Era un anno fa. Era più o meno un anno fa quando, con un titolo molto forte, annunciavamo il ritorno sulle scene di Egreen, dopo un periodo difficile: e che il periodo fosse stato difficile non lo dicevamo noi o il gossip di scena o delle comode note di biografia per épater le boureois, ma veniva letteralmente narrato, vivisezionato, scarnificato in una traccia lunga dieci minuti (!), uno dei più micidiali storytelling il rap italiano abbia mai prodotto (…e da lì la voglia di mettere in campo un Sacro Graal come i “Cinque minuti di paura” di Lou X).
È stato un ritorno pesante. Non dal punto di vista delle numeriche da disco d’oro e del mainstream, per carità, d’altro canto un disco al 100% autoprodotto ed autogestito dove vuoi che vada oggi come oggi (…l’avete notato? La rivoluzione tecnologica alla fine è servita per mantenere abbastanza intatti gli equilibri di potere, l’underground per monetizzare alla fine sceglie sempre di rivolgersi alle major, ora forse pure più di prima), ma di sicuro è stato un ritorno pesante ed importante dal punto di vista artistico. “Nicolàs” è stato ed è un signor disco, anche al di là della traccia-manifesto (o traccia-mostro?) lunga dieci minuti su cui tanto ci siamo spesi, qui da queste parti.
Un anno più tardi, Egreen ha fatto un disco forse ancora più importante. Di sicuro, più importante per leggere davvero – senza cagate, senza ipocrisie, senza imbellettamenti – lo stato del rap (italiano) attuale. E lo ha fatto identificando una chiave d’accesso tanto ovvia da un lato quanto sorprendente e spiazzante dall’altro: Kaos One.
Diciamolo: Kaos è il rapper che tutti citano fra i propri amori e le proprie passioni quando vogliono fare bella figura. È il rapper di cui nessuno pubblicamente parla esplicitamente male, e di cui tutti incensano la rettitudine morale. È però fra i rapper che più e peggio “pretende” dell’ascoltatore, per il flow serrato, la voce urticante, il piglio sempre cupo, gotico ed incazzoso – nessuno come lui. E aggiungiamo: nessuno come lui da tipo trent’anni. In un mondo normale e in una scena sana, Kaos dovrebbe essere un “venerabile maestro”: magari anche un po’ stronzo, sì, ma che può comunque permettersi di vivere di gloria inerziale rispettato da tutti, e di tirare così i remi in barca, facendo giusto ogni tanto qualche zampata (nel rock e pure nell’elettronica succede così: ti sei fatto il mezzo a venti, trent’anni, hai cambiato il mondo e la scena, poi comunque un minimo di “reddito di popolarità e di rispetto garantito” ce l’hai; a Vasco ad esempio oggi basta biascicare un “Eeeh…Oh…” e, guardate, è giusto così). Questo in un mondo normale. Ma in quello reale?
In quello reale, Kaos ancora oggi deve sudarsi la pagnotta ogni singolo giorno. Il “giro giusto” continua ad evitarlo, ad ignorarlo, a riempirlo di complimenti di tanto in tanto per poi però fare finta che non esista. Sarà (stata) anche colpa sua, per carità, negli anni calci nei denti verbali ne ha tirati non pochi, ma sta di fatto che l’intensità e l’integrità che Kaos One ha messo nel rap game andrebbe celebrata di continuo e da chiunque. A partire da chi oggi col rap ci vive e ci vive bene. Ma questo assolutamente non succede.
Bene: Egreen è partito proprio da una delle rare interviste di Kaos (intervista in cui è coinvolto il sottoscritto: non ne sapevo niente, l’ho scoperto a disco registrato), e c’ha costruito sopra un album intero, aggiungendo poi altri frammenti storici (tra cui quelli presi dal seminale documentario “Numero Zero” di Enrico Bisi). Prima di proseguire, se siete curiosi dell’intervista in questione, ebbene eccola qua:
Chirurgicamente, in “Bellissimo” vengono estratti dei passaggi significativi di questa intervista per far loro fare da architrave emozionale/concettuale all’intero album. La title-track, poi, da sola è un miniera di fasi e frasi fondamentali: Da “Avete scambiato l’attitudine per un atteggiamento” a “Questa roba non è nata per fare balletti in cassa dritta”, con la constatazione che oggi sempre più intensamente e convintamente il rap è stato trasformato in, citiamo testuale, “Prodotto per deficienti”. In cui, aggiungiamo noi, anche le persone intelligenti ed acculturate sgomitano per sembrare adolescenti ed infantilmente sfrontate: per fittare nel profilo del “deficiente” senza vergogna e senza memoria a cui troppo rap odierno vuole parlare. Non lo fanno sempre questo trick, le persone intelligenti che ascoltano il rap, ma lo fanno abbastanza spesso. Anzi: da un decennio circa troppo spesso. Chi non si piega a questo gioco, fa parte – sempre citiamo testualmente – di una “…razza più che decimata”.
