Da poche settimane è uscito il nuovo lavoro di Teho Teardo “Ellipses dans l’Harmonie – Lumi nel buio”, un disco assolutamente non comune e – lo diciamo subito e senza mezzi termini – perfetto, sia per ciò che è che per quello che suggerisce all’ascoltatore. Ci è quindi sembrata un’occasione più che giusta per raggiungerlo nel suo studio romano (il 4 marzo, quando ancora non vi erano restrizioni alla circolazione) per riprendere il filo del discorso da dove l’avevamo lasciato e farci accompagnare dentro al suo personale adesso. Si parla di musica, certo, ma sopratutto di un artista che vuole scuotere l’astante e condividere la sua visione attraverso i suoni, i gesti, le parole, tutto se stesso. Gliene siamo davvero grati, perché di rado ci è capitato di registrare una chiacchierata così intensa e utile per il momento attuale.
Quindi è qui che nascono i tuoi dischi? Sei circondato da strumenti musicali, vinili e cd, maschere orientali, statuine e altri oggetti curiosi… direi che ti somiglia!
È tutta roba che, in un modo o nell’altro, produce suono. Questo è il mio studio di registrazione e, seppure possa sembrare un po’ anomalo, non poteva essere altro che così, perché è costruito in base a ciò che mi serve. Trascorro veramente tanto tempo in questo posto, sono molto pignolo e perfezionista e delle volte le sessioni sono lunghissime. Stare in un posto del genere, con questa luce, ti fa stare meglio.
A proposito di luce, il tuo ultimo lavoro “Ellipses dans l’Harmonie – Lumi nel buio” nasce dall’opportunità di scegliere un testo, tra i tanti custoditi nell’archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, da cui prendere spunto. Come mai hai scelto proprio l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert?
È stata una casualità, anche se credo che la casualità, come le bugie, abbia le gambe corte. Sono stato invitato da Massimiliano Tarantino, direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a visitare l’archivio. Mi ha chiamato perché sapeva della mia passione per l’Utopìa, che è uno dei miei ambiti d’indagine, e lì è conservata la copia originale del 1516 del libro di Thomas More. Sono andato immediatamente, ho preso il primo treno per Milano! Nell’archivio, poi, mi sono imbattuto casualmente in questa mensola con tanti tomi tutti rilegati allo stesso modo e ho chiesto al bibliotecario – che è una persona fondamentale in un archivio, perché è l’algoritmo umano che ti aiuta a fare correlazioni tipo “se ti piace questo può interessarti anche quest’altro libro dello stesso argomento” – che mi ha risposto che si trattava de l’Encyclopédie. Avendola studiata all’università, ho pensato che fosse giunto il momento di vederla nella sua versione originale e ho chiesto di poterla consultare. Mi è stato risposto “certamente, prego”.
Che effetto fa consultare un’opera del genere?
Il mio rapporto con questo libro è stato fin da subito particolare, pensa che è iniziato con un momento di forte commozione. Spartaco, è questo il nome del bibliotecario, ha disteso per me sul tavolo questa decina di volumi, che fanno un certo effetto, perché lì c’è scritto tutto quello che si conosceva dell’uomo, del suo corpo, del mondo, e del rapporto tra uomo e mondo.
Sostanzialmente c’è dentro tutto il sapere umano.
Sì, esattamente. Tutto lo scibile dell’uomo fino a quel momento, ovvero il diciottesimo secolo, condensato in diciassette volumi di voci e undici di tavole illustrate. Mi viene la pelle d’oca solo a ripensarci! Mi sono messo a piangere, perché sono di un valore assoluto, cambia poco che adesso risulti un’opera superata, da tutti i punti di vista, però quello è un apice del sapere umano o, meglio, l’esempio più lucido e alto di come l’uomo riusciva a stare al mondo.
So che è anche un testo di rinnovamento filosofico e politico-sociale, il primo strumento di diffusione di una visione del mondo laica e, come dire, “moderna”.
