E’ il disco di cui stanno parlando tutti, nelle bolle social, hipster e “sapute”. Anzi di più: è il disco di cui stanno parlando benissimo (quasi) tutti, presentandolo come capolavoro. Il fatto è che con “OBE” Simone Benussi aka MACE non solo ha fatto un lavoro di qualità oggettiva come suoni e come amalgama artistico, che già basterebbe questo; il punto è che riuscito a fare un album mettendo sì insieme un altissimo numero di nomi-del-momento, ma (…e forse non c’eravamo più abituati?) è riuscito pure a fare due cose molto specifiche: a mantenere un suo stile e un suo tocco da un lato, ed a suonare iper-contemporaneo pur non andando ad infilarsi nei trend del suono che vanno per la maggiore nelle chart e nei play di YouTube e Spotify dall’altro. E’ talmente “nuovo”, questo album, da essere per certi versi, “vecchio”, riportandoci agli anni di Dalla o Luca Carboni: ovvero un disco pop di qualità, ve li ricordate?, in grado di essere canzone, di essere comunicativo, di essere contemporaneo ma anche di essere personale e pure un po’ “rischioso”. Perché l’artista in fondo dovrebbe essere quello che si prende i rischi; ma, a furia di rapper&cantanti bardati da brand ambassador e vogliosi di colonizzare a colpo sicuro i cuoricini di Instagram, un po’ ce n’eravamo dimenticati. MACE è arrivato a ricordarcelo. E lo ha fatto proprio avendo come compagni e compagne di viaggio alcune delle voci più ricercate del momento. Insomma: si può fare. E lui l’ha fatto. Se arrivate in fondo a questa bella chiacchierate, probabilmente capirete anche come e perché sia stato proprio lui a riuscirci.
Vorrei partire dal fondo, ovvero dall’ultima traccia dell’album: “Hallucination”. Che a me, e boh magari ti sembrerà pure assurdo, a ma ha ricordato molto come piglio i Faithless più epici. Riferimento che suona molto strano, accostato a te.
Ti dirò, a parte il loro mega-singolone classico loro non li conosco: quindi no, sicuramente non sono stati loro il riferimento che avevo in testa, facendo quel pezzo.
Ma sì, ma lo sapevo che stavo pensando una cosa un po’ assurda!
Però è vero che in quel pezzo c’è molto di inglese, di elettronica da dancefloor inglese, quindi forse qualcosa c’è. Chiaro, c’ho aggiunto un twist molto psichedelico: perché quello è un brano in cui ho cercato di ricreare per via sonora alcune delle visioni che ho avuto durante varie esperienze psichedeliche. “Hallucination” infatti nelle intenzioni è davvero la ricostruzione di un viaggio psichedelico, vari elementi sonori al suo interno hanno esattamente questa funzione: un certo tipo di suoni, di glitch, un ronzio che pervade tutto, il climax, tutte cose che sono state messe non per caso. Sai cosa? In realtà di tracce del genere ne ho fatta più d’una. E’ che il disco era già lungo di suo. Poi sì, volevo che “OBE” fosse prima di tutto un disco sulle voci, sulla canzone. Ma “Hallucination” in fondo ci stava, no? Tanto più che potrebbe anche essere un antipasto di quel che farò uscire tra un po’…
Senti, in definitiva: “OBE” è un disco pop?
(sorride, NdI) Mmmmmh, definiscimi la parola “pop”.
Beh, è un disco di canzoni. Ed è un disco molto attento a suonare “bene”, a suonare gradevole. Per me il pop sta qui. Ma devo dire che sei stato molto attento a fargli fare un passo in avanti rispetto ad una rassicurante “medietà” anche se la base di tutto è, appunto, un intreccio fra “canzone” ed “educazione sonora”. Per certi versi – toh, eccoti anche un altro riferimento assurdo – mi hai ricordato i dischi migliori di Luca Carboni: roba al 100% pop, che però alcuni tocchi rendevano davvero interessante, particolare, emotiva… e non scontata.
