21 giugno 1991: tutto inizia da una valle dalle parti di Longstock, nello Hampshire. Là dove, per la prima volta, alcuni sound system fanno la loro chiassosa comparsa fra le tende, i carri e le roulotte colorate di quei quattromila tra travellers, nomadi e hippy che – orfani del grande festival di Stonehenge in seguito alla battaglia dei Beanfield – dal 1985 ripiegano su quel luogo a 20 km dal cerchio di megaliti per festeggiare in musica il Solstizio d’Estate.
Accampato lungo la strada sterrata, un gruppo di giovani squatter giunto lì da Londra – per l’appunto, intenzionato a fare un bel po’ di bordello col suo impianto audio da 4500 watt – all’albeggiare capisce all’improvviso (grazie anche alla consapevolezza “lisergica” maturata attorno a un falò) di avere una missione da compiere.
È in questo momento che comincia la vita nomade di Spiral Tribe, inaugurata con una memorabile estate alla ricerca di luoghi isolati e idilliaci incastonati nella campagna inglese. Luoghi da occupare clandestinamente e in modo temporaneo, portandosi dietro centinaia (prima) e migliaia (poi) di nuovi raver, che via via si facevano affascinare dalle loro scelte e da quei rituali collettivi da celebrare ogni weekend in un luogo diverso (e reso noto solo all’ultimo momento) in mezzo alla natura. Moderne feste pagane, che arrivano a protrarsi anche per giorni e giorni senza soluzione di continuità, officiate fra droghe psicotorope ed allucinogene e immerse in un mare di bassi distorti e ritmi serrati, prodotti da campionatori, drum machine e vinili acid house o di techno detroitiana.
A capo di tutto questo un’entità senza volto: Spiral Tribe, appunto. Un clan anonimo anche perché contraddistinto da un’etica ben precisa: bandire dalla consolle ogni forma di protagonismo. Protagonismo che tuttavia, man mano che quelle feste proseguivano illegali e gratuite, in breve tempo le fu involontariamente “imposto” dai media anglosassoni: rave dopo rave questa “scheggia impazzita” (e consapevole, ed autonoma) finiva sulle pagine di tutti i giornali della nazione. Il che, purtroppo, non portò a niente di buono: nel maggio del 1992, all’alba del settimo giorno di un enorme raduno a Castlemorton Common (che, con i suoi 30.000 partecipanti sarebbe entrato nella storia come il più grande festival gratuito e illegale d’Inghilterra), tredici membri della Tribe vengono arrestati e il loro sound system viene confiscato dalle autorità di polizia. I reati contestati sono più d’uno, fra cui, ovviamente, il “disturbo della quiete pubblica”.
Inizia in quel momento un dibattimento processuale che si protrae per quasi due anni (un’eternità, per gli standard inglesi) e che costa ai contribuenti britannici 4 milioni di sterline, ma tutto questo discutibile sforzo della pubblica autorità finisce per sfociare in un verdetto di “non colpevolezza” (quello che ispira il titolo dell’EP fatto uscire dal clan nel 1994).
L’esperienza dura e l’introduzione di ordinanze e leggi sempre più restrittive in merito a raduni e rave spingono comunque una parte del collettivo a prendere baracca e burattini e a montare su camion e furgoni puntando verso l’Europa, terra tutta da conquistare con la loro visione, la loro energia e i loro magnetici rituali danzanti.
Sono passati più o meno trent’anni, da quegli eventi. Eventi che hanno lasciato un segno assolutamente indelebile, un segno che sotto molti punti di vista – anche parecchio sotterranei – vive ancora. Abbiamo deciso quindi di concederci un lungo confronto con Ixindamix, che di Spiral Tribe è storica dj e produttrice. Da cinque anni ha messo le radici a Berlino, dove continua a portare avanti l’attività della sua label, Audiotrix (fondata a Parigi ancora nel 1999 assieme al suo compagno Meltdown Mickey), e soprattutto la rigorosa filosofia DIY che ha sempre contraddistinto il collettivo.
