Pierfrancesco Pacoda è giornalista e saggista, tra i più attenti e competenti studiosi italiani di stili di vita e culture giovanili, in particolare quelle legate ai linguaggi musicali. Ha raccontato l’hip hop nostrano, nei libri “Potere alla Parola” e “Hip hop italiano”, e la scena delle piste da ballo, con “Sulle rotte del rave” e “Riviera Club Culture”. Sugli stessi temi scrive per D, L’Espresso e Il Resto del Carlino. Nel suo nuovo libro “Rischio e Desiderio” ha coordinato una serie di studiosi, scrittori e operatori per riflettere insieme sullo spinoso rapporto tra clubbing e droghe, cercando di individuare punti di vista inediti, retaggi culturali, responsabilità ma, soprattutto, soluzioni pratiche al problema. Al centro di questa complessa e articolata riflessione c’è, ovviamente, la figura del dj, interpretata in chiave antropologica e sociologica. Torna in mente un passaggio teorico fondamentale nel quale lo studioso dei media Lev Manovich affianca a quella figura la nascita di Photoshop, per raccontare le origini del concetto di post-modernità all’inizio degli anni ’80. Ecco: l’edonismo (assieme ai concetti di remix e cut-up) era una componente fondamentale di quel preciso momento storico nel quale, non a caso, affondano anche le radici della club culture. E se si riconosce il piacere come fine ultimo dell’uomo, rischio e desiderio sono due facce della stessa medaglia. Abbiamo approfittato dell’uscita del volume per un’intervista a Pierfrancesco Pacoda.
In “Riviera Club Culture” ricostruivi l’ondata creativa che aveva dato origine e sostanza al movimento dei club in Romagna (e quindi in Italia). In questo nuovo volume indaghi il rapporto tra lo spirito edonistico (insito nella natura stessa del clubbing) e i rischi conseguenti. Qual è la continuità teorica e metodologica tra i due testi?
“Riviera Club Culture” aveva l’aspirazione, non so se soddisfatta pienamente, a ricostruire un preciso periodo storico, quello che a mio avviso è stato un momento irripetibile, quando tra gli anni ’80 e i primi ’90, la Riviera Romagnola è stata al centro del clubbing planetario. Con alcune pagine dedicate agli anni, precedenti, della Baia degli Angeli. Volevo ricostruire quell’epoca affidandone il racconto a chi l’aveva vissuta da protagonista, prima che se ne perdesse la memoria. Quella storia, infatti, come molte che hanno a che fare con le subculture, non era ‘affidata’ allo spazio della rete e il libro, sicuramente parziale e molto personale, è servito a far riemergere la ricchezza creativa di quelli anni. “Rischio e desiderio” segue un’altra traiettoria. La voglia di scriverlo è nata in estate dopo i fatti del Cocoricò e le infinite parole, spesso inutili, purtroppo ancora più spesso dannose, che sono state buttate sui media per amplificare un inesistente allarme sociale. In sintesi, ho pensato che poteva essere utile dare voce a chi nel mondo dei club lavora, a chi lo conosce dall’interno, a chi ha dedicato la sua esistenza, non solo professionale, a fare dei club e della notte, spazi di piacere e creatività. Senza, spero, alcuna retorica.
Quello del rapporto tra droghe e club culture è un terreno insidioso: come hai pensato di affrontarlo in questo libro? Con quale criterio hai scelto i vari autori chiamati in causa?
Ho pensato di affrontare questo tema affidandomi agli interventi di chi lavora ‘sul campo’. La sfida è stata quella di mescolare interventi molto tecnici, in alcuni casi di rilevanza scientifica e sociologica, con altri più pop. Gli psichiatri, i responsabili più ‘illuminati’ di alcuni SERT di ‘frontiera’ insieme ai gestori di club come il Cocoricò ed il Kinki. Quello che volevo era far conoscere punti di vista differenti sul tema del consumo e della notte, far sapere che in Italia ci sono persone che, nel totale disinteresse delle istituzioni, lavorano sulla ‘riduzione del danno’, convinte che l’informazione, la conoscenza, siano la prima forma di prevenzione e che la repressione, come la chiusura delle discoteche, non serve a nulla. SERT come quelli di Forlì e di Rimini sono impegnati da anni in campagne informative, i loro operatori sono spesso fuori i club pronti a mettere il loro sapere a disposizione dei ragazzi. E lo fanno con finanziamenti inesistenti, affidandosi al volontariato. Questo libro dà voce a loro, ma fa conoscere anche a chi è ‘esterno’ cosa significa gestire un club.
