La prima volta che un report sul Tomorrowland apparve su queste pagine, fu dodici anni fa. Un 2012 in cui del festival belga in Italia si parlava relativamente poco (era un best kept secret per addetti ai lavori dai buoni contatti e dalla mentalità aperta). Da noi infatti era il periodo dell’egemonia minimal-tech-house. Un’egemonia che proprio la musica di stampo EDM che era ed è l’architrave del Tomorrowland avrebbe progressivamente spazzato via. Sì: perché un tempo avevi la certezza che chiamando Hawtin, Villalobos, Luciano, Sven Väth, Loco Dice e tutti i loro epigoni minori (minori per fama, o per talento, o per entrambi) avresti sbancato, avresti messo su una serata o un festival in grado di guadagnare con enorme facilità ingenti somme di denaro, perché loro – e solo loro, ed i loro simili – erano i nomi in grado di attirare le folle vere. Loro; non le fighetterie soul-jazzy che piacciono agli intellettuali, le preziosità IDM-acid che piacciono ai rimastoni anni ’90, le robe techno crasse che piacciono ai tamarri sporchi e luridi, o questa novità EDM che piace solo a due sciampiste per il resto è un fenomeno di quegli ignorantoni degli americani. Loro.
Quanto acqua è passata sotto i ponti, vero?
Proprio quando i suddetti nomi e la suddetta scena hanno suggellato il loro status di “re assoluti”, è iniziata la discesa. È iniziata la discesa loro, che impigriti dai complimenti e dai successi “scontati” hanno iniziato a suonare male e/o col pilota automatico, con la conseguenza che il pubblico prima ha continuato ad essere numeroso ma a divertirsi sempre di meno (…ma non lo si poteva dire: sei all’evento con “il” dj del momento, non puoi mancare né una volta lì puoi dire che non ti stai divertendo, altrimenti passi per sfigato) e poi, a furia di divertirsi di meno, ha iniziato direttamente ad esserci sempre di meno, è iniziato a scendere pure lui. Tutto questo mentre i cachet degli artisti in questione (ripetiamo, non parliamo solo dei testé nominati, ma di tutta quella scena lì) non calavano, oh no, anzi, in qualche caso aumentavano. Perché appunto c’era la convinzione si trattasse dei re del mercato, di quelli che funzionano davvero, degli unici che facevano guadagnare davvero chi li chiamava.
Ad un certo punto le serate coi grandi nomi techno, house, minimal nel primo decennio degli anni 2000 hanno preso ad essere serate dove la gente era magari ancora numerosa, numerosissima, ok, ma non si divertiva più. Non ballava. Gli addetti al settore che lucravano su questa onda non si preoccupavano però mica: tanto all’inizio gli incassi erano pingui e i guadagni saldi. Quindi chi se ne frega se la gente non balla, se la gente è pigiata in pista ma fa finta di divertirsi solo per amor di firma (e per non ammettere a se stessi di aver preso una sóla); i soldi girano, girano tanti, e sono tutti contenti.
Attorno al 2010 eravamo messi così. Anche fino al 2015.
Tutta la classe dominante techno/house/minimal è stata spazzata via dall’EDM da un lato, dalla techno veloce e ragazzina dall’altro e, in mezzo, anche dalla crescita della musica da dancefloor più jazzy e sofisticata e dalle contaminazioni col mondo dei live veri e propri. Esiste ancora questa classe, per carità, ma non è più al primo posto. Dieci, dodici anni più tardi guadagna un quinto rispetto ad allora a serata, a Ibiza e nei grandi centri di potere dell’industria non conta più granché. È un peccato, eh: perché dentro ci sono ancora talenti immensi – uno su tutti, Sven – ma è anche vero che se l’è cercata. Sì. Se l’è cercata. Perché ad un certo si è adagiata artisticamente, imprenditorialmente, umanamente sugli allori.
Convinta che il suo regno sarebbe durato per sempre.
Sicura che anche se era diventato tutto più una macchina da soldi che una macchina da divertimento, le cose sarebbero andate bene comunque all’infinito, tra jet privati, ristoranti esclusivi, vita brillante, guadagni per tutti.
Se la gente si diverte meno, pazienza; l’importante è che continui ad essere tanta, e pagante. In fondo il popolo è bue, e lo vedi che gli piace ammassarsi.
No?
Fra le cause per cui centinaia e centinaia di festival stanno chiudendo nel mondo ci sono non solo le ingordigie ormai disgustose degli artisti e dei loro management, ma anche il fatto che si sottovaluta l’importanza di un divertimento del proprio pubblico che sia sincero, viscerale, non influenzato dall’”aura da social”, non influenzato dalla mera abitudine
Il popolo è effettivamente bue, sul breve periodo. Ma su quello medio-lungo, non è invece scemo. Eh no. Ad un certo punto inizia a punirti. Ad un certo punto inizia ad allontanarsi. A furia di spendere soldi su soldi per non divertirsi davvero (magari anche solo perché non c’è più l’effetto-novità, o perché cresce l’assuefazione), ad un certo punto migra altrove.