Ixy è instancabile. Nell’ultimo anno, quando buona parte del mondo – anche quello artistico – si è fermata e/o ha giocato un po’ al piccolo cabotaggio, ha dato alle stampe il suo ultimo album di studio (“The Underground Tree”), fondato una nuova etichetta (la Don’t Panik, che nasce dalla sua collaborazione col produttore italiano Maskk, inaugurata a gennaio scorso con l’uscita dell’EP “Pamdempanik”) e pubblicato un nuovo singolo (“Hathor She is”) targato Bad Girlz, il duo che ha fondato quindici anni fa assieme alla sua amica di sempre, Simone Feeney. Meglio conosciuta come Sim Simmer, quest’ultima è l’autrice delle liriche di alcune delle tracce più iconiche degli Spiral Tribe, fra quelle che hanno “avvolto” rave e manifestazioni antagoniste in tutta Europa – e proprio lei, a sorpresa, si unisce a questa nostra chiacchierata, verso la fine, a rendere ancora più ricco un incredibile affresco di ricordi, considerazioni, progetti presenti e futuri.
Ixy, questa cosa che ho letto che all’inizio degli anni ’90 te ne andavi in giro su un carro trainato da cavalli suona incredibile oggi…
Sì, ho lasciato casa per vivere on the road quando avevo 17 anni, per unirmi alla carovana di gente che girava su carri trainati dai cavalli. Andavamo ai festival gratuiti che i travellers organizzavano in giro per l’Inghilterra, festival con band rock o punk dell’epoca; al tempo c’erano un sacco di new age travellers che seguivano il circuito dei festival gratuiti, e questo era uno dei modi in cui chi magari non aveva una patente poteva spostarsi. Sono andata in giro così per circa tre anni, cercando di racimolare soldi con lavori stagionali come la raccolta di frutta nelle campagne inglesi, finché non mi sono unita agli Spiral Tribe.
E da lì la tua vita è cambiata…
Eh sì, avevo 20 anni ed era l’estate del ’91, c’era un piccolo festival a Stoney Cross nello Hampshire e loro erano là con il loro sound system. Ne rimasi affascinata e iniziai a seguire tutti i rave che organizzarono da lì a seguire. Sul mio carro c’era un ghetto blaster da cui sparavo musica; così un giorno, incuriosite, Simone, ossia Sim Simmer, la mia socia nel progetto Bad Girlz, e Debbie, che oggi è mia cognata e che insieme a Mark Angelo si è sempre occupata delle grafiche degli Spiral Tribe e della maggior parte di quelle delle uscite della mia label Audiotrix, mi chiesero se volevo mettere su un po’ di musica in console alla Green house, il loro squat di Londra all’epoca. Da quel momento ho capito che quella era la mia strada. Ho iniziato a fare pratica, a confezionare mixtape e poi pian piano a suonare in consolle durante le feste. Credo fosse scritto nel destino che dovessi diventare dj.
(Vita da traveller; continua sotto)
E quando invece hai capito che volevi anche produrre musica?
Fu qualche anno dopo, ero a Berlino. La prima volta che sono stata in uno studio a fare una track: è stato per distrarmi durante gli ultimi mesi di gravidanza, durante l’inverno. Era molto freddo e allora pensavo a tutti gli altri ed ero un po’ frustrata perché per tutto il resto della Tribe le cose procedevano normalmente. Loro continuavano a organizzare feste e a bere, e io in qualche modo non ero coinvolta perché stavo aspettando un bambino e quelle cose non le potevo fare. Così Debbie mi suggerì di andare in studio con Simon e Seb (Crystal Distorsion e 69db, dj e produttori della Tribe NdR) e imparare a come usarlo per fare produzione ed è esattamente quello che è successo.
Immagino non sia stato affatto facile portare avanti la tua etichetta e i tuoi numerosissimi progetti in tutti questi anni, essendo madre…
Bè, una delle cose positive di vivere in una tribe è che ci sono sempre persone pronte ad aiutarti. Non è certo la stessa cosa di essere una madre da sola che vive in un isolato di palazzoni e che magari non ha amici. Nel nostro sound system c’erano un sacco di ragazze sempre pronte a dare una mano con i bambini, e questa è stata una bellissima cosa.
A proposito… una volta hai detto che essere una donna all’interno del movimento tekno è un vantaggio, cosa intendevi esattamente?
Sai, onestamente non mi ricordo di quella intervista, dev’essere di un sacco di tempo fa… In realtà non penso che sia un vantaggio, ma credo di aver risposto così perché così tanta gente sostiene che è duro essere donna nell’industria musicale, e sono certa che questo sia vero, ma per quanto mi riguarda non è stato il mio caso. Il fatto che fossi donna non ha assolutamente inciso su quello che ho fatto in tutti questi anni.
