Mentre in Inghilterra si discute e ci si accapiglia perché Resident Advisor e Boiler Room hanno preso una fraccata di soldi (secondo molti, troppi: in effetti siamo sui 750.000 euro… noi ne abbiamo discusso qui), in Italia come noto si è fatto poco – in primis perché il debito pubblico ci impedisce di fare gli splendidi, in secundis perché la cultura in Italia è sempre stata tratta in modo un po’ distratto e un po’ sclerotico dalla pubblica amministrazione – però ecco, fra i proclami curativi del ministro Franceschini un ruolo forte l’ha avuta fin dall’inizio la fantomatica “Netflix italiana della cultura”.
Già la cosa suonava male di per sé, pensando magari al sanguinoso fallimento (e disgustoso spreco di denaro pubblico) che è stata la piattaforma di Italia.it, leggetevi qui la deprimente cronistoria; quando poi sono emerse cifre e partner le perplessità sono aumentate. A metterci i soldi era ed è lo Stato: una ventina di milioni di euro, divisi tra FUS e Cassa Depositi e Prestiti, non si sa quanto coperti dal Recovery Fund. Da un lato è tanto, dall’altro lato è pochissimo (tanto per farvi capire, Netflix ha investito in produzioni italiane il decuplo, 200 milioni di euro, solo lo scorso anno). Da verificare anche la partnership con un imprenditore privato, Chili, evidentemente con buone entrature e che avrà avuto i suoi buoni vantaggi ad entrare nella faccenda (più con “competenze” che con soldi freschi, viene annunciato, anche se Chili non è esattamente una case history di enorme successo ad oggi).
La messa on line di una prima landing page di tutta l’operazione non ha dissipato i dubbi. Anzi. Se sul logo magari la discussione può essere pure soggettiva, visto che siamo nel campo dell’estetica (a vedere il bicchiere mezzo pieno, un elegante rimando al futurismo e all’eleganza “leggera” italica, a vederlo mezzo vuoto “Che diavolo è ‘sta merda?”), c’è invece un particolare che fa proprio cader le braccia. Ed è questo:
Ora. Queste righe fanno capire molto chiaramente una cosa: le cose sono fatte un po’ a cazzo, un po’ casualmente, e lo si rivendica pure con fierezza (magari, immaginiamo, con l’eventuale foglia di fico populista del “Chiunque può farne parte, le porte sono aperte a tutti!”). Chiunque sia un minimo esperto del proprio settore di competenza (e se il Ministero della Cultura non ne ha in organico, non ci mette troppo a trovarne) ha modo di orientarsi bene al suo interno. Non c’è bisogno di call pubbliche aperte ed indiscriminate di questo tipo, strillate sulla landing page provvisoria. Zero. Voi ve lo immaginate Netflix che in homepage mette “Aoh, se vuoi proporci qualcosa scrivici pure! Tel chi l’indiriss!”? Noi, no.
Per proporre qualcosa in un contesto di qualità devi essere già esperto del contesto; se sei esperto del contesto, sai quali sono gli stakeholder e/o come fare per arrivarci. E’ un filtro doveroso e necessario, per non essere ricoperti di rumenta. State pur certi di una cosa: nell’epoca del web e della comunicazione globale veloce ed istantanea, se una cosa vale veramente fa molto più in fretta a farsi notare, anche se non ha nessun tipo di “protezione” o raccomandazione alle spalle. Certo, ci sono sempre le scoperte che arrivano dal nulla, dall’underground; ma non crediamo che il ruolo di it’s Art sia quello di scopritore di nuovi talenti in erbissima, non crediamo sia una specie di avventuroso “A&R della cultura”; doveva e deve essere, a giudicare dalle parole e dai toni di Franceschini e delle istituzioni, una cosa efficace, fatta bene, in grado di rappresentare la qualità italiana consolidata e di creare valore, aiutando i migliori talenti di casa nostra penalizzati dai lockdwon pandemici e dalla possibilità di lavorare normalmente.
Insomma, si parte maluccio, proprio maluccio. Vediamo ora quale sarà il seguito. Ma se le risorse (già contate) dello Stato per la cultura e lo spettacolo saranno buttate in un calderone sterile e raccogliticcio, invece di darlo tutto a chi da anni fa cultura sul campo e alle associazioni che aggregano chi ogni giorno mette in pratica e rischia sulla propria pelle ciò che significa imprenditorialità culturale, almeno vogliamo toglierci lo sfizio di non osservare in silenzio. Ma di rompere, un po’, i coglioni.