C’è chi si lamenta (magari anche a ragione, eh, l’ipocrisia sul ballo e sui concerti “in piedi” in Italia ormai è insopportabile), e c’è chi fa. Chiaro: sono sport diversi, un festival jazz è in qualche modo più “aiutato” dalle normative anti-Covid attualmente in vigore rispetto ad altri eventi. Ma proprio i festival jazz stanno dimostrando di giocarsi molto bene questa carta: se fate un giro per il web, vedrete fioccare cartelloni interessanti (da Fano alla Valtellina, dal Veneto al bresciano) con musica di alta qualità. Soprattutto, le carte se le è giocate meravigliosamente bene una delle “ammiraglie” del panorama nostrano, il Torino Jazz Festival. Una “ammiraglia” che ha saputo molto intelligentemente mutare pelle dopo alcuni inizi troppo magniloquenti e “antipatici”, come abbiamo raccontato in passato, e che è stato fra i primi a rilanciare appena c’è stata la possibilità di fare davvero qualcosa (a superarlo in coraggio c’è quel felice kamikaze di Time In Jazz in Sardegna, e ci torneremo sopra le prossime settimane).
Non solo in questo difficile 2021 a capienze ridotte e viaggi contingentati il Torino Jazz Festival è riuscito a mantenere alta la qualità (…la quantità, ovvero i concerti “locali” nei jazz club cittadini, saranno recuperati in autunno, dal 27 settembre al 3 ottobre), ma è anche riuscito a mantenere i prezzi popolari. Leggi: ingressi a 10 euro. Per concerti di portata spesso mondiale, produzioni originali. Altri panorami – vedi un po’, quello del clubbing e del live pop-rock in particolare – stanno facendo ricadere sul consumatore finale la maggiore difficoltà nell’organizzare eventi al 100% legali; e se da un lato spesso si tratta di coprire effettive spese maggiorate, dall’altro in più di un caso è solo la voglia (l’illusione…?) di mantenere alti i margini ed i guadagni come ai bei tempi. Detto senza giri di parole: le band e i dj che in questo momento non abbassano i cachet ma addirittura li alzano, magari con la scusa de “…dobbiamo recuperare i soldi persi durante lo stop”, andrebbero boicottati e basta. Non insultati, non frustati su pubblica piazza: no, semplicemente boicottati. State pure a casa. A ragionare su come un tempo si guadagnava di più, e si guadagnava facile.
A Torino per il Jazz Festival abbiamo visto accadere tutt’altro. Abbiamo visto e sentito ringraziamenti agli sponsor perché “…ci hanno permesso di mantenere basso il prezzo dei biglietti” (ecco, gli sponsor vanno usati così); ed abbiamo visto e sentito che lì dove possibile tutti gli artisti presenti hanno acconsentito a raddoppiare le esibizioni praticamente tenendosi lo stesso cachet. Ecco che quindi gli inevitabili sold out – il TJF ha una popolarità ormai consolidata – che già c’erano a capienze piene figuriamoci quindi con la capienza limitata a 500 persone sono stati in qualche modo “curati” raddoppiando gli spettacoli, con doppi concerti in giornata degli stessi artisti. Nel jazz è una prassi un po’ più comune (nato peraltro dallo schiavismo dei posti à la Blue Note vecchia maniera, che spremevano il massimo dai musicisti e li facevano lavorare quasi quanto i camerieri in sala), ma resta una cosa molto bella da segnalare.