…stiamo facendo tutto questo discorso perché la nostra visita all’edizione 2024 del Tomorrowland (solo per un giorno, ma è stato un giorno lungo e intenso, preceduto anche da interessanti chiacchiere con vari insider molto qualificati) è stata, come dire?, strana. Da un lato abbiamo visto un festival che, rispetto al 2012, è cresciuto a dismisura: non tanto nei numeri, quelli erano enormi già allora, ma in una tutta una serie di aspetti logistici. Tipo la qualità dei palchi, gli allestimenti logistici della gigantesca area di Boom dove il festival si svolge dove ora tutto è asfaltato e non c’è più la fanghiglia coperta da segatura, i servizi allo spettatore (si mangia benissimo, per dire), la ricchezza complessiva dell’esperienza (con upgrade in ogni singolo aspetto, a partire dal campeggio). A Tomorrowland stanno facendo tutto bene, benissimo; il fatto che vadano sold out con 450.000 biglietti venduti in pochi minuti (…e richieste per oltre due milioni!) non li ha impigriti, continuano a domandarsi internamente su cosa fare per migliorare, su quali aspetti sono da implementare, e fanno anche scelte molto intelligenti. Ad esempio, alla nostra domanda in una conversazione privata su come mai i prezzi dei biglietti – a fronte di una domanda così sterminata – non siano cresciuti a dismisura, la risposta di un grado alto dell’organizzazione è stata: “Perché ci siamo accorti che il nostro pubblico stava invecchiando. Alzare ulteriormente il prezzo dei biglietti avrebbe ulteriormente accelerato questo processo, che invece vogliamo assolutamente evitare, visto che vogliamo durare nel tempo e questo riesci a farlo solo se continui a conquistare le nuove generazioni. Ecco allora che abbiamo in parte bloccato il prezzo d’ingresso e abbiamo anche varato delle corsie di prevendita preferenziali per gli under 22”. L’abbiamo trovata una risposta bellissima. Un riassunto perfetto del perché il Tomorrowland è diventato il numero uno dei festival al mondo.
(Il Main Stage di questa edizione 2024; continua sotto)
C’è però una cosa su cui il management del Tomorrowland deve stare attento.
Non sappiamo se è per la diminuita qualità (o senso di novità) della musica proposta, o se perché il successo planetario e diremmo proprio iconico del Tomorrowland ha portato fra il pubblico ad una percentuale troppa alta di presenzialisti da Instagram a rimpiazzare i veri appassionati di musica (…ehi, ciao Caochella!, sì, ci riferiamo a te…), sta di fatto che dodici anni dopo al Tomorrowland abbiamo visto sì più gente, sì cose bellissime e goduriose a livello di allestimento, ma molto, molto, molto meno divertimento fra le persone.
Non si balla, si guarda. Non si urla euforici, si sorride composti. Non ci si immerge nella musica, si pensa alla migliore angolazione per la camera dello smartphone. Non si esulta per la musica, si assiste cordialmente e compostamente passivi, alzando ogni tanto le braccia solo per onor di firma e solo quando aizzati dai dj di turno, ormai rassegnati in molti casi a dover fare ogni cinque minuti da hype men, per tenere viva l’atmosfera. La gente presente è ancora contentissima di essere al Tomorrowland, eh, per carità, ci mancherebbe. Come potrebbe non esserlo, del resto: già riuscire a mettere le mani sul biglietto è, come dicevamo, una piccola impresa, quindi figurati se non sei contento e fiero di essere lì, in un posto dove tutto è fatto per strapparti degli “Oooh” di meraviglia. Ma se il nostro sesto senso non ci inganna, il divertimento reale e viscerale che c’era dodici anni fa oggi si è spento.
(Swedish House Mafia al Tomorrowland 2024: un successo annunciato, ma onestamente non un trionfo indimenticabile; continua sotto)
Va riacceso.
E per riaccenderlo, bisogna partire dalla musica (…anche perché il resto, a Tomorrowland, è già davvero allo stato dell’arte, magari un po’ troppo stucchevole, ma comunque stato dell’arte).
Ma nel farlo, bisogna rendersi conto che l’arma buona&infallibile del suonare solo le grandi hit non produce più gli effetti di prima. Eh no. A forza di continuare a farlo, l’audience è sempre meno stimolata, sempre meno reattiva, sempre meno coinvolta. È il problema della sovrastimolazione, qualcosa con lui l’EDM sta facendo i conti e con cui farà i conti molto a breve anche la scena hard techno più commercialmente forte e potente: a furia di suonare solo grandi successi o solo grandi “bussi”, si dà al proprio pubblico una dose talmente da cavallo di “instant satisfaction” che dopo un po’ inizia a non funzionare più, a non avere più particolarmente effetto. E lì iniziano i casini.