Certo, rappresenta una chiamata alle armi della ragione! Quel testo è stato il libro cardine dell’illuminismo, che ha contribuito, in qualche modo, anche ad innescare la rivoluzione francese, e forse a far rotolare via le teste che quel libro l’avevano letto. Però ha favorito un pensiero razionale, come guardare al mondo. Questa lunghissima lista di cui l’uomo e il mondo erano fatti, è una questione di luce, di pura ragione. E poi, come se non bastasse, è anche una presa di posizione estetica fortissima: è un oggetto meraviglioso. Si rimane senza parole, per l’idea di presentazione stessa del tutto. Quindi, per riannodare i fili, c’erano diversi elementi che concorrevano a rendere interessante questo libro per me. Sapevo inoltre che c’era dentro una sezione musicale. Al tempo dei miei studi avevo avuto accesso a una raccolta visiva di strumenti musicali con vari dettagli tra cui la loro provenienza, ma non ero a conoscenza del fatto che l’Encyclopédie contenesse anche una sezione di partiture. Le ho fotografate immediatamente, per portarmele a casa.
E le hai suonate?
Sai, non è musica pensata per essere eseguita e già questo me la rendeva interessante. Sono sostanzialmente degli esempi di comportamenti musicali. È stato come imbattersi in un campionatore del 1700. Allora ho iniziato a studiare. Prima di accettare questa commissione ho cercato di capire se ne fossi all’altezza, quindi ho fatto tutta una serie di prove e di esperimenti e solo qualche mese più tardi ho chiamato la fondazione comunicandogli la mia intenzione di accettare il progetto. Ho voluto far passare del tempo per comprendere ciò che avevo sotto gli occhi, perché sono convinto che non si può fare tutto, non è giusto accettare una proposta solo perché c’è un finanziatore. Per me doveva esserci un senso dentro…
Continua, è interessante.
Quindi, mi trovo davanti a questo materiale di tre secoli fa, che tratta dai minerali alla tecnica per costruire una parrucca, dalla caccia alle armi, dalla navigazione all’esercito, dall’architettura alla chirurgia, dalla chimica alla fisica, e tutto ciò è arrivato fino a noi dopo trecento anni in cui è successo di tutto. Allora mi sono venute in mente delle domande, che pian piano hanno dato senso all’operazione. Noi tra trecento anni saremo ancora qui? E ancora, come lo stiamo guardando il mondo adesso? Abbiamo fatto tesoro di tutta questa conoscenza? Che rapporto abbiamo con il pensiero razionale?
Sei andato nell’archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per cercare “un lume” e invece hai trovato “il lume”.
Sì, mi sono imbattuto in un lume colossale!
Direi che c’è davvero bisogno di più luce in questo momento storico.
Decisamente, è quello che penso. Sento che stiamo vivendo una fase di oscurantismo terribile, dove si nega la conoscenza, si nega la scienza, si negano tutta una serie di dati che si davano per appurati da tempo. Per non parlare di certi revisionismi storici che trovo raccapriccianti. Tutto questo semplicemente perché passa il tempo e quindi si pensa di poter modificare tutto, perfino la storia. Io penso che in questo preciso momento è fondamentale anche un atteggiamento illuminista e persino radicale, nel modo in cui guardiamo noi stessi e il mondo. Camminiamo all’indietro, rischiando di perdere di vista il futuro.
Credo che il problema fondamentale dell’oggi è che tutti non possiamo fare tutto.
Stai dicendo una cosa fondamentale. L’Encyclopédie, per esempio, razionalizza tutto e dà un ruolo a chiunque, in modo anche molto gerarchico e dogmatico, ma è inevitabile, perché è una catalogazione del mondo. Però in questo modo ognuno trova una collocazione ed esprime, allo stesso tempo, anche un senso di collettività fortissimo, perché un tutto non esisterebbe senza le singole voci. Io sono un musicista e per me la musica è prima di tutto una comunità. Se penso a questi giorni terribili in cui per chi lavora nel mondo della cultura sta saltando tutto, per la questione del coronavirus (le restrizioni imposte dal governo per limitare la diffusione del virus sono scattate pochi giorni più tardi, ndr), ecco, mi rincuora sapere di essere parte di un sistema, fatto di persone che si danno una mano, ognuna con un ruolo specifico ma possibilmente in dialogo e in ascolto reciproco.
