E’ divertente mettere a confronto le recensioni del nuovo album dei Bicep, “Isles”, uscito ieri così come sono sui due media outlet forse più significativi/popolari/discussi al momento: Resident Advisor lo è per la scena dance, Pitchfork lo è a trecentosessanta gradi. Le potete leggere qui e qui. Pitchfork, come purtroppo spesso accade quando per l’elettronica a scrivere non è Philip Sherburne, ha uno sguardo un po’ così, dà l’impressione sistematica – magari sbagliata, eh – di essere il neofita del genere che pur di distinguersi e spacciarsi per giga-esperto tira fuori critiche ferree al limite del capzioso, prendendoci abbastanza poco (…oppure ci prende per chi non è abituato ad ascoltare musica da club, boh: si sa, i gusti sono anche soggettivi e sono plasmati dal background personale).
La recensione di Resident Advisor è molto più a fuoco. Ma a nostro modo di vedere ha un grande problema, che si manifesta solo nelle due righe finali, solo in quelle; ma queste due righe finali pesano purtroppo come macigni, perché la raccontano lunga su come si sia distorta la visuale attorno alla musica da club, nel momento in cui viene inglobata in un sistema industriale. E nel sistema industriale, i due Bicep, ci sono, vi appartengono. Eccome. Gli piaccia o meno. Ah, per carità, piace a tutti – mente chi lo nega – vedersi super-apprezzati, suonare di fronte a migliaia e migliaia di persone, sapere che ci sono diecimila persone in lista d’attesa (ehi: lista d’attesa, i biglietti normali sono già sold out) per i tuoi concerti londinesi a pochissimo dall’annuncio delle date, sapere che i più grandi player del settore fanno a botte (metaforiche, visto che parliamo di offerte, ma ormai certe offerte sembrano quasi solo giustificabili con le botte e sì, il doppio senso è voluto…) per accaparrarsi la tua esibizione.
Però Andy e Matt sono pur sempre due onesti, onestissimi music lovers che si sono fatti conoscere prima di tutto con un blog, FeelMyBicep (peraltro ancora attivo), che scandagliava in lungo e in largo i patrimoni veri della musica da club, e hanno un cursus honorum da gente seria, non da creaturine su cui una major (o il Circoloco, o Tomorrowland, o Ostgut, o Ultra…) hanno deciso di puntare le loro fiches per passare, tempo tre anni, al lauto incasso. Poi le fiches comunque sono arrivate, sono state puntate, come no; e manco poche, perché attorno a loro si è scatenata una grancassa promozionale e una strategia industriale che li ha portati, appunto, ad essere delle star contesissime da sparare nelle line up e nella vanity metrics clubbare; ma siamo discretamente sicuri che questa cosa sia successa come effetto collaterale imprevisto, e non come scientifica strategia al successo.
Il fatto che “Isles” sia migliore del suo predecessore è per noi abbastanza una conferma di questa ipotesi. E’ un album che parla di due artisti molto in forma. Artisti che hanno trovato un loro suono – una house molto anglosassone ed eclettica, tra striature di trance da stadio (vecchia ossessione britannica…) e preziosità Uk Garage che piacciono alla gente che piace – e che andando avanti non solo a questo suono sono rimasti ancorati ma, anche e soprattutto, lo hanno migliorato, gli hanno dato più profondità, più equilibrio, più varietà, più spessore anche nelle tessiture melodiche ed armoniche… e l’hanno fatto in maniera talmente naturale che massì, per certi versi manco te ne accorgi ad un primo ascolto superficiale (verrebbe da aggiungere “e nell’ascolto che gli ha dato Pitchfork”, ma in realtà lì il problema è un altro, ed è per certi versi speculare ed opposto alle famose due righe di RA che a breve citeremo).