Bene, ma torniamo ai giorni degli Spiral Tribe, quali sono i tuoi ricordi di quella cosa incredibile che fu il festival di Castlemorton Common?
All’epoca di Castlemorton non facevo ancora realmente parte della tribe, ero solo una traveller, mi presentavo ai party ma ero ancora col mio carro e il mio cavallo. Ovviamente è stata una cosa fantastica, ma non credo che sia stato uno dei miei festival preferiti. Penso che l’anno prima, il ’91, fu veramente un anno incredibile, di grandi festival non stop. Castelmorton era una cosa troppo grande e dispersiva e poi, certo, alla fine, visto che Spiral Tribe era l’ultimo sound system a suonare e avevamo fatto mattina come ci piaceva fare sempre, siamo stati tutti arrestati e hanno addossato tutta la colpa a noi.
Sì, e poi ci fu quel processo andato avanti due anni, uno dei più lunghi nella storia inglese…
Già, ma venire arrestati e il fatto che ci avessero confiscato tutto, che avessimo perso tutto, è stato ovviamente un trigger perché quell’anno decidessimo di muoverci e partire per l’Europa. Anche perché con tutte le restrizioni che erano entrate in atto in Inghilterra dopo quel festival era diventato molto più difficile fare quello che volevamo fare, che alla fine dei conti era organizzare feste.
Così per avere abbastanza soldi per partire accettaste un contratto con la Big Life…
Sì, firmammo un contratto con la Big Life, che all’epoca era anche l’etichetta di Youth dei Killing Joke, che ci aveva fatto un remix per “Forward the Revolution”. Con i soldi che ci diedero pagammo il nostro studio, che è lo studio dove ho imparato a fare musica e che al tempo era assolutamente il top della gamma. Intendo: non so quanto potesse costare, ma non avresti mai potuto permetterti di prendere uno studio come quello a quei tempi senza aver firmato con un’etichetta. Con quello studio mobile approntato sul nostro camion da circo poco dopo partimmo e girammo per l’Europa e lì dentro sono stati fatti praticamente tutti i dischi della nostra label Network 23.
(Continua sotto)
Alla fine avete fatto un bel giro. Germania, Francia, Spagna, ma anche Austria e Repubblica Ceca… Ti ricordi quando è stata la prima volta che siete arrivati con la Tribe in Italia?
Era il 1996. Venimmo perché ci piaceva la pizza! Ovviamente sto scherzando. Mi ricordo che io e Mickey (MeltDown Mickey, altro dj della Tribe, compagno di Ixy, NdR) arrivammo prima degli altri. Ci trovavamo in Austria e l’idea venne a me e a lui perché non ci eravamo mai stati prima e non avevamo mai organizzato party là. Allora andammo in avanscoperta, prima che arrivassero tutti gli altri. Facemmo una ricerca e in qualche modo ci ritrovammo alla Cascina di Milano dove conoscemmo della gente che poi ci mise in contatto con altra gente del Link di Bologna, ossia il luogo dove abbiamo fatto il nostro primo party in Italia e dove, devo dire, abbiamo veramente avuto un’accoglienza incredibile.
(Continua sotto)
Ricordo una serata qualche anno dopo nel grande capannone sul retro del Link a Bologna in cui suonasti fino alle sette del mattino. Ti venne chiesto di fermarti, ma la gente era così carica e felice che avrebbe ballato ancora sino a sera.
Già, abbiamo veramente apprezzato il grande spirito per la festa degli italiani. Credo che l’Italia, insieme alla Francia sia uno dei posti dove gli Spiral Tribe abbiano più seguito. Sono venuta a suonare un sacco di volte da voi e ovviamente nel tempo mi sono innamorata di tutte le cose positive del vostro paese, dove mi sento molto a casa.
Dal 2013 hai anche questo progetto, Don’t Panik, insieme a Maskk dello storico sound system romano Kernel Panik. Il video di “Stompdapanik”, prima traccia del vostro nuovo EP, contiene bellissime immagini di repertorio dei free parties inglesi dei primi anni ’90, e ora avete anche creato una nuova etichetta. Pensate di pubblicare altri artisti della scena tekno o esclusivamente vostre produzioni?
