Una risonanza mediatica equivalente a quella ottenuta nostranamente dal Festival di Sanremo, in questi giorni, è stata scatenata negli Stati Uniti dai Grammy Awards. Posto che, fra addetti ai lavori ed appassionati il commento più diffuso sia: “I Grammy ormai non hanno alcun valore!”, si permetta di obiettare che, detrattori a parte, aggiudicarsi un Grammy (al pari di un Billboard Award o di un AMA), continui a rappresentare una vetrina di visibilità mondiale di portata impressionante, acclamati fra l’élite musicale del momento. Ma la credibilità della competizione viene messa in dubbio, dove si cerca di individuare le ragioni di nominations poco coerenti o lasciando offuscare le vittorie da critica e pettegolezzo: piuttosto che analizzare dietrologie massoniche celate dietro ogni assegnazione o impiegare il proprio tempo a elencare chi avrebbe avuto più merito di chi a farsi fotografare sorridente esibendo un grammofono dorato, non si dimentichi che si sta parlando di un premio di massa.
Ciò premesso, sorge una contraddizione: se il premio è commerciale, sarà comprensibilmente uno specchio dei successi dell’industria discografica. Quel che vende di più, è più chiacchierato, fa tendenza, quel che all’unanimità passa il vaglio come prodotto vincente (nell’Olimpo recente, a confermare la tesi, i colossi Cardi B, Drake, Childish Gambino, Ariana Grande). Un assioma che dovrebbe trovare conferma matematica nei numeri ottenuti, prima ancora che nel giudizio di merito. Ma l’algoritmo, alcune volte, fallisce e dà luogo a risultati inaspettati, che sottraggono ulteriore affidabilità ad un evento già fonte di dibattito.
Il caso pratico che ci porta a discutere è la vittoria dei Justice nella categoria Best Dance/Electronic con l’ultimo album “Woman Worldwide”. Sì, avete letto Justice, e alzando gli occhi al calendario l’anno corrente non è il 2007, ma proprio il 2019. Un riconoscimento così anacronistico da far credere possibile un viaggio indietro nel tempo con la Delorean di “Ritorno Al Futuro”.
Anzitutto, è bene premettere cosa sia “Woman Worldwide”: l’ultima fatica di Xavier de Rosnay e Gaspard Augé si presenta come un remix del remix (del remix, del remix…), di una produzione che supera il decennio. Rispetto al “Woman” del 2016, il duo ha spiegato le forze nel catalogare e comprimere in una scaletta di quindici brani un’intera carriera, rielaborando sperimentazioni eseguite durante i live del tour che ha seguito il precedente disco ed i classici che li hanno resi noti al mondo. Mossa strategica giocata anche dai Daft Punk con “Alive 2007” (e ci sia perdonato equiparare per un momento i Daft Punk ai Justice, se non per il manager in comune), miscelando hit dei lavori passati durante un concerto dal vivo a Parigi. Fin qui tutto bene, praticamente ogni artista del pianeta ha riproposto in tale veste la propria attività, vuoi per gusto di revival, vuoi per ragioni di portafogli.
Il punto è che non si tratti neppure del primo album live dei due principi francesi, ma del terzo. Ad un anno dal debutto pubblicavano “A Cross The Universe”; nel 2013 – sei anni fa, non quindici – arrivava “Access All Arenas”. E se è vero che in “Woman Worldwide” vi sia la volontà di offrire altre interpretazioni ritmiche, strutturali e sonore, chi ha seguito i Justice dal principio non potrà non ammettere che cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia. Le deviazioni heavy metal e le manipolazioni indietroniche c’erano già alla loro partecipazione al Rock In Roma del 2012, non sono futuristiche variazioni sul tema. I Justice, anzi, meriterebbero che gli si intitolasse un genere tutto loro, ché quando li si ascolta è impossibile non riconoscerne sound e carattere, perché ciò in cui i Justice riescono meglio è proprio fare i Justice. Piacciono perché non esistono motivi concreti per cui non dovrebbero risultare gradevoli, ma non hanno innovato nulla e, da tempo, non presentano qualcosa di realmente diverso.
Premiare internazionalmente come migliore produzione dance un’opera estranea alla sua epoca, fa riflettere sul modo in cui venga effettivamente ad oggi intesa la musica elettronica. Cosa si intenda, persino, per musica elettronica e se abbia senso parlarne lì dove James Blake stenta a reinventarsi affidandosi a collaborazioni rap e Jon Hopkins (in gara con i Justice assieme a SOPHIE e Sofi Tukker), porta in giro per cinque anni lo stesso disco e lo stesso live riempiendo le date senza cambiare neanche i visual.
Perché non eleggere SOPHIE vincitrice, il cui debutto con “Oil of Every Pearl’s Un-Insides” è un trionfo indiscusso di visione e avanguardia (la sua “Immaterial” è risuonata nella notte del Dekmantel Selectors nel back-to-back tra Objekt e Call Super)? Perché provare a spendere come attuale una rivisitazione diacronica?
Nell’esempio dei Justice, sono state percorse infinite miglia evolutive dal boom della French Touch (e il riferimento non è diretto alle colonne Laurent Garnier, Cassius o Mr. Oizo): in cartellone non sono più onnipresenti i nomi Breakbot, Brodinski, SebastiAn. Quando si parla di techno, non si menziona a rappresentare il genere Gesaffelstein – che persino ai tempi aveva poco e niente a che farci. Nella musica, come in ogni settore, i fenomeni esplodono, godono di un periodo di massimo splendore e poi tramontano, ed è giusto che rimangano indietro quando la realtà attorno macina chilometri più veloce. I confini di quel che realmente si possa qualificare come elettronica, oggi, sono confusi, ma è dovere di chi è chiamato a rappresentare una giuria di qualità tentare il chiarimento o, quanto meno, non promuovere globalmente una retrocessione. C’è stato un momento per la Ed Banger Records e per i suoi eroi, collaudati esperti di funk e nu-disco, ma è un intervallo trascorso a cui guardare come a qualcosa che è stato, cristallizzato in tutte le sue caratteristiche, e più non è. Come a quel capitolo di storia senza la cui lettura non si giustificherebbero gli eventi a seguire, che però compongono il resto del libro andando avanti.