Eh, Luca Carboni è molto stiloso! Guarda però, non lo so… Il bello della musica è proprio che a ciascuno fa nascere dei riferimenti precisi in testa e nelle emozioni. Io ti posso dire che no, non ho mai avuto in mente Carboni, ma la tua lettura mi va più che bene ed anzi ti ringrazio, perché Carboni è un grande. Tutto quello che posso dire di “OBE” è che ho cercato di metterci dentro quello che mi piace, senza eccezioni (…o quasi). Di sicuro me ne sono fregato di stare dentro i confini di specifici generi; ma, ti dirò di più, me ne sono anche abbastanza fottuto della fruibilità finale potenziale, te l’assicuro. Eppure, c’è qualche traccia del disco che in radio sta andando davvero forte.
Eh sì.
Incredibile ma vero. Quando ho firmato per Universal, e il disco era ancora tutto da fare, ho specificato chiaramente una cosa: “Ragazzi, io non voglio fare singoli per le radio, ve lo dico subito. Questo progetto non è quella roba lì”.
E loro?
Non hanno battuto ciglio. Hanno sposato tutto e boh… mi chiedo ancora un po’ perché. Forse si saranno fidati della mia visione, che altro dire. Quello che è certo è che il successo “radiofonico” di questo disco non era intenzionale, e se sta arrivando è davvero per caso. Poi sì: c’è tanto cantato, tanta melodia, e forse questo lo aiuta ad essere recepito come “pop”, ok. Ma questa ormai è una parola talmente svuotata del suo significato, talmente tanto tirata da tutte le parti… Certo, se “pop” torna ad essere quello che era ai tempi che so dei Beatles – qualcosa di popolare e molto comunicativo da un lato, ma comunque innovativo come suoni dall’altro – allora sì, è una etichetta che mi prendo molto volentieri, e che soprattutto trovo sia un grande complimento.
Il rimando a Carboni nasceva anche dal fatto che i testi, praticamente tutti, hanno una personalità spiccata e soprattutto molta “sensibilità”. Sei intervenuto in qualche modo in quella parte lì, dettando condizioni e direzioni, o le varie voci coinvolte avevano carta bianca?
No no, avevo lasciato carta bianca a tutti. Però è anche vero che a tutti ho chiesto di scrivere cose che avessero un “peso”, un significato, quello sì: non dovevano considerare “OBE” come un mixtape, dove lasciare una propria routine vocale e testuale. A tutti ho chiesto invece di metterci il massimo impegno. E, col senno di poi, risultati alla mano, penso di poter dire che l’abbiano proprio dato. Sai cosa, il segreto sta forse nel fatto che io ho un principio ben preciso: quando decido di beccarmi con un artista in studio prima di metterci seriamente a lavorare almeno un paio d’ore vengono obbligatoriamente passate a chiacchierare un po’ di tutto. Obbligatoriamente. L’obiettivo è: entrare l’uno nel mondo dell’altro. Il risultato è che quando poi scrivono per me, anche solo in maniera inconscia emergono delle sensibilità comuni, pure quando il tema di base è libero. Tra le tracce del disco solo “Ayahuasca” se non sbaglio era stata decisa in partenza, come argomento della parte vocale, solo lì ho voluto dare una indicazione precisa. Se però mi dici che tutto il disco suona coerente e con una sensibilità comune fra le varie parti, credo sia un po’ avvenuto per il condizionamento anche solo inconscio di cui ti parlavo prima.
Come hai lavorato, a livello di produzione? Non avendo i credits sotto mano, l’ascolto mi dice che “Sogni lucidi” è chiaramente suonata da una band e con un feel strumentale da band, ok, mentre con altre tracce invece è più difficile capire dove stanno i software e dove stanno gli strumenti sia a livello di ideazione che di esecuzione.
