Perché oggi è così difficile confrontarsi? Paola Zukar e Claudio Cabona affrontano le sabbie mobili del politicamente corretto con il primo volume di “Testi Espliciti. Nuovi stili di censura”, edito da Mondadori. All’interno, una serie di interviste dove si osserva in modo libero e consapevole uno dei grandi nemici della cultura Hip hop e non solo: la censura. Perché un libro? Perché la carta sia nuovamente rilevante per la scena rap, dove, in un momento storico in cui la comunicazione abita il mondo astratto dei social network, era necessario fissare un punto concreto da cui ripartire. Anche i giornalisti, purtroppo, così come accade per gli artisti, possono andare incontro a meccanismi di censura e autocensura. Questo è uno dei temi del nostro fitto dialogo con Paola Zukar e Claudio Cabona, incontrati a Parma nello spazio allestito da Open. A partire dal dibattito “Le nuove sfide del rap” insieme anche a Dargen D’Amico e Willie Peyote, sono state sviscerate questioni davvero interessanti. Claudio Cabona afferma: “Noi riteniamo che la censura sia un atto dall’alto verso il basso. Ma oltre a questo aspetto c’è una forma di censura che ha a che fare con l’evoluzione del rap: quella orizzontale, che arriva dallo stesso artista. Per una forma di accettazione, questa può portare all’autocensura”. Prosegue Willie Peyote: “Siamo nel mezzo di una rivoluzione culturale. Non scrivo su tutto ciò che mi passa per la testa, cerco di evitare la shitstorm, soprattutto quando il fuoco è amico. Se oggi devo pagare il conto per qualcosa che ho detto in passato, lo accetto, perché stiamo andando verso un linguaggio inclusivo. Ovviamente qualcuno ci rimane in mezzo, ma le rivoluzioni funzionano così”. “È cambiato il tempo nel quale viviamo: adesso vedo che, anche se il racconto dei più deboli è comparso sui media, i grandi se ne fregano e rimane un’anestesia generale” sottolinea Dargen D’Amico. Per togliere ogni dubbio di pensiero ipocrita, Paola Zukar conclude: “Il rap è un genere fastidioso e abrasivo. Ha in sé molti elementi che possono disturbare che creano attorno un dibattito. La censura vuole intervenire subito, appena qualcosa non torna. Ma l’arte non è mai censurabile”. Sicuramente è difficile trovare un punto di equilibrio tra la libertà di espressione e la necessità di inclusione di questo millennio, invaso da social network. Rinunciare a priori? Noi ci auguriamo che il dibattito possa andare avanti.
Un tema che emerge quando si parla di censura è quello dell’emulazione. Credo che per interrompere il cortocircuito dell’emulazione sia necessario ripartire dal dibattito a cui, forse, non siamo più allenati. Come credete che oggi si sia perso questo allenamento al confronto?
Claudio: Si perde nel momento in cui creiamo momenti di approfondimento puramente individuali, ad esempio quando ci perdiamo nello scrolling o rimaniamo catturati dai social. I social sono anche molto violenti per certi aspetti: perché tu ci entri dentro e hai pochissimo tempo per metabolizzare, dato che sei bombardato da contenuti. Penso per esempio allo scrolling di Tik Tok. Soprattutto, non hai tempo e possibilità di dire la tua. Perché non è certo attraverso un tweet o attraverso un commento che puoi dire la tua a modo! I social network in questo senso creano una bolla vera e propria. Al tempo stesso, secondo me, ci sono sempre meno spazi di confronto, sempre meno posti dove è possibile incontrarsi a livello sociale e culturale. È in luoghi come club, associazioni o piccoli punti di ritrovo che il confronto c’è. Il problema è che questi spazi si stanno desertificando in Italia. Ci sono sempre meno luoghi liberi di incontro per le nuove generazioni dove non sia necessario pagare per poter dialogare.