(Continua sotto)
Sì, il video lo ha girato mia figlia Minnie e con Maskk siamo in contatto dagli anni ’90. Abbiamo parlato molto del fatto di pubblicare altri artisti sull’etichetta ma penso che all’inizio, visto che è nata dalla nostra collaborazione come Don’t Panik, faremo uscire solo roba nostra e poi più avanti magari coinvolgeremo altri artisti. Anche perché, sai, a volte ho così tanti progetti da portare avanti che sento di non riuscire a concentrarmi abbastanza su ciascuno di essi come dovrei. Se c’è una sola cosa positiva di tutto questo lockdown a causa della pandemia, è il fatto che sono stata in grado di prendermi un po’ più di tempo per produrre, per fare il nuovo album, per lavorare all’etichetta di nuovo, senza dover pensare come al solito ad avere un live set pronto per andare a suonare fuori dalla Germania durante il weekend. Cosa che è stata bella, ma ovviamente non mi piacerà per sempre.
Eh, certo…
È buffo perché prima del lockdown, letteralmente per anni e anni, ho sentito la pressione di avere musica pronta da suonare ogni weekend. Anche perché ho sempre bisogno di aggiungere qualcosa ad ogni live set, altrimenti mi annoio: devo infatti sempre mantenere la cosa interessante per me e dunque anche per tutti gli altri che mi ascoltano. Questa è stata la prima volta che mi sono ritrovata a non dovere preparare un live set e a non averne uno pronto, e se ora tu mi proponessi di fare una data domani probabilmente non sarei in grado di farla.
Perdonami ma stento a crederci…
No, è così. In realtà ho bisogno di una data in vista che mi motivi a prepararlo, oppure di nuova strumentazione con cui suonare. Anche per questo ho ordinato un nuovo piccolo synth di una campagna su Kickstarter che spero rappresenterà il piccolo stimolo di cui ho bisogno per ripartire nuovamente. Quando arriverà sarà primavera e poi arriverà l’estate e in estate, bè, sono certa che tornerò a suonare.
Capisco. Nel frattempo hai altri progetti in uscita?
Nel frattempo uscirà una esclusiva su Bandcamp di una traccia che ho fatto usando un nuovo controller MPE, il LinnStrument 128, che fa le veci di una keyboard per comporre musica elettronica. È un nuovo modo di suonare con il MIDI perciò ho pensato a quello come a una sorta di ‘next step’ tecnologico. Si tratta di una produzione un po’ sperimentale, in cui ho usato diversi set di vari synth che rispondono a quel controller, per il live sarà un’altra cosa ancora ma appunto per prepararlo aspetto che venga il momento di poter suonare.
Immagino non apprezzerai particolarmente questi eventi in streaming, che al momento tutti i musicisti sono praticamente costretti a fare…
No, non mi sono mai veramente piaciuti. Anche perché ora sono migliorata, ma un tempo ero molto, molto timida: non mi è mai piaciuto stare davanti all’obbiettivo o venire filmata, e soprattutto quella cosa di avere la camera puntata addosso tutto il tempo. Poi gioca la sua parte anche la mancanza del pubblico, che ovviamente è quello che ti ispira per suonare, il poter captare il suo mood e capire in che direzione andare, che tipo di pezzi o quale velocità sono adatti a quel momento. Perciò, anche se ho fatto qualche streaming perché apprezzavo il fatto che ci fosse gente che li apprezzasse, ora non ho più tanta voglia di farli.
A proposito, come è cambiato il tuo pubblico negli anni? In 30 anni ormai…
Non so se il tipo di pubblico che mi segue sia cambiato molto, in realtà. A parte il fatto che la maggior parte è certamente più giovane e io intanto invecchio ma, sai, faccio un tipo di musica che piace più alla gente più giovane, che è quella che più tende ad uscire per andare a ballare. Perché alla fine di questo si parla, di dance music.
Certo. Mi domandavo, so che non è propriamente la tua tazza di tè, ma ormai vivi a Berlino da un po’, pensi di risentire in qualche modo dell’influenza della scena musicale elettronica locale?