Mi interrogo spesso sul mondo dell’arte e onestamente credo che abbia il compito di mostrarci dell’altro, quello che non è immediatamente percepibile, il “non comune”.
Sì, credo anche io che agli artisti venga chiesto di avere una visione altra. Mi viene il mente il cinema come metafora: la settima arte è anche un regista che decidere di posizionare la macchina da presa in un punto ben specifico. La telecamera non viene messa in un angolo a caso, bensì in quel luogo esatto da cui si vuole guardare il mondo e quindi c’è insita anche la scelta sul come voglio guardarlo quel mondo. Non si tratta soltanto di raccontare una storia, penso che sia un po’ sopravalutata l’idea di avere un qualcosa da raccontare, sono convinto che ci sia la necessità di modificare il linguaggio. William Burroughs sosteneva che il linguaggio è un virus; ecco, io spero che grazie a questo momento di panico generale possa essere scalfito il linguaggio, per iniziare davvero a modificarlo.
Mi piacerebbe sapere in che modo poi sei riuscito a ritrovare te stesso – o se preferisci il tuo linguaggio – dentro agli esempi musicali dell’Encyclopédie.
In quelle regole, effettivamente, io non c’ero (ride, ndr). Non c’ero per questioni storiche, è ovvio, ma anche perché si tratta di materiale che arriva da un altro mondo, quello della musica classica, da cui io non provengo. Però è vero, questo disco non sarebbe mai uscito se non ci fosse stato un modo di ritrovare me stesso lì dentro. Ho provato subito a suonare quegli esempi musicali, anche se, come detto, non erano stati concepiti per questo; ho trovato interessante il fatto che eseguendoli oggi, questi esempi assumano una serie di valenze poetiche che in passato, quasi sicuramente, non avevano. Altro che poesia, è materiale estremamente dogmatico e rigido. Allora, prima, ho accettato tutto ciò che il testo proponeva, in maniera pedissequa, costruendo tutto un castello di regole. E ovviamente tutto funzionava meravigliosamente. Poi ho cominciato a far saltare alcune di queste regole, per togliere le conseguenze che portavano a quel pre-determinato risultato, che a me non interessava, perché chi sono io per fare ciò che tanti meglio di me hanno fatto in passato. Ad esempio ho suonato una sezione di brano, che secondo le indicazioni de l’Encyclopédie, doveva durare venti secondi, facendolo durare sette minuti. Smagliando completamente le strutture, mi sono ritrovato. In breve ho usato quel castello di regole per scrivere la musica che io voglio suonare oggi, ed ha funzionato!
L’ascolto del disco, per intero e con la dovuta attenzione, mi ha spostato dalle coordinate del presente. Forse è anche questo ciò che deve fare la musica.
Necessariamente.
E poi ci sono molte suggestioni diverse, si va oltre il suono, in alcuni casi non si riesce neppure ad identificare con precisione la fonte sonora.
È una questione a volte mimetica, che riguarda il modo in cui uso gli strumenti o, per meglio dire, a come mi piace pensare il suono di un brano. Per cui succede che una viola o un violoncello sfuggono ai radar e diventano qualcos’altro, perché ho bisogno che il suono possa trascendere da quella che è la realtà fisica di uno strumento e possa anche andare oltre. Dico “anche oltre” perché non necessariamente deve essere sempre oltre. Inoltre mi interessa parecchio tutto il lavoro che si può fare sui detriti del suono, sopratutto degli strumenti classici; penso agli archi, mi piace tutto quello che riguarda i cedimenti delle corde, i cosiddetti difetti, insomma tutto quello che fa incazzare i puristi. Per risponderti ancora meglio potrei dire che nell’idea di bel suono che si ha di uno strumento, inevitabilmente lasciamo fuori tutta una serie di peculiarità che secondo me sono straordinarie. Pur piacendomi l’idea classica di suono, mi interessa anche quello che viene tralasciato o addirittura evitato e vado spesso a lavorare in quella direzione.
