L’estate scorsa eravamo stati a Perugia ad Umbria Jazz 4/4, ovvero la giornata dello storico festival jazz umbro completamente appaltata a Ralf come direzione artistica, con assoluta carta bianca. Fra gli artisti che volle con sé sul palco (oltre ad Ellen Allien, fra gli altri, o al gotha del jazz giovane italiano) su un nome fin dall’inizio non ammetteva discussioni: Juan Atkins. Questa cosa ci rimase impressa (come ci rimase impresso il set di Atkins: lui magari non è un sobillatore di folle come postura in consolle, ma la classe con cui crea i suoi set è ancora oggi assolutamente suprema). Ci rimase così tanto impressa che quando saltò fuori la possibilità, per Soundwall, di scambiare una chiacchierata con Atkins in persona ci parlammo fra di noi e ci dicemmo: “Ma perché non la facciamo fare a Ralf, questa chiacchierata? Non la solita intervista ma un confronto fra due artisti di spessore che, in qualche modo, parlano la stessa lingua?”. Ralf dell’idea è rimasto tanto entusiasta quanto emozionato. Ha sentito moltissimo il peso della responsabilità, ci sono stati lunghi carteggi fra di noi per capire come sfruttare al meglio questa occasione: per lui è stato un onore poter porre delle domande a Juan Atkins, potersi confrontare direttamente con lui, non voleva giocarsela male. E non se l’è giocata male. Anzi. Per noi infatti è stato ed è un onore poter ospitare una chiacchierata molto bella, con domande mai banali e risposte in cui uno dei pionieri assoluti della musica che tanto amiamo non è si è assolutamente tirato indietro. Uno splendido incontro al vertice.
Sbirciando tra le varie biografie che ti riguardano ho trovato molte notizie sui tuoi inizi come produttore e musicista ma non altrettante sul tuo approccio con il deejaying. Ti ho visto da vicino durante il tuo set ad Umbria Jazz 4/4 e, sinceramente, sono rimasto folgorato dal tuo gusto. Mi puoi parlare del tuo inizio dietro i giradischi?
Colui che più di chiunque altro mi ha ispirato è stato un dj di nome Ken Collier – il leggendario Ken Collier. Mi ricordo ancora adesso come fosse successo ieri: stavo ascoltando una stazione radio chiamata Disco WDRQ e all’improvviso sentii questo dj che mixava: prima, primissima volta che sentivo due dischi combinati tra loro, col ritmo che era perfettamente sincronizzato. Fu un’illuminazione. E mi dissi subito: io questa cosa qua la devo imparare! Il destino mi venne incontro: avevo un amico il cui zio faceva il dj professionista. Lo zio viveva nel New Jersey, ma veniva a trovare abbastanza spesso suo nipote, il mio amico, e quando arrivava si portava sempre dietro l’attrezzatura da dj (…credo che il suo nome d’arte fosse DJ Boogie, ma non ci metto la mano sul fuoco). Io comunque ho sempre amato i dischi e la musica: quando i miei genitori facevano dei ritrovi con gli amici ero io a scegliere i brani di sottofondo e a suonarli allo stereo di casa… e avevo, che so, dodici anni. Ovviamente non mixavo: cambiavo i 45 giri, lavorando di selettore da phono ad aux. Quindi sai, quando ho sentito Collier fare questa cosa, mixare… qualcosa che anche volendo a casa non sarei riuscito a fare… sai, all’epoca non potevo nemmeno lontanamente immaginare l’esistenza di una cosa chiamata mixer. Era pazzesco. “Io devo imparare a fare questa cosa”, continuavo a dirmi. Poi il caso ha voluto che riuscissi a conoscere Collier proprio di persona: lui nella comunità era comunque un mito, e casa sua molto spesso si trasformava in un negozio dove fare svendita di vinili, praticamente ogni fine settimana. Io e il mio amico – il nipote di DJ Boogie – una volta finimmo lì con l’idea di comprare dei dischi. Lo conoscemmo, lui fu gentilissimo, ci invitò subito a fare pratica a casa sua coi giradischi. Da lì in avanti ho iniziato a suonare, suonare, suonare… Ecco, è così che sono cresciuto come dj. Ho acquistato i miei primi giradischi, ho iniziato a dare dei party. Soprattutto, ho iniziato a migliorare. Giorno dopo giorno. Se mi chiedi che anni erano, ti dirò stiamo parlando di qualcosa come il 1980, 1981.