Non subito, eh. Perché c’è sempre una fase di transizione in cui il pubblico non si diverte più come prima, ma per vari motivi – abitudine, omologazione, conservatorismo, paura del nuovo, cento altre cose ancora – continua ad affollare i “soliti” eventi, ad adorare le “solite” realtà e a seguire sempre e solo la “solita” musica. Però la mancanza di divertimento, il ciondolare invece del ballare, il postare su Instagram invece del sognare ad occhi chiusi, sono le prime crepe, i primi segnali, quelli di cui poi quando arriverà lo smottamento vero te ne ricorderai.
Sì. Noialtri del pubblico siamo dei buoi. Ma occhio: non lo siamo in eterno. Prima o poi la ruota gira. E i buoi si ribellano.
Il Tomorrowland ha tutti i mezzi economici e di intelligenza gestionale per saper invertire la rotta. Ed in effetti guardacaso ha ripreso a mettere un po’ di focus su dj che suonano davvero, non solo su quelli che muovono le mani in aria e suonano solo-grandi-successi. Sono ancora una parte minore del programma, ma iniziano a tornare, dopo che invece per anni si è scelto la via della spettacolarizzazione pura, via su cui – sia chiaro – si è consolidato lo status di culto globale del festival. Però ecco: ogni ricetta ha la sua stagione, e nulla funziona per sempre.
(Palchi e pirotecnica ad ogni modo ne abbiamo? Continua sotto)
Altri grandi festival (Ultra, Coachella, giusto per citare i più famosi) stanno iniziando a soffrire seriamente. Ma in generale fra le cause per cui centinaia e centinaia di festival stanno chiudendo nel mondo (un centinaio nella sola Inghilterra, quest’anno) ci sono non solo le ingordigie ormai disgustose degli artisti e dei loro management – come abbiamo scritto più volte e come ancora scriveremo – ma anche il fatto che si sottovaluta l’importanza di un divertimento del proprio pubblico che sia sincero, viscerale, non influenzato dall’”aura da social”, non influenzato dalla mera abitudine. Nella stagione d’oro in cui i festival ma anche le serate da club erano sempre pieni, ci si è sempre accorti troppo tardi – quando cioè il processo di smottamento era già iniziato silenziosamente – che il proprio pubblico non si stava divertendo più come prima, ma iniziava a farlo per abitudine… e poi proprio a non farlo più.
Un tempo una data di Sven Väth in Italia era un evento da diecimila persone, ora spesso suona in posti dalla capienza che è un decimo. Il paradosso è che oggi Sven suona molto meglio di quando suonava di fronte ad arene da diecimila persone piene fino all’orlo. E lo stesso, a cifre magari un po’ diverse, vale anche per molti dei nomi che abbiamo nominato ad inizio articolo. O per fare un esempio di casa nostra, pensiamo al più grande di tutti: Claudio Coccoluto. Rileggetevi questa chiacchierata pazzesca, anch’essa del 2012, l’anno del nostro primo report sul Tomorrowland. Negli ultimi anni della sua vita, Claudio è stato in totale stato di grazia artistica, con dj set di una qualità e ricercatezza assolutamente incredibile; eppure sul mercato valeva un quinto se non un decimo rispetto agli anni d’oro. Lui aveva avuto l’intelligenza di capire che gli “anni d’oro” erano in parte un’illusione ottica, in parte una bolla speculativa; e il fatto che la gente non capisse abbastanza che dj incredibile fosse dal 2015 circa in poi, era una conseguenza dei troppi anni di “successo facile” su cui lui per primo non si era tirato indietro (…e lo capiamo: nessuno si sarebbe tirato indietro!). Questo lo sapeva benissimo. Ne avevamo parlato di persona chissà quante volte, in conversazioni bellissime – ogni conversazione con Claudio era un tesoro, anche perché lui per primo evitava i luoghi comuni che colpivano i suoi fan storici, quelli che “Ora è tutta una merda, prima sì che c’era la qualità” (“Quanti errori invece abbiamo fatto quando le cose ci andavano sempre bene”, spiegava Claudio, con rara lucidità).
Non possiamo pretendere da tutti gli artisti una sensibilità e una intelligenza come quella che aveva Coccoluto. È stato un uomo più unico che raro, Claudio. Però ecco: farsi una pensata su come spesso il momento di maggior successo possa essere quello più critico, quello in cui è più facile impigrirsi e porre quindi le fondamenta per un declino successivo, potrebbe essere un esercizio sano per molti. Artisti, agenti, promoter. E pubblico, anche: perché ricordiamocelo, il giudice finale siamo sempre noi pubblico. Sempre. I verdetti arrivano in differita, perché siamo pigri, perché siamo abitudinari, perché in fondo andare controcorrente ai più di noi fa un po’ paura, ma alla fine i giudici siamo noi, i verdetti li stabiliamo noi.
Noi, e il nostro divertimento più sincero. Quello da Instagram e/o quello da abitudine ed omologazione, invece, è solo un succedaneo che difficilmente passa il test del tempo. Prendete nota.
Ecco perché abbiamo imparato a guardare non solo ai numeri, ma a quanto la gente si sta divertendo davvero. Perché è questo, non i sold out o i dischi d’oro e di platino, a darti una mappa più precisa verso il futuro.