Ecco perché sei perfezionista, come mi dicevi prima. Sfruttare uno strumento al massimo implica la necessità di conoscerne tutte le caratteristiche possibili, anche quelle che molti, per l’appunto, evitano. È lo studio assiduo che ti consente di “sbagliare”.
Sì, è così. Mi piace lavorare con musicisti che siano estremamente preparati e che sappiano ottenere il massimo da quello strumento. Grazie a questa abilità c’è la possibilità di andare altrove, in percorsi più avventurosi, dove solitamente quello strumento non va. Per farti un esempio, mi piace eseguire delle parti altissime per violoncello, che magari dovrebbero essere interpretate da una viola, però il violoncello arrivando lì in alto crea una tensione che la viola non creerebbe se rimanesse nel suo range.
Qual è il tuo rapporto con il tempo? Te lo chiedo perché so che quando ti guardi indietro lo fai per avere nuovo slancio anziché per essere rassicurato.
Viviamo un’epoca di forte nostalgia. Io non sono assolutamente un nostalgico, è un dato di fatto, non risento proprio di questo stato d’animo. Il che non vuol dire che io non ami il passato, anzi, lo reputo fondamentale. Il mio percorso di musicista va di pari passo con quello di ascoltatore, e come ascoltatore ho così tanto da imparare, che sto continuamente studiando musiche di altri tempi, che c’erano prima di me. E contemporaneamente ascolto la musica che si produce oggi. Trovo ad esempio che oggi, nell’ambito della musica elettronica sopratutto, ci sia una produzione esagerata di strumenti musicali votata a ricreare ciò che si faceva negli anni settanta e ottanta. Si tratta di un passo indietro clamoroso, oltre che di un cortocircuito nel linguaggio. Ecco, per me va cambiato prima di tutto il linguaggio, perché quando oggi definiamo una musica “elettronica” non mi aspetto roba fatta con strumenti costruiti oggi ma che emulano un suono del passato. Siamo sommersi di musica che io ascolto da trent’anni, non ce la faccio più a risentirla in forme diverse!
Cosa ti piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
Viviamo un’epoca in cui c’è bisogno di consenso. Se penso a dei pionieri della musica elettronica, per esempio i D.A.F. (Deutsch Amerikanische Freundschaft, ndr), non mi sembra che cercassero consenso. Credo che sia colpa della pigrizia, che si esprime nello sperare di avere più like su Facebook piuttosto che seguire la propria strada. Questo non fa bene alla musica, o all’arte in generale. Quindi, ripeto, mi piacerebbe che ci fosse una visione, agli artisti è chiesto di avere uno sguardo proprio, a tutti gli artisti.
Infatti non sei solo, c’è chi questa visione ce l’ha e, giustamente, la porta avanti.
Hai ragione, non siamo in pochi. Dinanzi a questa pigrizia non possiamo solo lamentarci dicendo “che schifo il mondo che guarda indietro”. Noi possiamo, anzi dobbiamo, fare delle altre cose. Un sintetizzatore come questo (prende in mano una piccola macchina a un palmo da dove siamo seduti, ndr) pensato esclusivamente per fare della techno, se lo metto in un secchio pieno d’acqua si ossida, magari saltano tutta una serie di contatti e diventa quasi ingestibile, però ottengo anche qualcosa di unico, un suono che nessun emulatore potrebbe mai darmi. Ti faccio questo esempio perché in passato alcuni miei strumenti sono finiti sott’acqua a causa di un’alluvione e conservo ancora un vecchissimo synth Roland degli anni ottanta, che non ho mai fatto riparare, nonostante valga anche parecchio, perché è una bestia così incontrollabile che mi diverte: mi piace che non faccia mai le stesse cose due volte, che risponda e non risponda al midi, che i suoni saltino o cambino improvvisamente.
Herbert in un’intervista mi disse che tutto ciò che uno fa è politico. Perché anche decidere di non parlare di politica è un atto politico. Sei d’accordo?
Certamente! Ha ragione e concordo pienamente.
Se mi permetti, devo dire che sento in te la sua stessa voglia di approfondire il mondo attraverso la musica, come se la usaste a mo’ di lente di ingrandimento.
