Diversi anni fa, quando Dan Snaith si faceva ancora chiamare Caribou e non si era ancora scelto un alias per le sue scorribande più clubbarole, mi è capitato di passare diversi giorni con lui in tour in giro per l’Italia.
Dopo il successo di “Swim” avevano cominciato a fioccare le richieste per i suoi dj set e il nostro paese, al netto di qualche cosa sporadica in Inghilterra, magari in qualche show radiofonico o nei party organizzati da Four Tet e James Holden, è forse stato il primo a ospitare una sua tournée da dj quando il mestiere del mischiatore dei dischi era solo e soltanto un hobby.
Di quei giorni, molto belli a dire il vero, ricordo particolarmente i lunghi spostamenti in treno e una serata indimenticabile organizzata dai ragazzi di Dancity in un club di Foligno che altro non era che il sotterraneo del ristorante dove avevamo cenato. È stato durante la cena che, più o meno dal nulla, Dan mi ha fatto questa domanda: “Ma è vero che Lucio Battisti per voi italiani è come i Beatles per gli inglesi?”
Non avevo mai pensato seriamente alla cosa, ma la risposta venne fuori immediata e spontanea: “Sì!”.
D’altronde i dischi di Battisti, almeno un disco di Battisti, sono presenti nelle case del 90% delle persone che conosciamo. Molte volte si tratta di un’eredità acquisita, altre di una scoperta personale, ma sempre e comunque totalizzante.
Le canzoni di Lucio Battisti, soprattutto quelle del periodo con Mogol (per ovvie ragioni), fanno parte del nostro bagaglio culturale e hanno un posto nella vita di ognuno di noi anche se non ne siamo del tutto consapevoli.
Battisti è la memoria condivisa, un ricordo indotto, una presenza costante che è diventata immortale proprio grazie all’assenza, nell’assenza.
Nel corso di quella discussione finimmo quasi immediatamente a parlare de “Il Veliero”, una delle canzoni contenute in “La batteria, il contrabbasso, eccetera“, l’album del 1976. “C’è un brano di Battisti che ogni tanto mi piace inserire nei dj set”, disse Dan e senza neanche il tempo di fargli finire la frase e già l’avevo indovinato. “Il veliero”.
A colpo sicuro. Senza neanche tentennare un secondo.
Anni dopo mi ha confessato di non averla voluta più suonare dopo quella sera.
“Pensavo fosse una rarità, ma ho capito che forse era una scelta fin troppo scontata”.
La carriera di Battisti si può riassumere attraverso la lente di alcuni dei suoi più grandi amore musicali: la psichedelia beat di Jimi Hendrix, in primis, faro abbastanza indiscusso per la produzione battistiana dei primi anni settanta, il soul di marca Motown e la disco music (poi trasformata in un ibrido strano e inafferrabile, e forse per la prima volta nella sua carriera davvero originale, durante tutto il periodo della collaborazione con Pasquale Panella).
In poche parole: la black music. La storia della black music.
Nella seconda metà degli anni settanta, cioè nel periodo in cui “Il veliero” è stata composta, la disco si stava evolvendo in un qualcosa di diverso.
Meno sfarzoso, più “dritto”, asciutto quasi.
Battisti, che di fatto è sempre stato un ottimo “trovatore”, cioè un musicista capace di intercettare le cose che stavano accadendo intorno a lui e trasformarle in qualcosa di personale, perde letteralmente la testa per quei suoni e comincerà un percorso che lo accompagnerà fino alla fine del suo sodalizio con Mogol e che proprio dalla disco music prende le misure.
“Il veliero” è una testimonianza perfetta di quel momento storico: un brano innovativo, forse davvero in anticipo sui tempi, premonitore di quello che sarebbe stato poi il futuro di certa musica legata al ballo, ma pure perfetto per rappresentare lo spirito di quello che stava accadendo all’epoca.
A partire dalla parte di chitarra ispirata senza mezze misure da “Soul Makossa“, capolavoro afro-rock uscito giusto qualche anno prima.
Sulle session da cui è scaturita ci sono un sacco di leggende, le prime riguardando alcune frasi dette da Battisti durante le registrazioni e poi finite nel master finale. La più celebre di tutte riguarda una cosa che succede intorno ai quattro minuti e cinquantadue secondi. Se si ascolta la canzone con attenzione è possibile udire Battisti dire una cosa a bassa voce ai suo musicisti.
Sul senso di quella frase si è scatenato un pandemonio pari a quello dei messaggi satanici nelle canzoni dei Led Zeppelin.
Perché in quel’ “avvicinatevi alla macchina”, un probabile invito a seguire il groove guidato dai sintetizzatori, in tanti hanno voluto sentire un bizzarro quanto inquietante: “Avvicinatevi alla patria!“. Un messaggio eversivo e al tempo stesso reazionario e che ha contribuito ad alimentare il mito di Battisti militante fascista. Altre parole che vengono fuori dalla registrazione sono: “Le luci”, al minuto uno e trentanove e poi una trentina di secondi dopo, e: “Avanti!”, segno che forse stava parlando proprio di andare a tempo senza invitare nessuno a dare il vita a una nuova Marcia su Roma.
Quando “La batteria, il contrabbasso, eccetera” viene pubblicato, trainato dal singolo “Ancora tu“, “Il veliero” non è certamente tra le canzoni a fare immediatamente breccia nei cuori del pubblico battistiano.
Diventerà un culto assoluto qualche anno dopo, nel 1982, quando una cover realizzata da un’oscura band olandese – The Chaplin Band – comincia a venire ballata nei club di tutto il mondo.
Rispetto alla versione originale il groove è ancora più asciutto e il beat è in primo piano, meno sfarzoso, più dritto e sintetico. Perfetto per la pista e per le borse dei dj da cui, da quel momento, non uscirà mai più.
Pubblicato su vinile 12”, “Il veliero” diventa il singolo più di successo mai realizzato dalla Chaplin Band. E chi lo avrebbe mai detto.
Una specie di oscuro tesoro che ancora turba le notti degli appassionati cercatori di vinili su Discogs, dove in realtà da qualche tempo si trova anche a prezzi contenuti.
È dell’anno dopo un’altra versione, appartenente al catalogo della Numero Uno, la label di cui Battisti era co-proprietario e direttore artistico, realizzata dal produttore Giancarlo Meo, con l’alias Lama, probabilmente proprio per succhiare la scia del successo internazionale della Chaplin Band.
Il territorio in cui ci muoviamo ora è proprio quello della cosiddetta italo disco, di cui “Love on the Rocks” – nuovo titolo e riscrittura del (poco) testo in inglese – può a tutti gli effetti essere considerata un classico.
Qui il discorso già accennato per gli olandesi si fa ancora più serio, e “Il veliero” diventa un vero e proprio inno da club. I remix e gli edit della versione firmata Lama si susseguono rapidi uno dopo l’altro, fino ad arrivare ai giorni nostri dopo avere rappresentato una specie di prodromo della house music.
Perché: “Se non metti l’ultimo noi non ce ne andiamo”.
E l’ultimo di solito è sempre “Il veliero”.