sono contento che mi fai questa domanda, perché ancora nessuno me l’ha posta e quindi non ho avuto modo di raccontare una bella storia. C’erano tre etichette con le quali mi sarebbe piaciuto pubblicare il disco per il mercato estero: la “ZZK Records” di Buenos Aires, la “Wonderwheel Recordings” di New York e l’“Enchufada” di Lisbona. Per una serie di straordinari motivi, uscirà qualcosa di mio con tutte e tre le realtà. Azulejos sarà distribuito anche dalla “Wonderwheel Recordings” e, sempre nel mese di giugno, uscirà la mia prima collaborazione con la “ZZK Records” sotto forma di remix; inoltre, un mio pezzo inedito farà parte della prossima compilation di “Enchufada” curata da Branko. Quindi, tutto ciò che desideravo si realizzerà proprio questo mese quindi puoi immaginare la mia felicità.
A proposito di soddisfazioni e di etichette, vorrei fare un attimo un passo indietro, al tuo debutto con “Quipo” a fine 2002 in casa “Morr Music”. Anche quello fu un colpo non da poco.
Hai ragione, anche quello fu un bel colpo. Eppure a quei tempi me la giocai male, perché ero troppo giovane per capire bene che occasione era, la sprecai perché non avevo voglia di andare in giro a suonare, a promuovere il disco, a farmi vedere, non me ne fregava niente. Rimane il fatto che sono sempre attirato da ciò che accade all’estero e quindi riesco a muovermi bene; allora il filone musicale era quello dell’indietronica, oggi è quello frutto della commistione tra musica etnica e l’elettronica diciamo “colta”. Mi sta andando bene in questo senso, però non riesco davvero a rimanere fermo a fare sempre le stesse cose.
Sento che il tuo è un discorso sincero, sei genuinamente interessato a non restare fermo ed a sperimentare, qualcuno però potrebbe insinuare che sei furbo a cavalcare il suono del momento.
La mia è solo curiosità di ascolto che si trasforma in curiosità di produzione discografica, non ho mai fatto il furbo, anche perché se volessi davvero fare i soldi farei tutt’altro; scelgo sempre cose strane e cerco di portarle avanti in modo innovativo, non sempre ci riesco ma ci provo. Per me è importantissimo sperimentare, non fermarmi a cose che sento già passate.
Viviamo un presente musicale assai interessante, penso a te, DJ Khalab, Clap! Clap!, Go Dugong, Montoya, tutti produttori italiani – o naturalizzati italiani nel caso dell’ultimo nome – interessati alla contaminazione tra elettronica e, chiamiamola genericamente, “word music”.
Sono tutti produttori che stimo, sia musicalmente che dal punto di vista umano. Se ti posso dire, mi sento parte di una grande famiglia con loro, ci supportiamo a vicenda e, naturalmente, ci si influenza reciprocamente dal punto di vista delle idee e dei suoni. La vivo così, ma veramente sono contento di supportare i musicisti che stanno sperimentando su un terreno simile al mio; sono più bravo a promuovere gli altri che me stesso, se davvero utilizzassi nei miei riguardi lo stesso entusiasmo con il quale spingo i miei amici, ad oggi avrei svoltato.
Cambiamo argomento, vorrei fare con te un discorso di più ampio respiro sul “pop”. Non è più uno spauracchio, se gli anni 2000 sono stati quelli della contaminazione tra generi, sento che i tempi che stiamo vivendo siano quelli in cui non ci si vergogna più ad essere anche pop.
Sono assolutamente d’accordo e l’America in questo ci ha dato l’esempio, c’è tanta musica pop fatta benissimo; oggi c’è gente che ascolta Oval o Lorenzo Senni e poi pure Beyoncé, senza vergognarsene. Mi piace che sia così, se un prodotto è buono, lo è e basta. Anche Solange, per rimanere in casa Knowles ma si potrebbero fare un sacco di altri esempi, ha dato alle stampe un disco incredibile, bellissimo. Naturalmente questo atteggiamento rientra anche nelle produzioni, ci sono molti produttori della scena cosiddetta “nostra” che hanno lavorato e lavorano per artisti del pop: penso a Machinedrum che produce Azealia Banks. Che poi è il problema del nostro pop, Marco Mengoni ha una bella voce e ha stile ma le sue canzoni sono brutte, mi sembra un’occasione sprecata, è ingiusto che solo Tiziano Ferro faccia cose moderne, anche se potrebbe rischiare ancora di più; quando lo intervistano dice di ascoltare i Sigur Rós e Björk, quindi immagina quanto potrebbe fare di più, avrebbe un’eco importante.
Torniamo al tuo disco, hai affidato la regia dei primi due singoli, “Azulejos” e “Azul Oro”, ad Emanuele Kabu. Ci parli di lui?
Emanuele Kabu è un genio. Lui è veneto ma vive a Londra, fa l’illustratore e il videomaker, lavora per “Adult Swim”, il canale americano di cartoons, ha collaborato con i Red Hot Chili Peppers e con i Little Dragon. E’ un amico di vecchia data ma l’avevo un po’ perso di vista, viene dalla scena punk, hardcore, noise; mi trovavo a Stoccolma quando comprai “Ritual Union” dei Little Dragon, scorrendo tra i crediti trovai proprio lui, Emanuele Kabu! Allora l’ho contattato e mi raccontò di aver realizzato un loro video. Così abbiamo riallacciato i contatti, con la speranza che un giorno avremmo potuto collaborare. Quindi è arrivato “Azulejos” e ho pensato che lui fosse perfetto per rappresentare il colore dell’album.
La tua pagina Facebook personale è piena di buoni consigli musicali, ce ne lasci uno? Magari qualcosa di nuovissimo.
Vi consiglio il nuovo disco di Go Dugong che ho sentito in anteprima, è molto bello e manca poco alla sua uscita!
Lasciaci i cinque pezzi che ti hanno ispirato a realizzare un album come “Azulejos”.
Eccoli:
Chancha Via Circuito feat. Miriam García – Coplita