La musica mi aiuta a capire come sto e come stanno gli altri nel mondo. C’è un lavoro di un fotografo, Charles Fréger, che io ammiro molto e che spiega bene come io stesso guardo il mondo: con uno sguardo antropologico, ma anche evidentemente artistico, ed anche con un’estetica ben precisa. Mi aspetto questo dalle arti.
Cosa ne pensi della componente di intrattenimento della musica?
Spesso si fa confusione con i concetti di cultura e intrattenimento, magari vengono addirittura messi in contrapposizione, sbagliando. Io penso che l’intrattenimento sia un aspetto favoloso e determinante della nostra vita. Non riuscirei a vivere senza tanta musica pop, che ha anche il grande vantaggio di potersi permettere tante cose, ha una portata enorme ed è giusto che la usi. Per cui credo che sia importante usare con cautela la parola intrattenimento, perché è una parola bellissima e, come dire, va trattata con cura (ride, ndr).
A questo punto devo chiederti anche la tua sul termine “sperimentazione”.
Secondo me, sperimenti la prima volta che fai una cosa, quando la rifai diventa intrattenimento. E di questo non te ne puoi mai dimenticare. C’è una nobiltà in entrambe le componenti, ma né l’una né l’altra devono diventare degli alibi. Spesso molta musica sperimentale, che è l’ambiente dal quale io provengo, è terribilmente noiosa; ma trovo che anche il pop a volte sia noiosissimo. C’è uno spazio tra i due che mi interessa. Se lavoro in un ambito di ricerca io non dimentico mai di essere cresciuto musicalmente grazie ai Beatles, agli Stooges, ai Ramones. Ma abbiamo anche molti esempi di artisti che hanno avvicinato pop e avanguardia in modo straordinario, penso ai Suicide che sono così indefinibili, e se poi chiedevi a loro ti rispondevano che facevano semplicemente rock and roll!
Ma torniamo a te. Come presenterai “Ellipses dans l’Harmonie – Lumi nel buio” dal vivo?
Non è mai facile suonare la mia musica dal vivo. Ho bisogno di lavorare con dei collaboratori che diventano delle figure determinanti nella realizzazione di uno spettacolo. Mi accompagnerà un trio, composto da due violoncelli e una viola, perché c’è qualcosa di estremamente speculare nel disco. Ho immaginato i violoncelli che dialogano tra loro e in mezzo una viola che non fa il canto a cui saremmo abituati, ma contraddice ciò che producono gli altri musicisti. E poi ci sono io che suono la lap steel guitar, la chitarra baritona, e ho tutta una postazione con strumentazione elettronica. Non vedo l’ora di poter riprendere l’attività dal vivo, perché la musica ha bisogno di essere eseguita dal vivo, è quella la sua dimensione ideale!
Come finiamo questa chiacchierata? Mi piacerebbe concludere con un buon auspicio.
C’è tutta una fascia di persone, oggi, che non ha speranza nel futuro dell’essere umano e che sostiene che qualunque cosa si faccia andremo a finire male. È una forma di egocentrica delusione sulle possibilità dl mondo che mi fa rabbrividire. Può anche essere vero che faremo una brutta fine, è evidente che non siamo in una buona situazione, ma ti posso assicurare che nel momento in cui ci sarà l’innalzamento delle acque, mi troverai con un secchio a svuotare la cantina! Anche se non serve a nulla. Io credo molto in quella forza lì dell’uomo, e anche questo è un gesto politico. Poi ciascuno può fare come crede, ma per quanto mi riguarda sarò sempre dalla parte di chi vuole costruire. Credo che sia come minimo doveroso provarci, anche davanti all’abisso.
Sono assolutamente d’accordo con te!
Charles Fréger, il fotografo francese di cui si parlava, mi raccontò una volta di quando attorno al trecento ci fu un’epidemia di peste devastante a Strasburgo. Ebbene, le persone malate si radunavano in strada e danzavano, fino allo sfinimento, fino alla morte. Però morivano danzando: la danse macabre. Ecco, se non potrò più fare nulla danzerò!