“Ma Dardust? Ma veramente? Ma veramente ti piace?”: chi vi scrive ha avuto questa conversazione un bel po’ di volte. Sì, lo dichiaro molto tranquillamente: mi piace Dardust. Di più: trovo sia da un lato uno dei personaggi più interessanti della scena musicale italiana (perché invece di accontentarsi di essere da autore e producer il Re Mida nell’ombra dell’urban pop che spopola le classifiche, da “Soldi” di Mahmood a “Cenere” di Lazza giusto per fare due esempi, si incaponisce invece a portare avanti una carriera solista articolata ed ambiziosa), dall’altro è uno di quelli che si butta davvero a corpo morto in quello che fa, credendoci, mettendoci la faccia, concedendosi anche il peccato dell’ambizione. In una fase storica in cui tutti sono (troppo) attenti a non fare passi falsi e a predicare ai convertiti – vale per il pop tanto quanto per l’underground più classy e sofisticato, anzi, vale soprattutto per l’underground – un personaggio come Dario Faini in arte Dardust vale tanto, vale oro.
Anche perché non è solo il fatto di essere atipico, o di avere la cazzimma: è che la sua musica davvero vale, sia quella elettronica che quella più in orbita neo classica (contesto dove la fuffa regna, non è facile distinguersi). Chi lo critica il più delle volte scopri poi che lo ha ascoltato solo distrattamente, “Ma cosa vuoi che mi interessi di uno che produce Lazza e fa la taranta e il Rondò Veneziano all’Eurovision, non può venire fuori niente di buono da uno che fa così”.
A tutto questo aggiungiamo anche che è una persona che, quando la incontri, non possono non nascere conversazioni interessanti. Prova ne sia questa lunga chiacchierata che ci siamo concessi in occasione del prolungamento extra del lungo tour che è seguito all’uscita dell’album “Duality”: un prolungamento speciale, visto che sono date particolari in quanto in ognuna di esse (29 novembre Civitanova Marche, 12 dicembre Milano, 24 gennaio Roma, 29 gennaio Bologna, 3 febbraio Firenze) ci sarà un ospite speciale (rispettivamente Saturnino, Mahmood, Franco 126, Elisa, Samuele Bersani). Così, tanto per rendersi ancora più antipatico ai custodi dell’elettronica e della classica, e tanto poi per scioccare il pubblico più pop che arriverà a vedere un concerto fiammeggiante ma tutt’altro che pop. Sì: Dardust ci piace. E fareste come minimo bene a dargli un bel po’ di attenzione, se alla musica ci tenete davvero.
Insomma, ‘sto “Duality Tour” sta durando più del previsto o sbaglio? Come mai?
Guarda, io probabilmente avrei preferito già switchare tutto: far uscire il disco nuovo, presentarlo in tour, portare in giro insomma uno spettacolo tutto nuovo. Ma in tanti mi hanno detto che il “Duality Tour” merita ancora di vivere, di essere visto – e che non è ancora arrivato a tutti. In effetti è un tipo di concerto coraggioso, credo; comunque fuori dalle righe, nel bene e nel male. Va al di là di schemi abituali. No?
Io posso essere d’accordo. Ma in generale, pensi che questo show così “duale” sia stato capito, apprezzato a dovere?
Secondo me, sì. Magari non da tutti…? Non lo so. Ho sempre in effetti l’impressione che un certo tipo di target, diciamo quello radical chic, quello dell’intellighenzia elettronica hype e supercool, continui a guardarmi con sospetto…
Come mai?
Beh, è chiaro: perché il mio linguaggio parte proprio da lì, da quei territori, da un certo tipo cioè di elettronica sofisticata, per poi però codificarlo in una dimensione diciamo più popular.
In effetti è così.
Non credo tuttavia mai di eccedere, di sforare.
Personalmente, nemmeno secondo me accade.
Ed è un equilibrio molto difficile. Ma proprio questo equilibrio è la chiave di tutto quello che faccio; tuttavia è anche, al tempo stesso, il motivo per cui ci sarà sempre qualcuno che mi guarderà con sospetto. Che non si fiderà di me.