Ogni brano fa storia a sé. Le tracce sono talmente tante… e tutte nate in maniera diversa. In moltissimi casi ho iniziato tutto io tutto da solo, o al massimo lavorando assieme a Venerus. Però molto materiale era anche piuttosto datato, cose che avevo iniziato a creare ancora mentre stavo in Sudafrica. E’ che sai cosa: si tratta di materiale che è stato aperto e riaperto tante di quelle volte… difficile dire, davvero. Aprivo una traccia, ci facevo suonare sopra uno strumento. La riaprivo dopo un po’, dopo aver lavorato magari ad altro, e ci aggiungevo una voce. Tutto così. “OBE” è veramente un’opera collaborativa, sviluppatasi in maniera incrementale. Però il nucleo iniziale è sempre mio o, al massimo, qualcosa sviluppato assieme a Venerus, lui per questo album è stato davvero importante.
(Eccolo, “OBE”; continua sotto)
Ecco, citavi il Sudafrica dove so che hai speso più di una vacanza, praticamente ti ci sei proprio stabilito per mesi e mesi; ma in generale da tempo immemore so che sei uno che ama viaggiare, forse più di qualsiasi altra persona io conosca. Che effetto ti ha fatto dover smettere di farlo, dover restare in Italia – ormai da oltre un anno?
Eh: non buono. Per me viaggiare è praticamente una esigenza fisiologica. Ho iniziato a vent’anni, andando in Messico, da lì non ho più smesso. Almeno quattro, cinque volte all’anno devo andare in posti che siano anche piuttosto lontani… Figurati, nel 2019 credo di aver toccato tutti e cinque i Continenti. Insomma, viaggiare per me è davvero un’esigenza e sì, ora sto soffrendo abbastanza. Ho rimediato cambiando casa, e cambiando studio, così almeno in questi mesi mi sono tenuto occupato.
Avendo viaggiato così tanto, ti faccio una domanda precisa: la globalizzazione ha vinto, nella musica, o esistono ancora zone ad alto tasso di specificità, delle “riserve indiane” dove non arriva e non attecchisce il suono globalizzato?
Beh, il suono globalizzato per lo più ha vinto. Credo che oggi la risposta debba essere questa. Quando la trap è definitivamente esplosa a livello mainstream, ed era più o meno il periodo in cui mi ero stabilito per un po’ in Sudafrica, la sentivi veramente ma veramente dappertutto – a partire da dove stavo io. Ed era proprio la stessa cosa: stesso suono, stesso approccio. Cambiava solo la lingua. E questo in Sudafrica come in Europa, come in Asia, come dove vuoi tu. E’ stato scioccante, credimi: a mia memoria, non c’era mai stato un genere che avesse preso il mondo in maniera così pervasiva ed uniforme. Mai. In passato non era successo nemmeno per generi diffusissimi e popolarissimi come l’heavy metal o la disco. In Africa, per dire, l’heavy metal non c’era mai arrivato, la trap invece sì, eccome. La cosa buona però è che ogni zona geografica continua ad avere anche le sue specificità, oltre ad essere stata colonizzata da un suono “globale”: se penso al Sudafrica, che credimi è una fucina pazzesca, ogni anno nasce un genere nuovo. Ma nuovo davvero, eh, non per dire. Ogni anno!
Tra l’altro, in maniera direi quasi rabdomantica tu sei stato uno dei primissimi ad occuparti di trap, dando vita ad una serata come Rrriot e, insomma, all’epoca era davvero una cosa bislacca pensare di farlo – mica come adesso. Era vista come una tua stranezza personale, dopo gli anni di grandi successi dei party Reset!. Potresti vantare delle primogeniture, qui in Italia, e nessuno potrebbe dirti un cazzo o accusarti di opportunismo; eppure la cosa sorprendente è che “OBE” è un disco dove c’è di tutto, ma la trap non c’è.
