Oggi Keith Flint avrebbe compiuto 50 anni.
La notizia dello scorso 4 marzo fa ancora male, moltissimo, quindi in questa giornata così particolare abbiamo deciso di raccogliere una manciata di ricordi preziosi legati alle gesta di un uomo che, oltre a impersonare l’essenza più pura dei Prodigy, è sempre stato tutto e il suo contrario, letteralmente incarnando, con il suo indimenticabile ghigno di sfida, l’euforia e il disagio esistenziale, l’eccitazione e lo sgomento. È morto l’uomo, rimane il mito.
Diciotto anni fatti da un mese e mezzo, il questore che obbliga i Marlene Kuntz a scendere dal palco, il parterre del PalaEur vuoto con sotto i celerini con gli scudi che impedivano di scendere. E poi il delirio, tutti che scavalcavano, gente che correva ovunque, la sensazione di partecipare a qualcosa di storico e pericoloso. Sulla porta della mia camera, a casa dei miei, c’è ancora il poster di questo concerto assurdo e surreale.
Emiliano Colasanti
Nel 2005 avevo ventuno anni ed ero al Flippaut Festval. Sul palco si alternavano Moby, Soulwax, Slipknot (!) e Chemical Brothers, eppure, più di ogni altra cosa, ricordo il ghigno che Keith Flint, a turno, rivolgeva a Keith Palmer e al pubblico, mentre Liam Howlett era piegato sulle tastiere. Fu devastante. Dicevi bene: “I’m the trouble starter, punkin’ instigator; I’m the fear addicted, a danger illustrated”, cazzo se dicevi bene!
La tracklist fu questa:
1. Wake Up Intro
2. Their Law
3. Wake Up Call
4. Warning
5. Breathe
6. Spitfire
7. Razor
8. Back 2 Skool
9. Firestarter
10. Action Radar Link
11. Mindfields
Encore:
12. Poison
13. Smack My Bitch Up
Maurizio Narciso
La prima volta che ho ascoltato i Prodigy sono rimasta tra lo scioccato, il meravigliato e lo spaventato, sensazioni che ho scoperto poi mi avrebbero accompagnata per tutti i loro live successivi a cui ho assistito. Forse non dei più famosi o dei più iconici del gruppo, ma conservo un ricordo davvero vivo di uno di questi: 2016, una serata di settembre all’Home Festival, dove i Prodigy si trovavano a condividere la serata con i Pendulum e i Modestep, con “Omen” in sottofondo, l’entusiasmo di chi assiste a qualcosa mai visto prima e una calca immensa, ipnotizzata dal carisma e dalla forza magnetica di Keith.
Francesca Bortoluzzi
Dopo i fuochi non fatui dei rave britannici di fine anni ’80, che fecero detonare davvero tutto quanto, il potere/potenziale politico della musica elettronica si spense progressivamente. Non si spense la qualità, per fortuna. Ma un fuoco “etico” si è andato svanendo, e oggi si trova solo qualche brace isolata in giro, molto underground (o troppo legata all’uso di sostanze). Forse l’ultimo grande atto politico di una act elettronico all’apice del successo, tolte le manifestazioni per il Criminal Justice Act, lo si deve proprio ai Prodigy. Che in una Serbia ancora embargata perché vista come prima responsabile delle guerre balcaniche in quel momento in corso (ma i responsabili erano i fascisti, i nazionalisti e i politici, che tenevano in ostaggio anche le persone belle della nazione), vennero a fare contro ogni buon senso e contro ogni suggerimento una data del tour che seguiva l’uscita di “Music For The Jilted Generation”. Pazzi. In Serbia non ci andava nessuno, da fuori. Nazione reietta, nazione pericolosa, in quel 1995. Loro se ne fotterono. Il risultato fu una data e-po-ca-le: per l’affluenza, per il significato politico – ridare speranza alla parte sana e controculturale della nazione, quella che non accettava di finire sotto il cappello dei fascionazionalisti e di quello schifo di Milosevic, e voleva invece mantenere il filo col mondo civile ed antagonista, non assopito al cianuro politico-catodico. Fu una data speciale anche per loro, per Keith, Liam e gli altri: regalarono la prima esecuzione dal vivo di “Breathe” (“The Fat Of The Land” era ancora al di là da venire), e anche molti anni più tardi se gli parlavi di Belgrado, beh, si emozionavano. Ricambiati.