E questa cosa un po’ ti pesa.
Mi pesa perché è un peccato. Mi pesa perché in altri luoghi tutte queste menate non ci sono.
No?
Io per fortuna suono ormai spesso all’estero e vedo ad esempio che in Francia o a Berlino progetti che contaminano fra loro ambiti e usano “ampliare” determinati linguaggi, mettendo magari del colore in ciò che in origine è oscuro, non sono visti con sospetto. Anzi, proprio questa trasversalità viene considerata spesso un valore aggiunto in sé. In Italia è come se in certi ambiti si dovesse essere radicali per forza, imponendo rigori e complessità – che poi vengono venduti al mercato dell’hype e lì vengono valutati, magnificati. Mentre in realtà l’effetto reale sulle persone lascia un po’ il tempo che trova. Non lo so: non sono ancora riuscito a trovare la chiave giusta per interpretare questo tipo di situazione. Ma onestamente, ho imparato anche a sbattermene. Vado avanti per la mia strada. Faccio quello che faccio.
C’è peraltro una serie di grandi paradossi: perché proprio questa intellighenzia, che vive di complessità e rigore e schernisce tutti i tentativi di rendere più comunicativa un certo tipo di elettronica, poi all’improvviso diventa matta per il reggaeton. Guarda, mi prendo io la responsabilità di questa affermazione: lo stesso stilema sonoro se viene proposto alla radio o nei locali commerciali è la merda, se un anno viene proposto a C2C è avanguardia fighissima ed iconoclasta. Sottolineo: tutto questo lo sto dicendo io, non lo stai dicendo tu. Non te la sto mettendo in bocca, come affermazione.
Beh, capisci allora bene certe mie perplessità. Chiaro: il fatto che io sia anche un producer nel pop che ha firmato un certo numero di hit mi fa, in qualche modo automaticamente, essere visto con sospetto da un certo tipo di pubblico più sofisticato. Io sono uno che viaggia per ambiti diversi, vero, ed evidentemente questa cosa non viene vista positivamente. Lo ripeto: secondo me tutto questo è un peccato. È un’occasione persa per tutti. Ma ripeto, ormai ho imparato ad andare avanti per la mia strada e a godere di quello che riesco a fare. Finché ci sarà un pubblico che mi apprezza e viene ai miei concerti, io andrò avanti. Con piena soddisfazione. E sta accadendo.
(foto di Alessio Panichi; continua sotto)
Ecco, ma quando suoni ti capita di guardare la gente di fronte a te? Che tipo di pubblico hai? Che pubblico hai avuto finora, per il “Duality Tour”?
Un pubblico assolutamente trasversale: dal sessantenne che ascolta la classica al ragazzino tutto preso dalla urban che, a furia di vedermi comparire nei credits di tutta una serie di brani che gli piacciono, ha la curiosità di vedere chi diavolo sono veramente quando faccio musica a nome mio e mi espongo in prima persona. Questo, più tutto quello che può stare in mezzo fra questi due estremi. C’è chi mi preferisce nel repertorio pianistico, chi invece predilige il mio lato più elettronico. Ma si riesce tutti a convivere bene. Esattamente come nel mio concerto convivono, credo in modo sensato, gli estremi – e lo fanno non in modo statico, ma attraversando una tavolozza ricca di contaminazioni e colori. C’è veramente di tutto, nel “Duality Tour”: c’è perfino la taranta, per quanto riletta elettronicamente, e c’è il mio amore per un certo tipo di sonorità digitali dell’Europa del Nord. Capisci che davvero si passa da un estremo all’altro, no? E mi rendo conto che per qualcuno tutto questo possa essere tanto. Forse troppo. Quello di cui sono contento è che cerco di evitare i luoghi comuni: anche nella prima parte del live, quella pianistica, quella che in teoria dovrebbe essere più canonica e tradizionale, faccio delle cose che abitualmente non si fanno: in un concerto di neo classica raramente vedi dei visual, no? C’è sempre solo il pianoforte, al massimo una spruzzata di elettronica, ma tutto è raccolto, tutto è focalizzato sugli strumenti e sull’esecutore, c’è una liturgia fissa insomma. Io la spezzo. Creo dei crash a livello di immaginario con un certo tipo di visual…
Vero, di solito quando c’è il concerto per piano solo l’impianto scenico e luci è sempre ultra-minimale, quasi come se fare in altro modo fosse un sacrilegio, una pacchianeria, un affronto.