Paola: Questa è davvero una bella domanda ed è posta in maniera molto profonda e complessa. Si è perso nella tecnocrazia. Si è perso in questo modo di comunicare molto attraente e molto veloce. Sono stata tra le prime a comprarmi il modem e a gioire quanto sentivi il suo azionarsi e mi sembrava solo una figata. Adesso, invece, stiamo vedendo l’opposto. È un po’ come il fumo: quando hanno iniziato ad introdurre le sigarette nel mercato, la figata è che ci si sentiva più liberi. Solo con il passare degli anni è venuto fuori l’effetto collaterale del fumo. Credo che siamo all’interno di questa fase. All’inizio, con la nascita dei social, sembrava tutto bellissimo: io ho aperto Facebook, mettevo le foto di mia figlia perché ero convinta che le vedesse mia cugina in America… Adesso è diventata una cosa completamente differente! Credo che questo “allenamento alla socialità” si sia perso così. Noi non avevamo questo mezzo per comunicare e dovevamo citofonare ad un amico per parlarci. È qualcosa che si è perso progressivamente.
(Paola Zukar e Claudio Cabona; continua sotto)
Nel recente dissing tra Kendrick Lamar e Drake, forse non è stato abbastanza messo a fuoco un tema molto importante: l’appropriazione culturale. Pensate anche voi che questo tema sia stato poco evidenziato dai media? Ritenete che, in qualche modo, sia un argomento che negli anni sia andato incontro ad autocensura?
Claudio: Assolutamente! Il tema dell’appropriazione culturale è un tema che ha a che fare con l’identità. Chiaro che qui in Italia, essendo una musica di radice afroamericana, si sente il rap meno associato al discorso dell’identità. Nonostante ciò ha a che fare con l’identità: perché oggi i rapper che giocano a fare le popstar e che si annacquano seguono certi stilemi faciloni del mondo pop e, in qualche modo, creano un problema d’identità. Attenzione, Io non sono contro il rapper che fa la hit pop. Ci sono esempi di grandissime hit pop che vengono da rapper che funzionano e che sono specchio dell’identità di quel rapper. Una volta Marra mi ha detto “Sai, “Crazy Love” è magari un pezzo più pop e melodico, ma è un pezzo mio”, ed è assolutamente vero: nel senso che è figlio del suo immaginario, della sua identità e del suo modo di concepire la musica. È quando uno scimmiotta e prova a non essere quello che è, per aumentare il consenso, che si crea un problema. Kendrick rinfaccia questo a Drake: di sfruttare la cultura Hip hop ma in realtà non di appartenerle, facendolo per fama e soldi. Però lui fa anche un discorso più ampio: in Watch The Party Die, in realtà, lui se la prende con tutti, addirittura anche con la sua comunità black. Crede che molti dei valori che questa cultura ha difeso e portato avanti per anni siano in serio pericolo. È un tema molto forte e molto delicato, che forse in Italia facciamo anche fatica a comprendere. Credo sia un tema molto importante per l’Hip hop.
Paola: In realtà penso che nel dissing sia venuta molto a galla questa cosa di Kendrick che diceva: “Tu non sei vero, tu sei un culture vulture!”. Anche secondo me i media hanno parlato troppo poco di questo aspetto: perché poi, in effetti, non è solo appropriazione culturale ma è anche la commercializzazione di qualcosa che nasce prima come cultura, e poi come commercializzazione. Oggi, invece, viene prima l’aspetto commerciale e industriale per tanti artisti anche italiani, che si svendono veramente per poco. Le hit sono svuotate da qualsiasi tipo di contenuto e vengono fatte uscire solo per ottenere click e stream. È una cosa venuta fuori molto in questo dissing tra Kendrick e Drake, ma non abbastanza sviscerata dai media. Sono d’accordo.
(“Testi espliciti”, un volume prezioso anche nella grafica; continua sotto)
Madame dice: “Spero di trovare qualcuno che mi fraintenda, perché si creerà un’occasione di dibattito e ne sarò felice”. Secondo voi quanto si è perso il potere della parola?
Claudio: Non so se sia perso il potere della parola. Credo che la parola oggi abbia ancora un significato molto forte. Infatti, c’è un grosso dibattito sull’uso delle parole. A volte è un dibattito difficile da digerire perché oggi, quando dici una parola non appropriata, ti viene comunque fatto notare. È in atto una rivoluzione di linguaggio molto forte che per certi aspetti è anche un po’ moralista, ma è sicuramente interessante arrivare ad un dibattito su un linguaggio più inclusivo. Quindi non credo che si sia perso questo potere. Credo che certe volte venga sottovalutato e che in diverse occasioni si provi a disinnescare il potere della parola. In realtà, la parola ha ancora una forte dinamicità, come dice Baby Gang in In Italia 2024: “Una penna può far più male di un’arma”. Credo che abbia ragione. È chiaro che oggi con i social tutti possono esporsi e tutti, in qualche modo, possono abusare delle parole. Ma in questa grande confusione, se qualcuno riesce a semplificare trovando le parole giuste per raccontare qualche cosa con qualunque forma d’arte, quel qualcosa rimarrà. Ricordo la prima volta che ho ascoltato “Persona” di Marracash: venivamo da un periodo storico per il rap veramente di saturazione di linguaggio e di proposta, stava finendo l’onda lunga dell’aspetto dirompente della trap e c’era bisogno che qualcuno azzerasse e creasse una nuova partenza. Marra lo ha fatto con un disco con delle parole che poi sono rimaste davvero e che, addirittura, sono diventate mainstream.