“Atlas”, già sentita e strasentita, è piena di ricami ed invecchiando migliora; “Rever” e “Fir” sono due bellissime creature da dancefloor; la voce di Clara La San è pensata ed usata così bene da trasformare “Saku” ed “X” in due autentici gioielli; peccato la “Apricots” un po’ bonobesca e un po’ kitsch (due aggettivi forse non così distanti fra di loro, piccolo contrappunto polemico), ma non si può avere tutto dalla vita, e comunque è in ogni caso una traccia più che sufficiente, su cui il 90% dei producer attuali potrebbe costruire una carriera. Ma è tutto l’album nel complesso ad essere di livello: sempre ispirato. Sempre in equilibrio azzeccato tra diversi elementi, ma sempre in grado di fermarsi un passo prima dello stucchevole, restando dalla parte giusta. Però ecco, magari vi starete chiedendo: “Vabbé, e quindi quali sarebbero ‘ste due righe di RA? Do’ sta il problema?”. Le due righe incriminate sono queste:
“When live events eventually return, people are going to have a lot of fun raving to these tunes”
E’ che i “live events” a cui si riferisce RA – basta leggere la recensione intera per rendersene conto – sono quelli delle grandi arene, dei grandi festival, dello spettacolo son-et-lumière: come se quello e solo quello fosse il contesto in cui giudicare effettivamente i Bicep e pure, è abbastanza sottinteso, la musica da club “comunicativa” come la loro.
L’idea che la musica da club possa essere trionfale e dispiegare il massimo del suo effetto solo ed unicamente di fronte a platee ammaliate da megaproduzioni è un veleno che si sta inoculando nella nostra scena
Beh: no. Non è vero. C’è una portata emotiva fatta (anche) di malinconia agro-dolce, nella musica dei Bicep: che se è vero che può essere commentata/arricchita bene da super-laser e light design pantragruelico degno, è altrettanto vero che può rendere benissimo anche in un ascolto casalingo, raccolto, oppure anche solo – quando cara grazia riapriranno – in un club da qualche centinaio di persone. Sì. Esistono anche quelli. E sono anzi l’architrave di un sistema sano di fruizione della musica elettronica.
L’idea che la musica da club possa essere trionfale e dispiegare il massimo del suo effetto solo ed unicamente di fronte a platee ammaliate da megaproduzioni è un veleno che si sta inoculando nella nostra “scene”, e se la vuoi “salvare” devi iniziare a spezzare questa diarchia per cui o sei un hipsterissimo fenomeno emergente tagliente ed underground o sei un conquistatore di festivaloni, pubbliconi e contrattoni. “Isles”, e questo i Bicep lo dichiarano proprio, è stato tarato su un ascolto più raccolto, non spinge sempre e per forza sul pedale della crassa accelerazione e, sinceramente, va bene così. Anzi: abbiamo l’impressione che potrebbe essere snaturato a volerlo portare lì dove i dj planano sul palco col loro jet privato, perché rischierebbero di perdersi – o anche solo di non valorizzarsi – un sacco di preziosità e sottigliezze, lasciando spazio solo alle du’, tre cose iconiche da raccontare già ora nei comunicati stampa (tipo l’uso delle Voci Bulgare: ehi, ma lo faceva già Elio, solo che vallo a spiegare all’industria inglese del dancefloor chi sono Elio E Le Storie Tese).
Insomma: quelle due righe sono inopportune, sono non appropriate per parlare del disco e si portano dietro un’idea un po’ velenosa. Non dategli peso. Quello che conto è che se il buongiorno si vede dal mattino, “Isles” fa iniziare il 2021 decisamente bene, come qualità musicale, e lo fa senza bisogno di fare il fenomeno (eccesso di scostante intellettualismo abrasivo, quello che sarebbe piaciuto all’incauto recensore di Pitchfork e che ci fa anche dire che Arca ha rotto il cazzo da mo’, o – altra faccia della stessa medaglia – senza cercare gli effettacci da big room). E’ classe media, “Isles”, ed è tranquillamente fiero e soddisfatto nell’esserlo. Si sente.