Io invece cerco di creare uno show più impressionista. Mi viene sempre da pensare a Debussy, che era un appassionato delle arti in generale, della sinestesia, voleva concerti dove ci fossero proiezioni colorate, addirittura dove venissero infusi dei profumi in sala – e stiamo parlando oltre di un secolo fa! Che poi lui più che impressionista – non amava infatti essere chiamato così – si professava più un simbolista: e già questo ti fa capire come possa essere limitante scegliere un’etichetta nel definire un artista. Ma di sicuro da altre correnti e discipline artistiche lui ha preso tutta una serie di elementi e li ha trasferiti nella sua arte: ad esempio appunto la fascinazione per le impressioni, anche ricorrendo a citazioni musicali piene di esotismo, legate a luoghi molto lontani dall’Europa. E questa come chiamarla se non contaminazione? La prima parte del “Duality Tour” la si potrebbe in effetti definire proprio impressionista per mille ragioni: perché non viene costruito un racconto concettuale vero e proprio, fatto e finito; si lavora appunto più per tocchi, per impressioni. Però appunto ci sono comunque delle rotture rispetto alle convenzioni di un’esecuzione essenzialmente pianistica, i concerti per piano solo, insomma, quella roba lì, ci siamo capiti…
(foto di Virginia Bettoja; continua sotto)
Guarda, questa dovrebbe essere una intervista video e non scritta, perché non so se troverò mai le parole per descrivere la tua faccia al momento di dire “i concerti per piano solo, quella roba lì”….
Beh, anche quello è appunto un contesto pieno di regole ed imposizioni che… Boh. Anche lì quindi non posso che essere visto come uno da guardare con sospetto, fra gli appassionati più intransigenti, esattamente come chi è appassionato di un certo tipo di elettronica mi guarda storto quando ci metto dentro la taranta o chissà che altro. Ma vedi, il punto è che “Duality” come tour è veramente la somma di un percorso lungo un decennio. Una somma però strana: una somma che prende ed estremizza gli elementi più polarizzati e polarizzanti.
Se è “Duality” come tour è “la somma di un lungo percorso”, mi viene da dire che allora potrebbe essere potenzialmente anche la chiusura di un cerchio.
Lo è.
Quindi insomma, quando ti sarai sbrigato queste date extra – abbellite dalla presenza di un ospite di prestigio per data – sarai pronto per intraprendere una direzione molto diversa da quella intrapresa nell’ultimo decennio.
Molto diversa non lo so, ma diversa sicuramente. Seguirò una regola: less is more. Racchiudere tutti i miei mondi e le mie idee sì, ma con un approccio per sottrazione, usando meno elementi possibile.
Un approccio diverso da “Duality”.
Un approccio simile a quello che usai per il mio primo disco solista. Ma il risultato finale sarà credo molto diverso – perché in tutti questi anni sono comunque diverso io, rispetto ad allora.
Ecco, in tutto questo percorso di evoluzione cosa hai perso e cosa invece hai guadagnato?