Non è né la prima né l’ultima volta che i cavalieri-della-tradizione censurano i comportamenti sciocchi e vanesi di chi è arrivato dopo: accade in tutte le discipline artistiche, figuriamoci se non accade in musica ed a maggior ragione nel rap. La differenza è tra farlo bene, e farlo tecnicamente male, dimostrando di essere indietro con il flow, il pensiero, il vocabolario.
“Bellissimo” mostra un Egreen più in forma che mai: lo choc che ha preceduto “Nicolàs” (e il modo in cui non è decollato il suo approdo personale al mainstream) lo ha fatto maturare parecchio. È riuscito a mantenere la sua indole da rapper scontroso e da battaglia, ma invece di gettarsi nell’eterno affastellamento di punchline attaccabrighe acrobatiche strappa-applausi ha maturato una capacità di ragionamento, analisi e racconto che prima non aveva, o non aveva così spiccata. È maturato. Si è fatto ancora più bravo ed interessante, ha aggiunto una dimensione. E nel farlo, va finalmente oltre il vestito del vecchio rapper che abbaia alla luna con punchline da paura insultando i nuovi arrivati e gli eterni sucker.
Vale oro, come delivery, “Bellissimo”. Questo perché come non mai flow e contenuto vanno di pari passo, hanno una narrativa entrambi; e poi perché il piglio non soffoca il ragionamento, e viceversa (come invece sa accadere parecchie volte: l’avete notato? È spesso il discrimine fra rapper scarso e rapper bravo). In più, aggiungiamo che l’accompagnamento sonoro garantito da Sick Budd traccia per traccia è competente ed appropriato: hip hop “tradizionalista” intriso di funk scuro. Non fa magari la differenza e non spiazza con trovate geniali e/o iconiche, ma fa il suo decentissimo lavoro.
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Sarà il disco della svolta per Egreen, e magari pure per il piglio in generale dell’hip hop italiano che conta? Macché. Quest’ultimo è in altre faccende affaccendato, nei suoi alfieri più giovani e sulla cresta dell’onda, come notevamo. Ci sta. Così va la vita. Ma intanto sarebbe il caso che chi ancora condivide un certo tipo di valori non lasciasse da solo Egreen, così come non lasciasse da solo Kaos One o il Colle Der Fomento: soprattutto, non deve permettersi di usarli solo come “coperta di Linus” ad orologeria da sfoderare per far vedere che “la si sa”, ma devono essere visti per quello che sono: persone che ne hanno viste e vissute parecchie, artisti di spessore che non si sono arresi quando la moda e l’hype non camminavano più dalla loro parte.
Gente di coraggio, insomma. E non, come dice in modo fulminante proprio Egreen in “Black On Black”, “Lo stato attuale del rap è uno zarro che in fuga copre la targa”, aka “Cultura del farla franca”. È chiaro dove sta il coraggio, e come andrebbe declinato. O no?
Ascoltatevi, scaricatevi, compratevi ‘sto cazzo di “Bellissimo”: porta veramente molta nobiltà all’arte del fare rap, all’arte del conoscere e saper interpretare con onestà e lealtà la cultura hip hop – pagando ad esempio rispetto verso chi c’era da prima, verso chi non si è mai piegato, come ha fatto Egreen con Kaos. Questo mentre oggi le collaborazioni si fanno col bilancino e con le indicazioni su come massimizzare gli stream, manco si stesse dal commercialista a far di conto – e a sognare le vacanze con la macchinona, la figona, la cocaina, pensando sia questo a stabilire il tuo spessore di artista e di persona.