Non molto ad essere oneste perché, anche se abito qui da cinque anni, non ci ho mai suonato molto, forse due o tre volte l’anno, il resto del tempo facevo date altrove, come in Francia e in Italia (poi ovvio, col lockdown le cose sono cambiate). Credo comunque che in futuro sarà diverso: ci vorrà un po’ di tempo, ma vorrei e spero di lavorare un po’ di più in Germania e a Berlino, in primis per contribuire a ridurre l’effetto serra sul pianeta. Non sembra aver senso prendere un aereo ogni weekend per andare a suonare, ma… Ok, sono andata un po’ off topic rispetto alla tua domanda.
Sì, ma è comunque interessante sapere che nutri ancor oggi quell’attenzione per l’ambiente che contraddistingueva gli Spiral Tribe
Sì, alla fine delle feste ripulivamo sempre gli spazi che avevamo occupato temporaneamente: questa cosa era molto sentita da tutti, anche se con l’accrescersi del numero di persone che le frequentavano poi divenne un po’ più complicato. Comunque, tornando alla tua precedente domanda: no, non sono particolarmente ispirata dalla musica qui, anche se penso che la cosa positiva nella scena di Berlino sia che ci sono dei club fantastici, che è forse anche una delle ragioni per cui qui non c’è una grande scena di free parties, alcuni club sono veramente pazzeschi.
Già, e purtroppo ora sono tutti chiusi… So che prima dell’emergenza Covid anche tu organizzavi dei party underground, i Freaky 23, in un tuo spazio chiamato The Racket Stack a Prenzlauerberg insieme ad altre realtà come The Wild Waste Gallery, Czentrifuga e Kollage Kollective. Hai il vago sentore che in qualche modo qualcosa potrebbe smuoversi presto per la musica?
Bè, ora siamo ancora sotto lockdown, al momento non succede niente, a parte le manifestazioni in strada o le cose che sono consentite ufficialmente. Un paio di settimane fa ad esempio siamo andati a questa grande manifestazione contro la chiusura del Kopi, uno degli ultimi posti occupati rimasti a condividere un’area di sosta per i caravan dei traveller nel centro della città di cui ovviamente i costruttori si vogliono sbarazzare, perché alla fine, si sa, tutto è sempre legato e si riduce alla gentrificazione. Non so che cosa succederà, veramente, penso però che se inizieranno a introdurre nuove norme e regolamenti e il passaporto sanitario, una cosa che tutto questo sortirà sarà incoraggiare l’underground a crescere nuovamente: perché normalmente è quello che succede quando iniziano a darti troppe nuove regole.
In effetti spesso è quel che accade… Passando alle tue ultimi produzioni, vorrei chiederti di “The Underground Tree”, uscito lo scorso anno. Con questo album in qualche modo sembra tu abbia voluto chiudere un cerchio. Ci sono tutti questi membri della tua famiglia allargata e anche questo messaggio che lanci alle nuove generazioni nella track d’n’b coi tuoi vocals che chiude l’album, “Reserve the Right”. È un po’ come se dicessi “Ragazzi, ora è il vostro turno!“.
Sì, forse è un po’ così. Erano dieci anni che dicevo che volevo fare un disco mio. Ricordo che dicevo in giro “Sto facendo un album” e poi passati dieci anni ancora l’album non era uscito e così ad un certo punto, all’inizio del 2020, ho deciso di prendere una pausa e smettere di fare date per tre mesi, il che è stato ironico perché è successo proprio tre mesi prima di quando ci ritrovassimo tutti in casa in pausa per un anno… Però devo dire che “The Underground Tree” è uscito fuori molto velocemente e ne sono stata molto contenta, persino sorpresa. Una delle cose che più mi piacciono di quest’album è che non mi sono fissata su nessuno stile e ci ho messo un po’ di questo e un po’ di quello, senza pensarci troppo su.
Già, oltre a d’n’b, tekno, garage e house c’è anche l’electroswing e poi i featuring di Sim Simmer, Scallywag e Jeff 23, tutti membri degli Spiral Tribe, senza contare l’artwork della copertina curato da tua figlia Minnie… un vero affare di famiglia.