Le band e i dj che in questo momento non abbassano i cachet ma addirittura li alzano, magari con la scusa de “…dobbiamo recuperare i soldi persi durante lo stop”, andrebbero boicottati e basta
E poi c’è la musica. Bella, interessante, stimolante, col lavoro alla direzione artistica della diarchia Giorgio Li Calzi / Diego Borotti che di nuovo ha trovato la via mediana giusta per rendere il jazz un organismo vivo, in dialogo col presente dal lato ma refrattario agli automatismi hipster delle mode dall’altro. Un approccio che, siamo sinceri, vorremmo vedere un po’ di più negli eventi anche di altri contesti e generi musicali. La scelta più bella, anzi, strepitosa è stato catturare il sassofonista Donny McCaslin invitandolo ad espandere l’esperienza legata a “Blackstar” di Bowie, col Duca Bianco – al solito con l’occhio lungo, lunghissimo – che aveva voluto come spalla per il suo testamento musicale una formazione di jazzisti americani cazzutissimi. Ecco: ascoltando il quartetto di McCaslin abbiamo avuto perfettamente chiaro perché gli act jazz baciati di questi tempi dalla luce hipsterosa (Shabaka e compari, per intenderci, e comunque tutto ciò che passa per il convento petersoniano) sono una cosa carina, interessante, in certi passaggi anche bella, sì, ma semi-scompaiono di fronte a chi il jazz lo suona masticandolo fuori dalle mode e dai proclami e dalle pagine dei giornali di lifestyle. Anzi, a dirla tutta: McCaslin e il suo quartetto sono di partenza proprio “sfigatissimi”, perché la trama sonora di base e di partenza è quella della jazz-fusion anni ’80 e ’90 (tastieroni, sax e virtuosismo strumentale tanto per capirci), insomma quello spettro che va dagli Steps Ahead (bene) agli Special EFX (male) e soprattutto quello spettro che – lo ripetiamo – è considerato da sempre il massimo del Male e della Sfiga dai tastemaker modaioli contemporanei. Peccato che quando sai suonare, e sai comporre, e soprattutto sai di musica, puoi trasformare qualsiasi cosa in oro. Qualsiasi. L’ora a passa di concerto di McCaslin e soci ha fatto sembrare letteralmente “scolastico” qualsiasi act oggi baciato dall’hype (…Kamasi, sei tu? Figli di Kemet, siete voi?). Abbiamo infatti assistito ad una gestione delle dinamiche collettive letteralmente strabiliante – in più di una traccia l’ensemble sembrava infatti letteralmente “decollare”, per come facevano crescere i brani – e anche dal punto di vista dei singoli musicisti erano tutti tessere ricercate di un mosaico preziosissimo (…la forza stava nel collettivo: perché Nate Wood nel quartetto di McCaslin è sublime e potentissimo, un Peter Erskine 2.0, Nate Wood invece in set solo il giorno dopo è stato una cosuccia carina ma niente di più). Non a caso il momento debole c’è stato negli interventi di Gail Ann Dorsey, aggiunta extra al progetto: voce splendida la sua, ma “normalizzava” verso una (non indimenticabile) forma-canzone un collettivo che invece è una palla di cannone sulle traiettorie dell’iper-jazz. Loro sì. Non altri, invece, più celebrati. Bravo McCaslin, bravo Wood, bravo Jason Lindner, bravo Tim Lefebvre.
(McCaslin in azione; continua sotto)
Ecco. Uno molto apprezzato dalla critica hipsterica contemporanea è il batterista/producer Kassa Overall. Che bravo è bravo, ma sinceramente anche lui appare un po’ monodimensionale. E la dimostrazione la si è avuta nell’ensemble di Arto Lindsay (storico totem immarcescibile della critica hipster, ma anche artista a cui tutti dovremmo essere grati per davvero): poteva essere la vetta del Torino Jazz Festival, un Lindsay che si rimette in campo con una band di all star tra jazz e rock e punk e boh, per tornare ai fasti di “Mundo Civilizado”, invece ci è sembrato un punto basso ai limiti dell’imbarazzante. Tutto slabbrato, tutto approssimativo, tutto anche molto ingenuo: perché il siparietto rap dello stesso Kassa Overall, o i “circenses” con le percussioni, o Arto che si incaponisce a fare sempre lo stesso trucco (la chitarra noise scordata) e non si cura di armonizzare rumore, dissonanza e melodia (come invece lui saprebbe fare, ed alla grande) hanno solo irritato. Sembrava tutto fatto alla pene di segugio, anche le potenziali qualità – vedi appunto il drumming di Kassa Overall – appariva casuale, appiccicato a caso, inadatto al contesto. Un dialogo fra musicisti bravissimi che però facevano ciascuno meno del minimo sindacale, e per giunta non si sforzavano di imparare una lingua sonora comune, accontentandosi di farsi gran risate sul palco e pacche sulle spalle. In una parola: irritante. Scusaci Arto, ma è stato irritante. Non se ne può fare certo colpa al Torino Jazz Festival: sulla carta, era un concerto da mettere assolutamente in cartellone.
Un’altra produzione produzione originale del festival, qui in collaborazione con la Filarmonica TRT, è stata quella che ha visto il sassofonista Gianluigi Trovesi – veteranissimo per curriculum e carta d’identità, un giovane incandescente per entusiasmo e voglia di esplorare – incrociare le armi con la Orchestra del Teatro Regio (una istituzione), buttandola in un percorso sonoro che stava sì nell’alveo del jazz ma pescava a piene mani – e spesso in simultanea – nella dodecafonia, nel barocco, nel funk, nel (inserite un genere a piacere). Collante meraviglioso Stefano Montanari, una delle figure più incendiarie ed al tempo stesso rigorisissime nel campo della musica classica attuale, che ha preso a sé l’orchestra col guanto di ferro e l’ha condotta con feroce sicurezza in territori che per l’orchestra stessa non erano probabilmente abituali. Il risultato concreto e finale? Quello che poteva essere un paciugo scollato e pure un po’ presuntuoso, diciamolo, è stato invece un meraviglioso e fortissimo congegno sonoro in grado di esprimere uno scintillante e sofisticatissimo sincretismo sonoro da dieci e lode (concedendosi pure il lusso di seguire una precisa traccia narrativa tratteggiata dalla “Montagna incantata” di Thomas Mann, tanto per complicarsi la vita). Bellissimo. Davvero bellissimo.