Paola: Sì, secondo me, il potere della parola è diminuito. Ce ne sono talmente tante! Una volta ne avevamo meno, e si sentivano di più. Oggi c’è un vociare continuo ed è molto più difficile isolare le parole interessanti e dare loro la giusta amplificazione. C’è un’overdose di informazioni, di parole che sono inutili e formano solo un grande chiacchiericcio e dello stupido gossip. Basta guardare l’ultimo dissing tra Fedez, Tony Effe e Niky Savage dove si parla di ricci e parrucche! Ad un certo punto Fedez dice: “Ti metto l’arnica”, cioè un livello che non è accettabile in un panorama come quello del rap. Oggi purtroppo però è anche questo: il gossip ha vinto su tante cose. Poi il dissing che fanno loro è quello che si possono permettere personaggi di quella stoffa, ci sono stati anche altri dissing , ma su un piano decisamente più alto. Però sì, sono d’accordo con te, la parola ha perso forza.
C’è un’overdose di informazioni, di parole che sono inutili e formano solo un grande chiacchiericcio e dello stupido gossip. Basta guardare l’ultimo dissing tra Fedez, Tony Effe e Niky Savage dove si parla di ricci e parrucche
Paola Zukar
Jorit in “Testi Espliciti” racconta il processo con cui ha creato una tribù globale fatta da graffi sul volto, rappresentato personaggi che hanno combattuto portando avanti le proprie idee, cosa che avete fatto anche voi nella vostra carriera e con questo libro. Nel vostro caso c’è qualcosa a cui avete rinunciato per colpa della censura?
Claudio: Rinunciato, no. Però non ti nascondo perché voglio essere molto franco, c’è stata l’intervista con Gaetano Bellavia che ha creato comunque delle frizioni. Dice delle cose molto dirompenti su alcune famiglie potenti italiane e sulla politica, per cui si è dovuta creare una mediazione comunque con l’editore per trovare la formula giusta. Non siamo arretrati di un centimetro sui contenuti, ma abbiamo trovato la forma giusta.
Paola: Noi nel libro sul tema della censura ci siamo sentiti molto liberi. Devo dirti che un paio di comunicazioni dall’alto, come dice Claudio, chiedendoci di modificare delle cose, ci sono arrivate. Ciononostante credo che siamo riusciti a trovare il modo giusto per far passare perfettamente quello che volevamo dire in modo deciso.
Oggi il rischio è che i giornalisti diventino degli uffici stampa amplificati. Come è entrata la censura in questo campo? Secondo voi è una questione solamente di politicamente corretto?
Claudio: Esatto, assolutamente. Non credo sia politicamente corretto ma interesse. Un ragazzino che si trova ad interfacciarsi con un big della musica capisco che non vada da Lazza, da Sfera Ebbasta o da Tedua e dica loro: “Sai che il tuo disco non mi è piaciuto!” perché ha tutto da perdere. Come dice l’Uomo Ragno: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Se si fa un mestiere che ha l’ambizione di informare e raccontare, bisogna essere fedeli a quella professione. Il giornalismo è un servizio, non è stendere i tappeti rossi alle persone o ai dischi che si recensiscono. Queste domande bisogna porsele, e occorre interrogarsi se si stia facendo bene o male la propria professione.
Paola: È proprio così. Sicuramente il politicamente corretto è, a mio avviso, uno degli elementi che entra in questo gioco. Ne parlavamo anche con Serena Danna, vicedirettrice di Open: come tutti i giornalisti, anche lei fatica a capire come mai gli artisti non rilascino tante interviste ai giornali. Evidentemente quando si hanno due milioni di follower su Instagram non si avverte più l’esigenza di parlare con qualcuno che possa mediare il tuo pensiero in una maniera magari non corretta. Per cui il tema è che, avendo dei canali diretti oltre alla musica, la comunicazione con il pubblico assume sempre nuove sfaccettature.