Assolutamente così, confermo tutto. Sai cosa, immagino che essendo io arrivato alla trap molto presto e prima di altri (almeno per quello che è successo in Italia), molto presto e prima di altri della trap mi sono anche stufato. Se ci penso, è una cosa che nella mia vita e nella mia carriera si ripete: sono sempre scappato dalle cose quando iniziavano a diventare troppo grandi, troppo popolari. Sempre. Ho smesso di fare rap quando i rapper italiani iniziavano ad avere successo davvero; ho smesso di fare electro quando ha iniziato a tramutarsi in EDM da grande festival. Credo che sia un po’ perché nella mia testa scatta questo meccanismo del “Ma se lo fanno già tutti, dai, non c’è bisogno che lo faccia pure io”.
(Ehi, era il 2014, sette anni fa: un mixato per celebrare la serata Rrriot; continua sotto)
E mi spieghi com’è possibile che con questo tipo di attitudine tu ti sia trovato abbracciato e spalleggiato da una major?
Eh. Si saranno fidati della mia visione, immagino. Come del resto è successo con gli artisti che hanno partecipato al disco: pure loro si sono fidati. Anche per loro poteva essere un salto nel vuoto infatti, perché praticamente stavo tirando tutti fuori dalla loro comfort zone, se ascolti l’album te ne rendi conto. Per quanto riguarda l’etichetta, mah, immagino che Jacopo (Pesce, NdI) e Fede (Federico Cirillo, NdI) si siano semplicemente fidati perché hanno visto che ero molto deciso, che avevo insomma una visione chiara in testa.
Oh, sono cambiate le cose. Un tempo in una major dei Fede e degli Jacopo così sarebbero stati inimmaginabili: le major erano quelle che ti davano tanto ma chiedevano tantissimo, in primis il “diritto d’indirizzo” su quello che stavi facendo, e mica potevi dir di no. E quando hai iniziato a fare musica esattamente per questo motivo erano viste come il Nemico con la “n” maiuscola. Te lo ricorderai immagino…
Oh sì, è esattamente così.
Che è successo? Si sono rovesciati i ruoli? La major da nemico si è fatta simpatico ed accomodante amico con cui scambiarsi pacche sulla spalle e fare zingarate?
In effetti è un rovesciamento potente. Sai cosa, credo ci sia stato un allineamento imprevisto ed imprevedibile di fattori. Ovvero il rap che improvvisamente funziona, e lo fa addirittura partendo dal basso; e l’esplosione delle piattaforme digitali, con le loro dinamiche completamente diverse dai broadcast tradizionali. In un amen si sono rovesciate regola consolidate, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista del mercato, qui in Italia. Il risultato? Oggi è molto più facile che una major possa permettersi di firmare un progetto così, tanto per fare. Come se fosse un “giocattolino”. Una cosa tipo “Massì, vediamo come funziona… Tanto abbiamo già talmente tanti artisti che fanno i numeri e che fanno esattamente quello che gli diciamo che sì, magari un esperimento possiamo pure permettercelo, via…”. E allora sarà venuto fuori in qualche riunione che “Ok, dai, abbiamo quel mattacchione di MACE che vuole una cosa non convenzionale e soprattutto vuole decidere lui come farla. Quindi presumibilmente sarà una cosa interessante, e metti mai che poi funzioni pure!”.
Ok, ma non eri un Signor Nessuno. Avevi in curriculum più di una hit, prima di lavorare a questo album, e non è una cosa che possono vantare tutti. La fiducia direi che nasce anche da questo. Quando ti sei accorto che eri entrato nel novero dei “produttori da hit radiofonica” (e che avevi anche le capacità e le attitudini per entrarci)?
Paradossalmente queste attitudini e capacità non pensavo proprio di averle, credimi. Sono tanti anni che faccio il musicista, questo sì, e penso ormai di aver accumulato talmente tanta esperienza che – se affiancato magari anche dalle persone giuste – un brano radiofonico posso costruirlo, nel momento in cui mi viene richiesto di farlo. E’ che non mi ci ero mai cimentato. Questo anche perché ho sempre ascoltato musica piuttosto strana, atipica, non mi capitava insomma di incrociare le strade con quello che “funzionava”. La prima volta che mi sono ritrovato a fare una cosa che sapevo che era e dovesse essere “grossa”, è stato con “Pamplona”…
(Tormentoni; continua sotto)
Che “grossa” è stata, eccome.