Cosa ho perso? Fossi stato furbo, avrei continuato nel solco della contaminazione standard tra pianoforte ed elettronica, unendo questi due mondi sotto la chiave dell’emotività più immediata. Invece la mia visione è sempre stata un po’ diversa, è sempre stata quella di scompaginare un po’ le carte estremizzando di volta in volta certi elementi, cosa che mi ha reso difficile da piazzare dal punto di vista discografico – parlo proprio di strategie commerciali. Poi chiaro: se uno mi viene a vedere dal vivo lì capisce, almeno credo. Coglie il mood, coglie l’intenzione. Ma tutto questo per dire che, in realtà, non ho perso nulla: perché anche se apparentemente mi giocavo appeal ed occasioni per massimizzare i profitti, in realtà contemporaneamente guadagnavo tantissimo in chiarezza e consapevolezza su che tipo di discorso volessi portare avanti davvero. Sono arrivato alla fine proprio a tendere tutto all’estremo, da una parte e dall’altra assieme: perché questo era il traguardo che mi ponevo. Ora che sento di esserci arrivato, posso ripartire da zero. Sapendo tuttavia di essere più maturo, di essere pienamente consapevole di me, di cosa voglio – e di come lo posso ottenere.
Ok. Ma prima di arrivare a questa nuova fase, alla “ripartenza da zero” in arrivo, ci sono appunto le ultime date del “Duality Tour”, con special guest di peso data per data. Cosa cambia rispetto al concerto che in molti hanno già visto, visto che al di là di tutto il “Duality Tour” ha girato comunque tanto e bene?
Cambia un po’ soprattutto la parte elettronica. Ho cercato di migliorare alcuni passaggi, prima di tutto a livello di arrangiamento. Poi in generale la parte “teatrale” dello show sarà rifinita come mai in passato: la pedana, le proiezioni, alcuni elementi scenografici come l’uso del fumo… Abbiamo riguardato attentamente cosa secondo noi poteva essere migliorato e ci abbiamo lavorato sopra.
(foto di Virginia Bettoja; continua sotto)
Questo è un punto interessante, allargando l’obiettivo. Quello che intendo dire è che oggi davvero i concerti sono diventati un insieme di cose, si va al di là della musica: e non per gli intenti sinestetici di Debussy, o magari non esclusivamente per quelli, ma semplicemente perché il mercato impone concerti sempre più spettacolari: luci, visual, effetti speciali, spazi semoventi… Se uno guarda i concerti dei grandi gruppi negli anni ’60 e ’70 – e parlo proprio di star planetarie – fanno tenerezza: un palco, gli strumenti, gli ampli, la band, giusto due luci in croce. Stop. Questa spettacolarizzazione del live oggi onnipresente è una evoluzione da cui non si tornerà più indietro, o è una bolla momentanea?
Credo sia una evoluzione da cui non si tornerà più indietro. Anzi: siamo noi in Italia che siamo arrivati un po’ più in ritardo rispetto agli altri. Quello che oggi fanno Elodie o Madame, con spettacoli molto elaborati e d’impatto, è qualcosa che nel pop mondiale c’è da tempo. Per me è un bene che anche in Italia finalmente si dia valore allo show, in tutte le accezioni che può avere. È entertainment in fondo, no? Il che però non significa che questo e solo questo sia l’unico modo per fare le cose. Anzi, proprio andare in contrasto può dare vita a qualcosa di significativo: io per primo col prossimo tour voglio andare davvero “al centro delle cose”, rendere cioè tutto più spoglio e minimale.
…che però è uno “spoglio e minimale” che assume un senso diverso, nel senso che viene messo come contrapposizione e confronto dialettico con una fase storica dove appunto predominano lo spettacolo e la grandeur. Aggiungo un altro elemento sul piatto: la scena da elettronica più dura e pura, quella che citavamo all’inizio, è molto polemica verso il pop, i lustrini, le luci, la techno che diventa melodic, l’EDM, l’uso ed abuso da social, eccetera eccetera, e va bene; ma dal canto suo mi sembra che da anni, a parte appunto le derive pop e di maggior successo, non abbia saputo elaborare niente di nuovo e/o di capace di attirare in modo consistente nuove generazioni di pubblico. I ragazzini ascoltano la trap e l’indie, non la house. Di nuovo: è una mia opinione questa, non qualcosa che ti voglio mettere in bocca…
Ne avevamo già parlato di questo noi due, vero?
