Dopo essere stato rilasciato nel nostro Paese in collaborazione con la piattaforma multimediale Netflix, il film-documentario sulla vita di Steve Aoki si è lasciato alle spalle un’innumerevole sequela di chiacchiere internettiane e polemiche sterili, incentrate principalmente alla scarsa fedeltà con cui certe parti sono state trattate. Andando ad incensare ed eccessivamente idolatrare una figura molto particolare e controversa che, in un modo o nell’altro, ha sempre fatto parlare di se. Dal canto nostro, l’unica cosa da fare è stata chiudere (idealmente) nella stessa stanza Federico Raconi e Jacopo Rossi, cercando di fare il punto della situazione e provando a confrontare le idee sorte dopo la visione di questo interessante lungometraggio. Ecco cosa è venuto fuori.
FEDERICO: Per quanto venga naturale trovare poca affinità fra ciò che ritengo sia l’idea originale di club culture e la percezione mutuata che il fenomeno EDM ha portato di fronte al grande pubblico, ho sempre trovato Steve Aoki come un fenomeno stand alone. Qualcosa che nel suo essere banale ha sempre avuto un appeal differente rispetto alla massa. Ricordo il nostro primo incontro nel 2008 all’Amnesia di Milano ad una delle serate WonKa, dove era ospite insieme ai The Bloody Beetroots. Era talmente lontano anni luce dalla figura classica del dj da dare paradossalmente l’idea di trovarsi di fronte ad una rockstar, più impegnato a bere vodka e fare stage diving che a mettere i dischi. La coerenza musicale, lo stile, la tecnica: niente di tutto ciò sembrava preso in considerazione, in favore di un’attitudine punk (magari di plastica, ma di grande presa) che ci mandò letteralmente in visibilio. Per inciso, ho a casa la sua maglietta di quella sera, che mi diede lui stesso. E la custodisco gelosamente insieme al ricordo di quel periodo, tra i più entusiasmanti che la scena milanese degli ultimi vent’ani possa ricordare.
La stessa sensazione l’ho provata guardando “I’ll sleep when I’m dead” ed in generale assistendo alle sue performance live in altre occasioni. Pur non trovando molto di cui vantarsi sotto il punto di vista della ricerca musicale, è inutile negare che Steve Aoki abbia portato la musica elettronica di facile consumo ad una sorta di “next level”, dove il dj diventa parte integrante dell’esperienza a tutti i livelli, non essendo più solo una figura che si vede da lontano ma qualcuno con cui interagire direttamente. Esattamente come una rockstar.
Prima di analizzare il film sarebbe bello discutere di questo. Jacopo, tu che sei un grande appassionato di trance (probabilmente il genere da cui l’EDM ha pescato maggiormente sia musicalmente che antropologicamente, visto che nomi enormi come Tiesto e Armin Van Buuren sono poi confluiti in quell’emisfero musicale) che idea ti sei fatto su questo così controverso fenomeno ed in particolare sull’approccio tutto particolare che è stato in grado di proporre?
JACOPO: Anche io ero un grande fan dei The Bloody Beetrots all’epoca e sempre attraverso la Death Crew 77 ho conosciuto Steve Aoki. Erano i tempi di Warp 1.9 e devo dire che quell’attitudine punk di cui parli, lì per lì, non mi era sembrata per nulla di plastica ma, al contrario, piuttosto sincera. Ero a cavallo della maggiore età, non mi importava tanto del background di un artista, delle influenze e di tutte quelle seghe mentali da giornalista musicale. L’importante era fare casino e Bob Rifo e Steve ne facevano eccome. Solo più avanti, scavando un po’ più a fondo nella vita di Aoki, anche più di recente attraverso il suo documentario, ho scoperto quanto quell’attitudine fosse assolutamente radicata in lui e quanto fosse esattamente ciò da cui proveniva.