Damir Ivic
1996: ho nove anni e mio fratello mi sta rasando i capelli in sala, davanti alla TV. Senza specchi a fornire conferma dell’avvenuto risultato mi dice “A posto” e mi presenta davanti a mia madre con una versione non colorata dell’acconciatura di Keith Flint in “Firestarter”. Con suo conseguente (quanto ragionevole) disdoro.
C’è stato un momento, almeno uno, in cui ogni cazzo di adolescente della nostra generazione ha sognato di essere quel pazzo che ondeggiava nelle fognature come una tartaruga ninja piena di ecstasy e Red Stripe.
Federico Raconi
La cosa più difficile sta nel trovare un ricordo nitido legato ai Prodigy e a Keith Flint. Di certo mi faceva paura o, se non proprio paura, mi trasmetteva una sensazione di disturbo, la stessa che ancora oggi provo quando vedo un clown, o quando mi parlano del Pret de Ratanà con cui mia nonna era solita terrorizzarmi. Era un’idiosincrasia, non saprei come altro definirla, amplificata dal momento in cui scelsi di provare valori e sapori di un cilindretto rosa ad un loro concerto credo al Rolling Stone di Milano ma il racconto non è questo.
Mi piace invece ricordare come per me fosse impossibile, credo per limiti tecnici, inserire un pezzo dei Prodigy in un qualsiasi dj set che pretendesse di chiamarsi tale e che avesse un andamento lineare e concettuale. Questo fino al 2007 o giù di lì, il periodo esatto non lo ricordo, potrei sbagliare di qualche anno, ma sicuro coincise con il periodo in cui suonavo indie disco, electro, nu disco o comunque quella diavoleria che tanto sapeva di centrifuga delle lavatrice.
Ricordo perfettamente che feci ascoltare alla mia amica Deborah “Girls” dei Prodigy remixata da Rex The Dog. Mi piaceva suonare musica in qualche modo sbruffona, mi piaceva chiamare il mio pseudo genere “rumble house” e questo pezzo, che personalmente era passato inosservato, aveva tutto per essere suonato: il cantato, la ritmica, la voce da donna pornografica e delinquenziale che ricordava “Silver Screen” ma più sbruffona. Fu la mia personale svolta, Deborah non ci mise molto a promuovere con un “tamarra ma ok e poi finalmente suoni i tuoi cari Prodigy” e in qualche modo omaggiare le mie paure con la hit peggiore che avevano sfornato e per di più un remix. Un’altra volta un’idiosincrasia, un’altra volta valutavo buono un qualcosa di cattivo e pessimo qualcosa di buono. Qualche anno dopo scoprì che Rex The Dog incideva per Kompakt, ma questa era già un’altra storia, per altro già raccontata.
Mirko Carera
Lo ammetto, ai Prodigy ci sono arrivato in ritardo. Precisamente nel 2000, tra gli scaffali di Ricordi ho scoperto “The Fat Of The Land”, un album bastardo di raveness e darkness che ha cambiato il corso della musica elettronica e che per me è stato fondamentale per un’infinità di ragioni. Da qui ho fatto qualche passo indietro per andare ad esplorare i loro inizi con “Experience” e “Music For Jilted Generation”, e restai di pietra dalla schiettezza della loro musica con le spine ma allo stesso tempo potente e così magnetica da non poterne fare più a meno. Grazie a dio nel 2010 ho avuto la fortuna di vederli dal vivo al Palasport di Acireale, un’esperienza così incredibile e ad esclusiva di qualche migliaio di siciliani che ancora oggi, quando per caso mi capita di parlarne con chi c’è stato, partono le scintille agli occhi per la consapevolezza di aver partecipato a qualcosa di storico e irripetibile. Un concerto che ancora oggi lo ricordo come se fosse stato ieri e che resterà dentro di me per sempre. Grazie The Prodigy, ciao Keith!
Ludovico Vassallo