Negli ultimi anni il lavoro di dj sembrava imprescindibile da quello di produttore. Io, invece, ho sempre creduto nell’indipendenza delle due cose, rivendicando il valore del miscelare e manipolare musica di altri creando, in questo modo, qualcosa di unico ed irripetibile. Ultimamente, peraltro, sembra tornare l’attenzione nei confronti del dj puro. Tu come ti poni su tutta questa questione?
Guarda: io avrei potuto, nella mia carriera, essere un dj e basta senza bisogno di mettermi lì a fare musica e al tempo stesso avrei potuto essere un producer e stop, senza mettermi lì a fare il dj. Sono sempre stati due piani separati ed autosufficienti, per me. Sai una cosa divertente? Quando ho iniziato come Cybotron assieme a Rick Davis lui non voleva assolutamente che io facessi anche il dj: “Ti distrae dalla produzione, lascia perdere, concentrati su quello che stiamo facendo, e poi comunque non mi sembri portato come dj”. Ma non l’ho mai ascoltato. Ci tengo comunque a ribadire: per me produzione e deejaying sono sempre stati due piani distanti, e non ho mai avuto bisogno dell’uno per fare l’altro.
Stiamo assistendo ad un massiccio ritorno dei vinili. Molti dj, soprattutto giovani, li usano come unico supporto o almeno come supporto principale e molte label, comprese le major, hanno iniziato a stampare vinili massicciamente. Io, personalmente, non li ho mai dismessi. Tu li hai sempre usati? Pensi sia un moda, questa del ritorno dei vinili, o un fenomeno destinato a durare?
Non penso sia una moda passeggera. E’ qualcosa destinato a durare. Perché sai, appoggiare la puntina su un vinile è qualcosa che, come dire?, crea sempre e comunque un particolare tipo di vibrazione. Lo suono ancora, il vinile; ma suono anche coi CDJ, anche se non coi cd ma con delle penne USB. Il motivo è semplice: col digitale hai a disposizione facilmente molta più musica, ti basta un download per recuperare del nuovo materiale. Senza contare che è molto comodo poter viaggiare senza doversi portare tutta la tua strumentazione, il tuo laptop, dei controller: nelle mie penne USB metto tutto e di tutto, in .wav, e mi sento tranquillo.
Credo che l’evoluzione della musica sia strettamente legata all’evoluzione degli strumenti musicali. La musica classica a partire dal ‘700 è stata pesantemente influenzata dall’introduzione del pianoforte; il rock dalla chitarra elettrica; la musica da ballo odierna da synth e campionatori. Ti va di nominarmi alcune delle macchine e tastiere che più sono state importanti nella tua carriera?
Oggi la situazione è particolare, perché grazie all’innovazione tecnologica puoi usare una quantità di strumenti semplicemente infinita: pensa ai synth virtuali, ai vari plug-in. Non c’è limite al tipo di suono che puoi usare, una situazione mai vissuta prima. Ma lo strumento più importante per il mio sviluppo come artista fu esattamente la prima tastiera che mi comprai: un Korg MS 10. Poco dopo arrivò un Sequential Circuits Pro One e sai che ti dico, ancora oggi questi due sono gli strumenti più importanti per me quando si tratta di creare nuova musica. Se aggiungi poi quanto mi cambiò la vita quando potei acquistare il mio primo campionatore, un Akai 900, hai un quadro su quale è la strumentazione che è stata ed è fondamentale in tutta la mia carriera.
Che musica ascolti per rilassarti? E quali artisti ritieni parte integrante della tua vita? Io per dire in questo periodo ascolto molto Bob Dylan e Keith Jarrett…
Io sono cresciuto ascoltando jazz. Il jazz, sai, mi rilassa: perché è una musica dove non c’è particolare enfasi sul dancefloor e sulla necessità di ballare. Dovendo farti dei nomi, uno dei miei preferiti è Stanley Clarke. Continuo? George Duke, Billy Cobham, i Return To Forever, i Weather Report… Insomma, hai capito, jazz, essenzialmente jazz, soprattutto quello di un determinato periodo storico. E poi c’è Gino Vannelli: quanto mi piace! “The Gist Of Gemini” e “Storm At Sunup” sono due album incredibili.
