Ed eccoci: inizia la Milano Music Week. Ora, se siete milanesi siete abbastanza abituati – anzi, magari voi ne siete i primi propugnatori – alla ventata di orgoglio, autostima ed (auto)complimenti che sta circondando la metropoli lombarda, suppergiù da quando ci si è liberati della giunta Moratti (non ne facciamo una questione politica: ma sta di fatto che da quando la cultura è stata vista politicamente come una risorsa e non più come una infruttifera seccatura, la narrazione attorno alla città è migliorata di molto, ma in realtà non solo la narrazione – anche la quotidianità, pur con tutti i problemi che una città di questa tipologia e con questa struttura economica può offrire). Se non siete milanesi, tutta questa ventata un po’ vi incuriosisce un po’, diciamolo, inizia a diventare stucchevole, perché certe volte sembra davvero che Milano sia diventata Meravigliosa ed Incriticabile (maiuscole d’obbligo).
Scegliete pure da che parte stare, lasciateci però dire una cosa: a prescindere, è positivo che si muovano delle energie amministrative, imprenditoriali, culturali attorno alla galassia dello spettacolo e dell’intrattenimento. Questo vale sempre e comunque. E, per venire a cose più “nostre”, è bello che dopo la sfilza di Fashion Week (ce ne sono mille all’anno, a Milano…) e dopo una Design Week che è diventato un vero e proprio fenomeno internazionale si sia arrivati a pensare ed immaginare una Milano Music Week. E’ bello di per sé.
Il rischio è che Milano celebri se stessa, anzi, che celebri il suo attivismo, il semplice fatto di “fare” le cose (o di “farle accadere”) come se questo fosse un valore totale, assoluto, esaustivo: no, non lo è
Certo: è ancora imperfetta, questa Milano Music Week. Certo: è ancora lontana dall’essere un ADE amsterdamiano o un SXSW texano. Certo: ci sono molte cose ancora da sistemare, affinare, sistematizzare. Ecco, proprio questi ultimi punti sono ciò su cui bisogna lavorare di più in futuro. L’edizione 2019, che inizia oggi, ha fatto uno sforzo veramente notevole – considerando anche i tempi e i mezzi a disposizione – per essere il più possibile inclusiva, per affastellare nomi su nomi, realtà su realtà, per cercare insomma di riunire più energie possibili. La crescita rispetto alle edizioni passate si vede. Visto però da fuori, manca al tutto forse una direzione, una scelta di campo, un progetto a lunga scadenza, un claim o un ideale chiaro e da condividere che faccia un po’ da stella polare, che sia forza dinamica, non entropia. Il rischio alla fine è quello che mettevamo all’inizio paragrafo: che Milano celebri se stessa, anzi, che celebri il suo attivismo, il semplice fatto di “fare” le cose (o di “farle accadere”) come se questo fosse un valore totale, assoluto, esaustivo: è un valore importante, ma non è né totale, né assoluto, né esaustivo.
Se lo fosse, ADE o SWSW o anche Eurosonic (nella “piccola” Groningen) sarebbero molto più vicine, mentre di strada da fare ce n’è ancora parecchia: lì un “progetto” è percepito, qui invece sotto l’ombra della Madonnina l’impressione è ancora “…oddio, cerchiamo di mettere insieme più cose possibili, dai”. Che è un metodo che può funzionare per le Design Week e Fashion Week ma, per vari motivi, è insufficiente se si vuole dare un volano internazionale anche a questa estensione musicale, e non trasformarla in un “Vabbé, ritroviamoci fra di noi, ‘sta settimana, poi si vedrà”, in mezzo al gioco di società ormai un po’ trito di Milano-che-loda-se-stessa-e-il-suo-attivismo. Un gioco che già per chi abita a Milano, come il sottoscritto, inizia ad essere vuoto, visto da fuori può proprio sembrare irritante o, nel migliore dei casi, non dannoso ma un po’ infantile.
Però ecco, le critiche bisogna metterle da parte quando ci si rende conto che, per quanto riguarda l’industria musicale e dell’intrattenimento legato alla musica, Milano da un decennio a questa parte ha creato e radunato energie come nessun altro in Italia. Torino combatte con uno spirito cittadino d’antan, interpretato dalla sua classe politica vecchia e nuova, che fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote; Roma è in una involuzione che lascia attoniti, e viva gli eroi che riescono a resistere e fare cose; Bologna va sempre bene, ma ha perso – temporaneamente? – un certo tipo di smalto che la faceva sempre essere all’avanguardia; Firenze sta facendo passi importanti; Napoli è un vulcano di energie e competenza, ma purtroppo anche un vulcano di energie e competenze sprecate rispetto alle potenzialità; Genova al solito è non pervenuta (e la cosa è assurda…), Bari e la Puglia intera devono decidere davvero cosa fare “da grandi” una volta finita la grande ondata di contributi della Comunità Europea, Catania e Palermo rispetto alle potenzialità (e ad alcuni splendori passati) sono quasi al grado zero. Questa una ricognizione a volo d’angelo sui principali centri italiani, per quanto riguarda la musica. Ovviamente ci sono mille eccezioni, mille realtà che lottano alla grande contro i mulini a vento facendo cose bellissime; e ovviamente qui non la nominiamo, ma ogni tanto la provincia mette a segno degli exploit fantastici. Non mettetevi insomma a dire “eh ma c’è questo”, “eh ma c’è quello”, considerate il quadro d’assieme. E il quadro d’assieme dice che il lavoro più importante nell’ultimo decennio l’ha fatto Milano, ed è successo a Milano, per quanto riguarda la musica. Tant’è che moltissimi musicisti della nuova generazione vi si trasferiscono.