Mi sa di sì.
Non posso che ripetere che mi sembra che in certi ambienti sia diventato tutto molto una ricodifica del passato: anche un Fred Again, per dire, che è uno dei nomi più freschi e creativi oggi ed è molto bravo. Ma pure lui non si inventa nulla di nuovo: riprende alcuni elementi già fortemente codificati – Burial, per dire – e li rimodernizza giusto un po’ immergendoli nelle correnti contemporanee più in voga. Forse l’ultima grande cesura c’è stata con l’avvento di Arca – assieme a lui si sono aperte prospettive interessanti e scene innovative. In generale però sono anni che si sta solo percorrendo ciò che è già stato esplorato, giusto ricombinandolo. Lo scossone potrebbe arrivare, ancora una volta, dalla tecnologia: non so se l’avvento dell’AI porterà ad una creazione o associazione di schemi che noi umani al momento nemmeno riusciamo ad immaginare. Ma non è detto che succeda. E poi, scusami se la butto sul romantico, io continuo a credere che quei 21 grammi – quello che è considerato da molti il “peso dell’anima” – faranno sempre e comunque la differenza. L’intelligenza artificiale ti può offrire nuovi e più complessi elementi ed associazioni, ma poi è la regia dell’essere umano e la sua creatività ad assemblarli, nel momento in cui vogliamo qualcosa che sia davvero incisivo, innovativo, rivoluzionario. Qualcosa che torni insomma a creare stupore. Però in effetti ora come ora faccio davvero fatica ad immaginare qualcosa che riesca ad arricchire in modo serio e sostanziale la “palette di colori” che nell’elettronica già possediamo.
Hai mai avuto dei momenti di crisi creativa? Perché tra lavori solisti e la tua quasi ubiquità come produttore pop…
…quest’ultima ora la diminuisco decisamente.
Ok, perfetto. Sta di fatto che nell’arco di un decennio tra album tuoi e produzioni per altri hai comunque una produzione davvero impressionante, basta dare un occhio alla tua pagina Wikipedia. Hai mai avuto dei momenti di stanca, o magari di vero e proprio rigetto, come effetto dell’iperprolificità?
Come produttore per altri, sì: mi è venuta una certa noia nel farlo. Allora, io non volevo affrontare questo argomento, visto che è stato lui a tirarmici in mezzo…
Cioè?
…ma quando Morgan pensa di criticare la canzone di Annalisa dicendo che è troppo semplice, da un lato dice una cosa facilmente criticabile anche solo guardando alla storia della musica pop, guardando alla “Canzone del sole”, ai giri di do di Gino Paoli, e di esempi se ne potrebbero fare infiniti; dall’altro però solleva una questione che ha un suo perché. Perché è vero che nel pop odierno si tende ad avere un approccio molto basico, essenziale, minimale. Il che non è un male, sia chiaro. Ma uno come me, che è cresciuto studiando ed ascoltando il jazz e la classica, ad un certo punto può iniziare a sentirsi un po’ frustrato nel non poter mai usare certi tipi di complessità, visto che nel pop giustamente si lavora in team, e tu comunque sei al servizio di altri.
Già.
Insomma, lavorare nel pop significa lavorare in contesti in cui i range di possibilità espressive sono molto ben definiti. Considerando che ultimamente pare non si possa esplorare granché, è diventato qualcosa che non mi attira particolarmente. A volte insomma lì ho iniziato a sentirmi un po’ in gabbia, lo ammetto. Non per altro, ma proprio perché non ho la possibilità di mettere in pratica tutta una serie di soluzioni che invece di mio vorrei esplorare. Quindi già avevo iniziato a prendere molte meno committenze, in questo contesto; poi però è venuta fuori “Cenere” di Lazza e di nuovo finisco considerato nel Gotha dei top producer, uno di cui non si può fare a meno… Ma se guardi bene, da quel pezzo poi non è uscito più nulla, come produttore.