Giri il mondo e proponi la tua musica davanti sia alle folle dei festival che nell’intimità dei piccoli club: ti trovi a tuo agio in ambedue le situazioni? E quali sono i punti che ti attraggono, dei rispettivi contesti?
Mi piace suonare nei club piccoli, ma non devono essere troppo piccoli: per me un posto dalla capienza di 200/300 è forse un po’ troppo angusto. Però sì, è molto bello suonare in un luogo un minimo raccolto, dove puoi sentire il contatto con la gente e dove sai che sono tutti lì per te. Al tempo stesso però suonare nei grandi festival ha un suo fascino: ti fa sentire in tutta la sua potenza il potere del controllo. Un grande impianto a tua disposizione, una massa di gente di fronte a te… e tu che hai il potere di accendere tutto questo, di portarlo alla massima potenza. Quando succede, è un brivido alla schiena come poco altro.
Come vivi questo “nomadismo forzato”, tipico del nostro mestiere? Ti piace ancora, dopo tutti questi anni?
Certo che mi piace ancora. Se non mi piacesse, la gente se ne accorgerebbe subito e non mi chiamerebbe più a suonare; grazie a Dio, ci sono invece ancora molte persone che si interessano a me. La cosa è significativa. Anche perché in effetti ritengo, se me lo chiedi, di avere una prospettiva molto personale sulla musica e in particolare sulla musica elettronica: sento e affronto toni, idee melodiche, idee armoniche e architetture ritmiche in un certo modo, credo particolare e riconoscibile, ed evidentemente questo modo piace ancora a un po’ di persone. Soddisfarle, è il mio lavoro. E la mia convinzione è che ci sarà sempre un numero sufficiente di persone per cui sarò un artista con qualcosa di rilevante da dire per quanto riguarda la musica.
Avevi la percezione, ad esempio ai tempi di “Clear”, che stavi gettando le basi di un movimento che sarebbe stato così focale per la musica del futuro? E se la risposta è no, quando hai invece iniziato a rendertene conto?
Mentre la creavo, non ho mai immaginato nemmeno per un istante che quella traccia avrebbe avuto un impatto così profondo sulla storia della musica elettronica. Stavo semplicemente facendo il mio lavoro: il musicista. Certo, lo facevo con l’idea di farmi notare dal mondo, di essere riconosciuto su scala abbastanza larga. Ma è impossibile avere la certezza matematica che quanto tu stia facendo, in un determinato singolo momento, sarà senza la minima ombra di dubbio un successo. Quand’è che mi sono reso conto che qualcosa stava accadendo per davvero? Beh, quando The Electrifying Mojo suonò alla radio “Alleys Of Your Mind”. In quell’istante capii che forse ce la potevo fare per davvero, forse davvero avevo qualcosa di interessante da dire.
Come avviene il tuo processo creativo-compositivo? Hai un iter e una metodologia particolari, o le idee vengono di colpo e prendono la strada che vogliono? Per dire, cominci con le ritmiche? O con una linea armonica? O ogni traccia ha una storia a sé?
Ogni traccia ha una storia a sé. Non ho mai voluto avere un procedimento standard, per dare vita a nuove tracce. La bellezza del creare è poter sperimentare, no? Quando fai qualcosa sempre nello stesso modo e seguendo iter abitudinari e prefissati, ogni segno di creatività viene soffocato.
Avrai forse notato che ti ho fatto più domande sul presente e sul futuro piuttosto che sul tuo passato. Non è un caso, visto che ti considero in continua evoluzione e ritengo i tuoi lavori presenti importanti, e di valore, altrettanto quanto quelli passati. Nessuno può mettere in discussione l’influenza delle tue produzioni nella storia della musica moderna – non solo quella da ballo. Considerarti solo come “pioniere”, a mio modo di vedere, ti sminuisce. Che rapporto hai col passato e con il futuro?
La mia relazione col passato è che – io c’ero. Dall’inizio. Questa è una consapevolezza importante, che vale anche nel presente. E la mia relazione col futuro? Guarda, ti dico questo: chi controlla il presente controlla il passato, e chi controlla il passato controlla il futuro. Semplice così.