E questo lavoro, se entrate nelle pieghe del nutritissimo programma della Milano Music Week, viene raccontato. Solo che ecco, dovete armarvi di pazienza. Cercare di tirare voi fuori quello che vi interessa, o un filo rosso che spieghi in modo chiaro dove (e come) si può far davvero la differenza, e dove invece è solo self-promotion.
Il quadro d’assieme dice che il lavoro più importante nell’ultimo decennio l’ha fatto Milano, ed è successo a Milano, per quanto riguarda la musica
Fra le varie galassie che compongono la MMW, in modo evidente quella che più si pone questo problema è Linecheck, ormai andato ad attestarsi per tradizione in contemporanea della settimana musicale meneghina, diventando parte integrante del programma. Linecheck lo seguiamo da sempre, dalla sua nascita praticamente (uno “spin off culturale” di Elita Festival, inizialmente lo si poteva riassumere così, arrivato presto ad avere vita proprio e ruolo primario), e quella di quest’anno è una edizione molto particolare. Una edizione “difficile”, perché non ha un grande traino musicale: l’unico nome grosso nel cartellone, oltre volendo a Seun Kuti & Egypt 80, è Godspeed You Black Emperor, ma la loro aggiunta è sembrata un po’ una toppa posticcia – per quanto bellissima – fatta per mettere un po’ di sugo in una ricetta invece che si basa molto su nomi nuovi, emergenti, poco conosciuti.
Si sa come vanno le cose: ok i contenuti dei meeting diurni, ma soprattutto all’inizio il traino per catturare l’attenzione del pubblico “generalista” è come viene composto il cartellone dei concerti e, per vari motivi, quest’anno il risultato a livello di impatto mediatico è debole. Forse non è un difetto, forse è una cosa buona in realtà: viene infatti a cadere quello che per molti versi è un equivoco, Linecheck sempre di più vuole porsi come hub professionale, lavorativo, per adetti al settore, senza più rischiare di essere “confuso” come festival musicale. Una scommessa forte, una scommessa coraggiosa. Una scommessa con delle carte interessanti da giocare: nel programma del festival, noi vi sentiremmo di consigliare il focus sulla realtà canadese. E tanto. Ok, i già citati Godspeed Eccetera, ma in realtà c’è molto altro sul piatto – da Pierre Kwenders il suo afro-centrismo festaiolo in chiave LGBT fino ad Ouri e la sua eterea classe (già “fotografata” dalla Ghostly), passando per i bizzarri Doomsquad (acid ed African Disco?) o l’interessante respectfulchild (scritto così, con la minuscola).
Altro highlight nostro personale, il buon Tim Exile: che presenta al pubblico il suo Endless, il software di generazione sonora che lo ha “rapito” alla musica (ecco perché non l’avete sentito nominare per un sacco di tempo, dopo le release – bellissime – su Warp). Ad ogni modo, dentro Linecheck c’è un po’ di tutto, basta frugare nel programma (ad esempio, molto interessante la Linecheck Experience, date un occhio) ma, al contrario del mare magnum della Milano Music Week nella sua interezza, è chiara la scelta di offrire un preciso porto sicuro e fruttifero per gli operatori del settore, per chi cerca di fare della musica un mestiere (come musicista, come compositore, come editore, come comunicatore, come quello che volete voi). Il confine qui è sempre sottile, tra il “parlarsi addosso” e il voler sembrare più grossi e professionali di quello che si è, simulando un’importanza nelle economie contemporanee che non si ha solo in nome della cultura, e il fare invece qualcosa di davvero importante – far capire che lavorare nella musica è un lavoro serio, difficile, che va inteso e sviluppato professionalmente. Questi due estremi spesso si intrecciano, si mescolano fra di loro, litigano e si seducono vicendevolmente; ma viviamo in un periodo in cui Calcutta e Thegiornalisti riempiono gli stadi e Levante un Forum, quando invece sei, sette anni fa cara grazia se c’erano cento persone a sentirli. Questa cosa dovrebbe dire ed insegnare molto. No?
Non significa che il boom-per-tutti è dietro l’angolo, e basta andare a Linecheck a sentire i pesci grossi dell’industria per fare vostra una fetta della torta, permettendovi così di vivere della vostra passione. Non è così che funziona. Ma è anche vero che bisogna prendere consapevolezza del fatto che non è più come prima, non puoi più delegare tutto alla major di turno (lontana, inavvicinabile, con cui entri in contatto solo se lei lo vuole e solo se lei ti cerca) perché se non c’è la major allora è solo hobby e dopolavoro. La scena hip hop attuale insegna, è diventata grande e popolare senza l’aiuto delle multinazionali (che sono accorse solo in un secondo momento), ma prima ancora proprio noialtri della club culture dovremmo essere consapevoli che abbiamo rappresentato a lungo un felice bug nel sistema, riuscendo a dare vita a realtà in grado di generare fatturati inaspettati nuotando completamente fuori dai mari della cultura mainstream. Eravamo dei pirla che ballavano musica da Pac-Man o ascoltavano scoregge digitali o facevano i PR tra i tamarri, siamo diventati Time Warp, Sónar, Circoloco, realtà interessantissime (e fortissime) dal punto di vista imprenditoriale.
Insomma, antenne su.
E a Milano questa settimana per questa Music Week, con tutto il caos, con tutto l’eccesso di retorica “milanesista”, con tutta la presenza di realtà che potevano essere evitabili o che erano rilevanti nel secolo passato e oggi mah, comunque di materiale valido ce n’è molto.