Ma sono gli artisti che hanno paura e non hanno abbastanza personalità, o è tutto ciò che gira attorno a loro che preme affinché non facciano mosse – come dire – strane, sperimentali, avventate, eccentriche, troppo creative…?
In Italia, se le cose te le vai a cercare andando più nell’underground, trovi un sacco di persone che osano, si prendono dei rischi, cercano soluzioni non convenzionali. Ma è un circuito che oggi, agli occhi del pubblico, sembra quasi non esistere. Anche perché spesso lui stesso si rifà a modelli stranieri, venendo così in automatico percepito come “distante”, elitario. Mentre dall’altro lato ciò che è un po’ più italiano e “popolare” sembra quasi che obbligatoriamente non debba rischiare più di tanto, non debba uscire da un certo tipo di seminato già abbondantemente collaudato e codificato… È un peccato.
Ma succede solo da noi in Italia?
Succede anche all’estero. Ma…
…ma?
Ma non tanto come qui da noi. A me pare che l’italiano sia diventato mediamente molto meno curioso di quanto potrebbe, e dovrebbe, esserlo. Guarda anche quelli che mi vengono a vedere dal vivo, perché mi hanno visto nei credits delle robe urban: io lo vedo che molti di loro, quando mi vedono salire su un palco e suonare solo su un pianoforte, restano sconvolti. Cioè, non capiscono proprio cosa stia succedendo. Questo perché ad oggi hanno vissuto solo in un’unica bolla, quella urban; e d’altro canto da quel tipo di roba lì sono stati letteralmente bombardati, quindi non riesco nemmeno a fargliene una colpa particolare. Ma il problema è che oltre a non capire, quando una volta sono capitato in un contesto in cui il pubblico era essenzialmente solo di quel tipo lì è partita quasi della derisione, dello scherno. Capisci? Non è insomma minimamente scattata la curiosità del “Ma questo che fa? Cos’è ‘sta cosa? Proviamo a sentire…”. No, c’è stata l’ostilità e il disinteresse proprio preventivo. Se a questo poi aggiungi il fatto che lo span di attenzione ormai si è ridotto a un minuto, un minuto e mezzo, e che passata quella soglia sono di nuovo tutti a scrollare sullo smartphone… Ognuno è libero di fare quello che vuole, ovviamente: ma possibile che non ci si renda conto che a fare così si perdono delle cose? Perdi delle emozioni, perdi delle sensazioni, perdi della cose nuove che potresti imparare, perdi delle cose che ti potrebbero in realtà piacere. Se provi a fare un brano strumentale di quattro minuti, queste persone cresciute con la urban hai la quasi totale certezza di perderli…
E a te dispiace? Vorresti invece raggiungerli?
No.
No?
No. Nel senso: per me non è un’urgenza. Dico solo che è un peccato per loro, così come è un peccato per tutti coloro che hanno difficoltà ad approcciarsi ad una figura atipica come il sottoscritto. In Francia una figura esattamente identica alla mia, uno che faccia da produttore pop ma che poi da solista si metta a fare musica strumentale di un certo tipo, raccoglie un’attenzione che è il triplo di quella che raccolgo io in Italia. Perché in Francia si può fare, e c’è gente incuriosita proprio dalle tue anomalie, e da noi invece no? Me la dai tu una risposta?
Me lo stai chiedendo perché non te ne sei ancora data una tu?
Non lo so. Ma quanto ti ho appena raccontato è un ragionamento che mi è arrivato proprio da alcuni amici francesi, non è in origine mio. Sai cosa mi hanno detto? “Siamo stanchi dell’Italia. Perché l’Italia ha smesso di essere un popolo curioso”. Quello che ti posso dire è che sì, i francesi ancora oggi sono maledettamente curiosi.
Infatti non a caso è più facile che un cantautore italiano raccolga interesse in Francia – penso a Motta, Calcutta, Colapesce – mentre il contrario è praticamente oggi impossibile.
Vedi? Allora forse non mi hanno detto una fesseria…
Purtroppo.
Purtroppo.