Riguardo alle riflessioni, sempre più urgenti e necessarie, sul rapporto tra giovani e consumo di sostanze, perché, secondo te, in Italia riusciamo a fare solo demagogia, sociologia spicciola e ricorso ai luoghi comuni? Cosa manca per un confronto maturo e serio?
Come sempre in Italia preferiamo la facile sociologia. Ci accorgiamo delle situazioni di disagio solo quando purtroppo è troppo tardi. È molto più ‘mediatico’ sventolare la bandiera del ‘chiudiamo tutto subito’ che quella della riflessione e della cultura. Ma questo non riguarda solo i club. Siamo una società moralista, ci piace andare in tv e urlare. Chi fa il suo lavoro lontano dal clamore è come se non esistesse. È sempre triste fare i paragoni con l’estero, ma chi ha frequentato grandi eventi elettronici in Europa, sa quanta attenzione ci sia per la riduzione del danno. In Italia ci sono esperienze straordinarie, come quelle di Claudio Cippitelli a Roma e di Stefano Bertoletti in Toscana che, con le loro cooperative, e con pochissimi mezzi, allestiscono aree relax nei rave e in stretta collaborazione con gli organizzatori dei free party cercano di offrire la corretta informazione sulle sostanze che circolano: questo libro è il loro libro.
Quali sono i cambiamenti principali che vedi, sui fenomeni indagati, dall’inizio della storia del clubbing a oggi?
È sin troppo scontato dire che la storia della culture (e subculture) giovanili è sempre stata legata alla stretta relazione tra ‘rischio’ e ‘desiderio’. Dal be bop alla generazione beat, dai mod alla techno.
Questa perenne oscillazioni della cultura del club tra il consumo di massa e la marginalità è un fattore endemico alla scena o è destinato a cambiare?
È una oscillazione destinata a accentuarsi. Per le generazioni più giovani il dj è una pop star, Skrillex vale gli One Direction e Clementino è come Guetta. A un giovanissimo non importa il virtuosismo, la capacità di mixare e la cultura musicale. Non si pone il problema del vinile ed è indifferente al fatto che un dj si limiti a premere un tasto. Si tratta di show nei quali è più importante taggare su Facebook che ballare godendo della costruzione di un ‘discorso’ musicale come nei set di cinque ore di Frankie Knuckles o di Harvey. All’opposto ci sarà una scena underground sempre più vibrante. In mezzo, nulla.
Ha ancora senso, per te, usare ancora la prospettiva antropologica alla Lapassade (il ballo come rito collettivo e il conseguente uso delle sostanze psicotrope), oggi che il rapporto tra individuo e collettività è stato completamente riscritto dalla pervasività dei media sociali?
Come dicevo prima, i social media hanno cambiato tutto. Oggi il successo di un dj può essere determinato da un click. Per questo la club culture è in una fase di trasformazione epocale. L’ho scritto nella risposta precedente – il rito c’è ancora, ma è quello pop da stadio. Questo non toglie che alcuni di questi show siano straordinariamente accattivanti. Ma, sempre di più, tutto è in buona parte scritto. Voi lo sapete meglio di me. Oggi la maggior parte dei dj tara la sua performance su un’ora di spettacolo perfettamente strutturato. Provate a chiederli di allungare il set… È come chiedere a un cantautore di allungare il suo concerto. Poi, ripeto, c’è un meraviglioso mondo underground, un ‘back to the basics’ che dilagherà nei prossimi anni.
Ma, alla fine, che responsabilità hanno i club nella diffusione della cosiddetta cultura dello sballo del weekend? Sono luoghi di ‘prevenzione’ come li definisce Principe Maurice o ‘terminale ultimo di un processo’ come li chiama Pier Pierucci?
La mia opinione è che non si possono accusare i club di essere responsabili di una cultura della devianza che, ripeto, riguarda l’universo giovanile e tutti i suoi luoghi di aggregazione. Come non credo che si possa pensare a una relazione tra alcuni generi musicali e l’uso delle droghe nei club. Dobbiamo partire dalla considerazione che ‘rischio’ e ‘desiderio’ sono strettamente legati. E che informazione e prevenzione sono le strade.