Il concetto di autorialità è uno dei grandi dilemmi che attanagliano chi scrive: ovvero, la ricerca di uno stile personale e di un punto di vista inedito rispetto agli argomenti. Che cosa si intende con “punto di vista autoriale”? uno sguardo critico, attento, contemporaneo e profondo rispetto all’argomento che si tratta.
Uno degli spunti di riflessione più interessanti in materia arriva da Daniele Manusia, il fondatore del magazine “L’ultimo uomo” (probabilmente la miglior pagina di commento sportivo in Italia), che in un’intervista recuperabile su YouTube parla della narrazione dello sport e di come lo sport in generale non sia necessariamente un argomento di discussione da bar di paese, ma anzi è piuttosto un elemento culturale con una sua propria dignità forte, e con le sue peculiarità – e quindi, come tale va raccontato. Senza addentrarsi ulteriormente nelle sue parole (per quelle rimando all’intervista nello specifico), questo ragionamento è adattabilissimo al genere che negli ultimi anni anche da noi ha dominato in lungo e in largo nelle classifiche, ma che ha ancora diversi problemi strutturali nella sua narrazione dominante: il rap.
Il rap, al di là della moda, ancora fatica molto ad attecchire ad un livello profondo nel Bel Paese. Tanti i motivi: scarso background culturale, è un genere giovane e nero in un paese di suo vecchio e bianco, i rapper nostrani sembrano spesso dei cloni senza arte né parte dei colleghi americani, eccetera eccetera. Risultato? Per questi e altri motivi, la delegittimazione è sempre dietro l’angolo.
Ma al di là di questo una parte della difficoltà che riscontra il rap nel prendere davvero piede al di là dei numeri su Spotify, sta anche nella narrazione che di esso viene fatta. Manca infatti spesso (non sempre) un racconto con un punto di vista autoriale. Sì. Che guardi agli artisti e alle canzoni come spunti per approfondimenti culturali veri; non una narrazione solo al grado zero, o quando va bene al massimo al grado uno, di mera cronaca o banale propagazione di dati di fatto già evidenti di per sé.
Tornando al paragone con lo sport, uno dei casi letterari degli ultimi anni, che ha interessato appassionati di tutto il mondo, è stato il romanzo “Open” di Agassi (se ne potrebbero citare altri, ma come detto “Open” è stato davvero un successo enorme). Per realizzare questo libro Agassi si è affidato a J. R. Moehringer (giornalista premio Pulitzer, non “suo cuggino“…), e attraverso un confronto e un lavoro pressoché congiunto si è arrivati alla stesura di un memoriale sportivo che travalica la semplice narrazione dello sport come forma di mero super-eroismo. Al contrario, “Open” è un libro che parla di tutte le difficoltà che lo sport professionistico porta con sé, di come le sconfitte siano più delle vittorie, e di come sia sempre più complesso superarle se alla crescita sportiva non segue una crescita personale. Chiaramente, quella biografia ha una scrittura incredibile, un soggetto iconico e una fonte intensissima da cui partire; ma ciò non toglie che la sua grandezza non risieda solo in questi tre aspetti, ma anche in un nuovo modo di raccontare il successo. Quante biografie rimangono invece ad un livello di narrazione superficiale e semplicistica? Quante autobiografie non sono altro che souvenir per tifosi e non dei veri libri di letteratura?
Senza arrivare al caso di “Open”, che (come detto) ha dietro di sé dei mezzi e delle possibilità totalmente fuori scala per la stragrande maggioranza degli appassionati che in Italia si occupano di rap, è però possibile immaginare di arrivare ad un punto in cui la narrazione del rap in Italia si ponga l’obbiettivo di raccontare davvero una “cultura“, e non solo un “fenomeno culturale“?
Perché è (anche) da questo che passerebbe il radicamento profondo del rap come genere musicale parte del patrimonio culturale, e non come la moda del momento dei ragazzi coi tatuaggi sulle mani e in faccia. Parliamo di una musica con oltre 40 anni di storia, che ha rivoltato l’immaginario globale come un calzino, arrivando anche in Italia, dove ormai è presente da più di 25 anni. Pare poco? Pare effimero?
Chi ha il privilegio di scrivere di rap, ha o avrebbe l’onere di trattare la materia con il giusto rispetto sia verso la musica stessa, sia verso chi legge. E in questo senso è imbarazzante vedere didascalie Instagram spacciate come articoli di approfondimento da parte di siti più o meno famosi, specialmente in un momento storico come quello attuale dove la necessità di scrivere news sarebbe in realtà in diminuzione (vista la molteplicità delle fonti, dirette come i social degli artisti e indirette come i mille siti e webzine che esistono), mentre mancano punti di vista critici ma anche appassionati alla materia.
Da qui la necessità da parte di coloro che desiderano scrivere e si approcciano al mondo del rap di diventare non solo contributor, ma degli autori veri e propri: quasi dei mediatori culturali, in grado di fare da filtro tra il fruitore finale e l’artista, contestualizzando e spiegando ciò che succede con un punto di vista personale e per questo possibilmente unico. Il mercato discografico è cambiato con l’avvento dei social e lo streaming; non si può pensare quindi che anche chi scrive rimanga ancorato ad un vecchio modo di porsi.
Il rap è storia, ecco; e per questo servono autori e scrittori che ne sappiano parlarne. Lo chiedono i tempi, lo chiedono le nuove dinamiche in campo.