Solo a vederlo suonare con le cuffie della Wesc tutte colorate (quelle sì che erano di plastica!) si capiva che con la club culture e con la dj culture seria e seriosa non aveva nulla a che spartire. Sembrava una rockstar prestata al mondo del djing (cosa che abbiamo scoperto poi essere effettiva), molto prima che tutti gli altri dj facessero le rockstar a loro volta, molto prima del mainstage del Tomorrowland, molto prima dell’EDM. Era una cosa senza dubbio affascinante, vista da sotto la consolle, nessun altro osava prendersi così poco sul serio e la musica che proponeva – così sporca e graffiante – rifletteva a pieno questo approccio. Esagerare è sempre stata una componente fondamentale della sua natura: prima con la vodka, le urla nel microfono e lo stage diving; poi con i drop EDM, i canotti gonfiabili, i trampolini e le torte in faccia. Credo che un filo conduttore tra il “prima” e il “dopo” ci sia eccome.
Però sono altrettanto convinto che di plastica Steve ci sia diventato in tempi più recenti, quando quella sua attitudine è stata esasperata nella direzione della spettacolarizzazione estrema e a tutti i costi. Difficile dire quanto naturale o quanto indotta sia stata questa – chiamiamola – evoluzione. Nel nostro ambiente è come se ci fosse una sottilissima linea di demarcazione che separa ciò che è goliardicamente sopra le righe, ma comunque accettabile fintanto che dotato di personalità e di fondamenta artistiche “legittime”, da ciò che invece è becero show business fine a se stesso. Direi che Steve Aoki è stato uno dei pochissimi in grado di passare da un estremo all’altro, di coprire l’intero spettro, ovviamente muovendosi nella direzione dello show biz. È una cosa da applaudire o da biasimare? Personalmente, vedere i ragazzini andare al festival di turno con i cartelli “Steve please cake me” mi fa un po’ storcere il naso, per essere eufemistici.
In una realtà come l’EDM poi, piuttosto standardizzata nei contenuti artistici nonostante abbia attinto a piene mani dalle influenze musicali più disparate (dalla house di Guetta all’electro del primo Steve Aoki stesso fino alla trance di Tiësto e Van Buuren) è naturale che una personalità così esuberante risulti un traino fortissimo per l’intera scena. Essere stato ed essere tutt’ora un pilastro su cui si regge tutto quel carrozzone che oggi è diventato il nuovo pop, può essere considerato un merito?
FEDERICO: Ottimo punto. Secondo me in gran parte sì, dovrebbe essere un merito. Possiamo certamente discuterne il fine ed i mezzi, ma non il risultato. Se oggi la figura del dj ha assunto un ruolo centrale (seppur lontanissimo dal suo spirito originale) nel mondo degli eventi di massa è anche perché ha portato una ventata d’aria fresca in una scena come quella americana capace di fagocitare in maniera lestissima ciò che le viene servito.
L’unica maniera per rimanere rilevanti è spingersi il più possibile oltre i propri limiti, dando sempre qualcosa di nuovo ai propri fan. In questo Steve ha avuto senz’altro una grande ispirazione dalla sua figura paterna, il miliardario proprietario dei ristoranti Benihama e grandissimo appassionato di sport estremi “Rocky” Aoki. Una storia pazzesca che io personalmente non conoscevo fino a che non ho visto il film e che molto probabilmente negli anni è stata tenuta lontano dai riflettori per evitare che a qualcuno scappasse qualche insinuazione riguardo all’essere un figlio d’arte raccomandato. Inutile negare che la scarsa presenza del padre abbia avuto un ruolo centrale nella crescita di Steve, salvo poi conferirgli un’irresistibile smania di imitazione che lo ha portato a diventare un fenomeno mediatico che non conosce sosta.