Ma lì il mio ruolo infatti è stato prendere in mano un pezzo che era già potentissimo di suo, non altro. Avevo la demo, dove c’erano già le strofe di Fibra ed il ritornello, ed era chiaro che si trattava di una roba che avrebbe spaccato tutto. Io ho giusto cercato di dare un “abito” un po’ cool ad una canzone che ecco era palese fosse già fortissima di suo, era già una hit di per sé. Alla fine, il mio ruolo continua ad essere un po’ questo, quando entro in mezzo a progetti che dichiaratamente devono andare in classifica: io sono quello che cerca di donare una “pasta” più interessante a qualcosa che è già strutturato in una certa maniera di suo. Poi guarda, oggi in realtà apprezzo il fatto di poter contribuire a fare musica che arrivi tanto alla gente. Da ragazzino, no. Da ragazzino ero integralista.
Ci torniamo su questa cosa dell’integralista, ma prima dimmi: come diavolo erano arrivati a te, per “Pamplona”? Non eri nel novero dei producer sicuri&collaudati a certi livelli. Oggi magari lo sei. Ma allora no, non lo eri.
Sai che onestamente non lo so? Boh, mi ricordo che mi aveva chiamato Jacopo Pesce, solo questo. Sì, un po’ di robine le avevo già fatte, ma… Boh, immagino che in quel momento avessero pensato che potesse essere una buona idea fare un giro di vite, affidarsi a qualcuno che non fosse uno dei “soliti noti” (e, di conseguenza, col “solito tocco” – e lo dico assolutamente senza sminuire la cosa, eh). Io avevo, ed ho, un approccio diverso rispetto alla media di chi lavora sistematicamente nel pop. Mi piace pensare che uno degli ingredienti del successo di “Pamplona” sia stato proprio il tocco di inusualità ed atipicità che ho dato. Ogni tanto portarsi verso un’altra prospettiva può essere premiante, si vede.
Può rinnovare le energie. Artistiche, commerciali.
Esatto.
Ecco, questa cosa spesso la si sottovaluta in Italia: c’è bisogno costante di nuove energie. Se ti fidi invece solo delle ricette collaudate, beh, dopo un po’ il risultato non torna più.
Verissimo. Dillo a me, guarda: in questo disco c’è Blanco, che di anni ne ha diciassette… le nuove energie e le nuove visioni sono fondamentali! Mi piace tantissimo lavorare coi giovanissimi: sono una lenta d’ingrandimento fantastica sul cambiamento in arrivo. E’ una cosa profondamente affascinante.
Eh, senti quindi di fare parte della schiatta dei “maturi” e, insomma, non più di quella dei “giovani”?
Non so se mi definirei “maturo”, faccio ancora troppe cazzate… (risate, NdI) Di sicuro però non sono più un teenager, quello sì.
Ma rispetto al MACE di Reset! quanto sei cambiato?
Quello che sono oggi è l’evoluzione di quello che ero allora.
(“Future Madness”, la summa dell’evoluzione di Reset!: riconoscete tracce del MACE di oggi? Continua sotto)
Vuoi dirmi che c’è continuità, quindi, e non ci si sono stati dei tagli precisi nella tua crescita artistica? Mmmmmh, non so se me la stai raccontando giusta…
(sorride, NdI) A livello musicale, è vero, io sono uno che è passato attraverso dei tagli forti e precisi. C’è stato il momento in cui ho smesso di botto di fare rap; e c’è stato il momento in cui ho smesso di botto di fare electro. Vero, sì: se parliamo di musica, io sento il bisogno di tagli netti. Fa parte di me questa cosa. Faccio, faccio, faccio, fino a quando arrivo alla saturazione e d’improvviso allora sbotto “Basta, ora basta. Questa roba mi ha rotto il cazzo. Non la voglio più fare”. Se però parliamo a livello umano, non credo di essere cambiato tanto, o meglio, credo di essere in un flusso di trasformazione costante, continuo, con una sua direzione ma coerente con le radici e le origini. Ora forse sono una persona più spirituale e più calma, rispetto a come ero dieci, quindici anni fa. L’unica differenza sostanziale potrebbe essere questa.