Il giornalismo è un servizio, non è stendere i tappeti rossi alle persone o ai dischi che si recensiscono
Claudio Cabona
Nell’85 nasce la legge Tipper Gore, fondatrice dell’associazione di controllo genitoriale. Da lì a poco, dopo il rock, toccherà anche il rap definendolo, in alcuni casi, gangsta perché incitava la vita di strada. Dall’alto oggi la censura si è spostata anche in mezzo a noi. L’autocensura ha il potere di proteggere gli artisti e di portarli a compiere determinate scelte. Come si può sabotare questo meccanismo di autosalvataggio?
Claudio: Non c’è una risposta a questa domanda. Secondo me è l’artista che deve porsi queste domande. Io ti dico quello che riguarda me: questo discorso di autocensura non riguarda solamente il mondo dell’arte, ma riguarda altre professioni fra cui, per esempio, la nostra. Oggi tu leggi recensioni di dischi negative? Oggi tu vedi giornalisti che prendono posizioni? No. O meglio ci sono, ma sono pochi. Perché? Perché anche qui c’è una forma di accettazione. In molti si dicono: “Voglio entrare in un certo mondo diventando amico degli artisti”. Sbagliato. Un giornalista, come dicevo prima, deve fare il suo lavoro raccontando e informando. Il datore di lavoro non è l’artista ma il lettore. È il lettore che deve affidarsi a noi e rispettarci perché comprende la sincerità. Se si scrivono recensioni o interviste sempre accomodanti, si fa il male della professione e il male dell’artista. Quindi io non saprei dirti come sabotare questa autocensura, ma di certo io nel mio ambito ci provo e spero che anche gli artisti, riflettendo sul dire le cose perché ci credono, affrontino questo bivio nel migliore dei modi.
Paola: Si potrebbe distruggere trovando delle decodifiche intelligenti. O ci si abbandona alle canzoni d’amore, alle canzoni innocue dove si è completamente trascinati dall’autocensura per avere un ritorno anche economico; oppure, se non si vuole soccombere e arrendersi a questa nuova deriva della censura, si devono trovare modi intelligenti per comunicare i propri messaggi. Il fatto di riuscire a trasmettere la propria visione con parole che non si possono più dire, genera altri tipi di immagini e altri tipi di idee. Anche Fibra nei suoi dischi utilizzava parole scomode che oggi non potrebbe più scrivere. Un disco come “Mr. Simpatia” sarebbe impossibile da rifare oggi. Nonostante ciò, in queste settimane è al primo posto dei vinili più venduti in Italia e al terzo posto nella classifica generale dopo Lazza e Anna. È una vittoria grandissima per il genere e per questa cultura.
Nel 1996 sei stata l’ultima ad intervistare Tupac. Cosa avrebbe detto, secondo te, oggi Tupac su questo tema?
Paola: Non ho dubbi. Lui era una persona estremamente libera. Ha professato la libertà fino a perderci la vita. Era un artista che nell’intervista ad Aelle aveva detto cose già allora davvero scomode. Non aveva nessun tipo di paura, aveva capito che più diceva la verità e più i suoi dischi avevano successo. Non è che fosse una cosa pompata o gonfiata, era realmente qualcosa che lui voleva dire. Quindi sarebbe stato ancora oggi il difensore numero uno della libertà.
(Aelle è tornato a vivere, ecco l’intervista a Paola e Claudio; continua sotto)
Nell’intervista ad Aelle ci si augura che con questo libro si accenda una luce nei giovani. Obiettivo raggiunto?
Paola: Obiettivo raggiunto a metà. Il libro non lo ha letto nemmeno mia figlia, nel senso che per alcuni ragazzi il libro è uno strumento scomodo, non ci si trovano. Raggiunto a metà e lo sapevamo. Riguardo al formato fisico abbiamo cercato di conferirgli una veste molto cool e graficamente accattivante. Ciononostante tanti giovani sono persi ancora nel grande mare dei social. I risultati del libro di per sé sono molto positivi e speriamo che ci permettano di portare avanti questo bellissimo discorso e di mantenere vivo il dibattito.