E proprio questo è un altro tema centrale del film: la vita sregolata e senza soste di un ragazzo che vive costantemente tra tour, studio, pubblicità e chi più ne ha più ne metta. Tematica per altro già recentemente toccata riguardo al ritiro dalle scene di un altro grande dell’EDM come Avicii. Ma soprattutto viene trattata la voglia di non darsi mai il tempo di prendere fiato, di sentirsi sempre sul filo del rasoio, di poter essere all’altezza del mito che era tuo padre. Anche se una volta conclusa la visione, francamente, resta il dubbio che questo tema sia particolarmente enfatizzato più per ottenere un buon risultato sulla pellicola rispetto a quanto potrebbe essere in realtà. Non credi?
JACOPO: Ti dirò, di elementi messi lì ad hoc, in maniera quasi propagandistica, secondo me ce ne sono diversi nel film. Dettagli probabilmente veri, ma che incastonati nel punto giusto e con la “luce” giusta contribuiscono a dare di Steve quell’immagine che il documentario stesso ha il compito di far passare. L’ho trovato molto “americano” in questo, a partire proprio dalla narrazione delle gesta di “Rocky” Aoki: un uomo straordinario che sembra essere l’incarnazione dell’american dream in tutto il suo splendore (ma anche in alcune sue ombre). Senza dubbio è stata una mossa intelligente non sbandierare troppo delle origini così ingombranti, tenendole quasi nascoste fino al momento opportuno. Come dici tu, se si fosse saputo di Rocky prima che Steve arrivasse all’apice del successo le dietrologie complottiste si sarebbero sprecate. Ora però capisco cosa intendeva Laidback Luke quando diceva che Steve non si è mai venduto, perché, essendo già ricco di famiglia, i soldi dell’EDM non erano la ragione per cui faceva musica. Questo mi fa credere ancora una volta che tutto sommato Steve sia una persona piuttosto autentica, tanto quanto autentico in fondo è il suo personaggio, anche se un’analisi superficiale potrebbe portare a pensare il contrario.
Per quanto riguarda il non fermarsi mai, che sia per necessità o per virtù, abbiamo già visto con Avicii quanto non sia uno stile di vita sostenibile sul lungo periodo. Non importa quanta dedizione al lavoro di retaggio giapponese scorra nelle vene di Aoki, sono convinto che prima o poi sarà costretto anche lui ad allentare la presa, a maggior ragione essendo uno di quelli che vive sempre al limite, se non addirittura un passettino oltre. Trecento show in trecentosessantacinque giorni sono un’esagerazione, roba da guinnes dei primati. È impressionante come riesca a tenere un livello di concentrazione altissimo in tutto ciò che fa, nonostante tutti gli impegni, lo stress e la pressione che ne derivano. Ora che abbiamo imparato a conoscere la sua fortissima inclinazione a non fermarsi mai, a spingersi sempre un passo più in là, mi chiedo dove questa spasmodica tensione potrà portarlo, sia sul piano musicale sia su quello dello spettacolo.
FEDERICO: La conclusione più semplice porterebbe a pensare ad un rapido ridimensionamento di un movimento ormai iper-saturo e musicalmente in una fase di stallo ed appiattimento, ma mai dire mai. Quel che è certo è che questo documentario resterà a raccontare come dietro tutto quel carrozzone di cachet milionari, palchi abnormi e vite sregolate non ci sono solo supereroi invincibili come tanti credono, ma spesso semplici ragazzi, finiti gambe e braccia dentro ad una vita che può facilmente masticarti e ed inghiottirti in men che non si dica. La realtà riguardo a quanto poi questo “I’ll sleep when I’m dead” sia fiction e quanto vita reale sarà sempre e comunque un’esclusiva delle persone che sono state e sono maggiormente vicine alla figura di Steve Aoki. A noi non resta che stare alla finestra e vedere come questa storia andrà a finire. Sperando che del giapponese resti vivo soprattutto il bel ricordo di quelle notti di tanto tempo fa quando le nostre strade si incrociarono.