Ma per quanto riguarda la scena hip hop, che è lì dove hai iniziato e dove ti sei fatto inizialmente le ossa, cosa è rimasto di allora? Quanto è arrivata ad essere influente nel presente? Mi sa anche tanto, in realtà, nel senso che oggi in posizioni apicali nelle major c’è più d’uno che arriva da quella nicchia lì.
Sì, ma sai che c’è? Tutti quanti per arrivare a fare un percorso di un certo tipo hanno dovuto cambiare il loro approccio alle cose. Non è tanto la musica, il genere che segui o non segui, non è quello il punto; è proprio l’approccio la questione. Quello della scena rap ai miei tempi, quando mi ci sono avvicinato e ci sono entrato, era: “Facciamolo solo per noi e i nostri amici, se ci ascoltano anche altri vuol dire che stiamo sbagliando qualcosa”. Perché se succedeva che il compagno di banco che non c’entrava nulla coi tuoi veri giri e i tuoi veri interessi ti dicesse “Però oh, mi piace ‘sto Neffa…”, la verità è che tu t’incazzavi. Neffa era tuo, solo tuo: tu lo amavi, solo tu potevi capirlo, e non accettavi che ci fosse qualcun altro che pretendesse di amarlo o anche solo di apprezzarlo – che ne sapeva lui, rispetto a te? Come poteva permettersi? Ecco. L’attitudine era questa qui. E chi c’era di mezzo lo sa.
Caspita se era quella.
E’ una cosa che non rinnego assolutamente, eh. Ci ha insegnato ad appassionarci, ad identificarci in modo viscerale in quello che stavamo facendo. E questo è fondamentale. Però se uno considera il quadro complessivo, la vera svolta è stata quando sono arrivate le generazioni successive: ragazzi che ascoltavano senza tante menate anche la Pausini o gli Zero Assoluto, o qualsiasi roba pop ti venisse in mente, cosa che noi non ci saremmo mai sognati di fare, mai. E’ il loro avvento che ha cambiato l’attitudine in tutta la scena. C’è stato bisogno di loro.
Domanda: ma torneranno mai le nicchie, le scene molto precise ed identitarie, le subculture?
Domanda intelligente. Che mi faccio molto spesso anche io. Perché in effetti mi dico pure io: dove sono oggi le nuove subculture? Io, non le vedo. Ma non le vedo forse perché ormai sono troppo vecchio per vederle, per riconoscerle? E’ questo? Io giro ancora tanto, ascolto ancora tanto, sono parecchio curioso, eppure non le percepisco…
Eh. Manco io, onestamente. Cioè, ci sono, ma sembrano sempre un po’ “a metà”.
Cazzo, sai cosa, ormai è tutto talmente veloce: oggi qualsiasi cosa nasca, viene immediatamente fagocitata. Non fa in tempo a strutturarsi; non fa in tempo a costruire una identità forte, una separazione dal resto del mondo, delle cose, degli stili. Poi, altro fattore che provo ad ipotizzare, anche se boh, non sono un sociologo quindi non so: ho come l’impressione che oggi ci sia molta ma molta più necessità di ricevere approvazione. Le subculture nascono come voglia di distinguersi, di porsi proprio in contrasto, no? Oggi invece mi sembra che prevalga il desiderio di approvazione, di sentirsi approvati. E’ un meccanismo psicologico nella cui diffusione penso abbiano giocato un ruolo decisivo i social network, il loro avvento. Le subculture, almeno per come le intendevamo noi, ho come l’impressione non stiano nascendo più. Ma che ne sappiamo: magari una roba nuova è invece dietro l’angolo, e appena arriverà ce ne innamoreremo, sia io che te. Quello che posso fare, nel frattempo, è fare musica con la massima libertà.
E non è poco.
No. Non è per nulla poco.