(Gianluigi Trovesi meets Stefano Montanari; continua sotto)
…come bellissimo è stato anche quanto fatto da Monolake aka Robert Henke. Ovviamente, il suo “CBM 8032 AV” ha triggerato i soliti puristi del jazz, quelli che vedi ululare alla luna “Dove sono i sassofoni!!1!” ogni volta che il jazz fa se stesso (ovvero: cerca di esplorare nuove forme e nuove combinazioni, ed effettivamente possiamo capire che un concerto sviluppato per cinque Commodore vintage e un banco mixer possa non essere precisamente nell’iconografia Coltrane-Bird-Baker. Ma la maestria con cui Henke ha preso sonorità (ed immagini!) da modernariato dell’informatica – erano dei Commodore predecessori addirittura del C64, i primi su cui Henke ragazzino ha iniziato a programmare – è stata semplicemente strepitosa, trasportando tutto in un mondo dall’estetica forte, attuale, al riparo da un lato da mode ed ammiccamenti ma ben dentro dall’altro allo spirito di electro, techno e ad un pizzico di dub, oltre a molto Pan Sonic.
D’altro canto Li Calzi l’ha detto, presentando il concerto sul palco: “Costruire il nuovo con vecchi strumenti” è uno dei temi forti del Torino Jazz Festival 2021. Ed un tema forte assoluto. Quindi, è per certi versi interessantemente coerente che sia stata la fusion – sgradito modernariato jazz di decenni precedenti – ad essere stata una chiave di lettura forte dell’edizione di quest’anno: fusion come dicevamo era il quartetto di McCaslin, fusion per certi versi era anche il sincretismo culturale di Trovesi, fusion era pure il power trio Zig Zag – che ha dimostrato per l’ennesima volta che a Vernon Reid manca sempre “un soldo per fare una lira”, visto che la sua strepitosa abilità tecnica come chitarrista si scontra con una certa pigrizia nel cercare timbriche e soluzioni interessanti, non convenzionali (lo stesso dicasi per gli altri soci nell’avventura, Will Calhoun e Melvin Gibbs).
Ci sono set che non abbiamo visto e che avremmo tanto voluto vedere (Petrella e la sua Cosmic Renaissance, Biréli Lagrène e il suo omaggio a Pastorius, l’unione senza reti Sheppard / Di Castri / Caine), ma già così – e anche considerando i set che ci hanno convinto poco, o pochino – è stato abbastanza per capire che pure stavolta il Torino Jazz Festival ha fatto centro. Ha tenuto alto il livello delle scelte artistiche, ha tenuto saldo il rapporto con la città (vedasi i sold out), ha tenuto botta nella voglia di non omologarsi ai trend imperanti facendo invece un discorso riconoscibile e personale.
Un discorso che potremmo riassumere con “intrattenimento popolare sofisticato”. Il jazz-e-dintorni che transita ormai da qualche anno al Torino Jazz Festival è infatti un jazz molto comunicativo ma non paraculo, è un jazz che strizza l’occhio ai cultori storici del genere (e non più di tanto alle sciccose orde nuoviste cresciute a pane e Worldwide) ma che al tempo stesso getta in campo provocazioni e sfide al futuro mica male. La ricerca c’è, ma si ricorda sempre di dialogare con “ciò che piace e funziona”; la qualità c’è, ma va sempre a braccetto con la fruibilità. E’ un jazz molto pop, ma nel senso – non facile – di pop “avanzato”, sofisticato, avventuroso, un po’ il contraltare di quello che fa Club To Club con l’elettronica sempre all’ombra della Mole (ma anche, fatte le debite proporzioni, di quello che fa la deliziosa cellula barricadera Jazz Is Dead). Forse non è un caso. Forse esiste veramente un genius loci sabaudo per cui si può prendere l’intrattenimento popolare e renderlo intelligente, curioso, aperto alla contaminazione con la ricerca di nicchia, fargli fare cioè un passo in avanti senza fargli smettere di essere intrattenimento.
Hai detto nulla.