Eh, sì. Minnie poi è veramente molto talentuosa, fa anche dipinti. Sono molto soddisfatta dell’albero che ha disegnato per la copertina, e anche delle grafiche curate da sua zia Debbie. Per quanto riguarda le voci, come puoi comprendere, Simone è stata un’ovvia scelta visto che già collaboriamo nel progetto Bad Girlz, e con Scallywag ci siamo rincontrati al Boomtown Festival in Inghilterra lo scorso anno dove suonava tutta la storica parte inglese della Tribe, incluso Jeff23. Sapevo che Scallywag veniva allo street rave che ogni anno organizzano durante il Boomtown e lo avevo contattato prima per chiedergli di fare MCing durante il mio dj set. Ho scaricato un sacco di track old school e breakbeat, e abbiamo fatto questo set insieme là; così gli ho proposto di collaborare anche al disco e sono nati i brani “Boom Boom Boom” e “Wotcha Braincells”. Amo molto lavorare con le voci e peraltro penso che di quell’album le tracce con i vocals siano quelle che funzionano meglio e che piacciono di più.
Volevo appunto chiederti di un altro brano con vocals presente nel disco, “Yodelix” con Roberta Carrieri. Come è nata quella collaborazione e l’idea di quell’electro yodel che si interseca con l’inconfondibile cowbell della 808? È decisamente particolare…
Sì, è veramente insolito… Bè, è una storia divertente, perché quello in realtà era un vecchio progetto che era stato accantonato. Con Roberta ci siamo conosciute una decina di anni fa a un matrimonio di amici dei Mutoid a Santarcangelo quando lei, alla fine della festa di matrimonio aveva fatto questo incredibile yodel ed io le avevo chiesto se poteva inciderlo e farmelo avere. Lei mi inviò la registrazione dello yodel e all’epoca avevo iniziato a lavorare sopra a quella traccia ma poi non l’avevo mai finita. Solo recentemente l’ho ritrovata sul mio computer e ho pensato che volevo chiuderla e metterla nell’abum. Così ho contattato Roberta e le ho chiesto se fosse d’accordo. Lei mi ha dato l’ok, et voilà.
Come si evince anche dal testo della già citata “Reserve the Right” (“Mi riservo il diritto di rimanere anonima e di fare la mia cosa e non starò mai sotto il controllo del sistema“, NdR), con Audiotrix sei da sempre un esempio di indipendenza e di integrità, avendo scelto di produrre, pubblicare e veicolare da sola la tua musica e quella di altri dj della scena tekno. Inoltre, all’inizio degli anni duemila, quando ti trovavi ancora in Francia, quelli di Expressillon e Perce Oreille con cui distribuivi i tuoi dischi erano fra i primi shop di musica on line, quindi penso a te anche come una pioniera in questo senso ma… dopo tutti questi anni, non hai mai pensato di accettare di pubblicare le tue cose con una etichetta più grande e magari alleggerire il tuo lavoro?
No, e comunque non ho mai ricevuto offerte da major o etichette importanti. Credo che una delle ragioni per cui all’inizio ero così determinata a creare una mia label e a curare le mie produzioni sia stata che la musica è una cosa talmente individuale che non può adattarsi all’etichetta di qualcun altro, o all’idea che qualcun altro ha della musica che dovresti fare. Avere una etichetta tua ti consente di poter fare appunto la tua cosa e ci sono un sacco di aspetti positivi nel fare le cose da soli, tutto appartiene completamente a te e non hai il problema di gente che ti dice quello che puoi o che non puoi fare, o come dovrebbe essere la tua musica. Se ricordo bene, il primo disco che ho prodotto è stato “Dj Rubbish”, che fra l’altro è stato stampato a Milano. Da quel momento ho pensato “Bè, lo posso fare da me“, e così è stato un po’ anche quando il disco è arrivato nei negozi, è qualcosa che ha funzionato e che sembra continui a funzionare per me, perciò penso che continuerò così.
(Continua sotto)
Certo.
Ma senti, dimenticavo: prima ho parlato con Simone e mi ha detto che se vuoi fare due chiacchiere anche con lei sul nostro progetto Bad Girlz e magari anche su qualcosa riguardante gli Spiral Tribe possiamo chiamarla. Che ne dici?
Benissimo: molto, molto volentieri! ma prima se posso vorrei togliermi una curiosità che ho da sempre. La parola “formaggio” compare spesso nelle tue produzioni: Anti Cheese Alliance, The Pro-Cheese Two, il brano “Blue Cheese Blu’z” con le Bad Girlz… si potrebbe definire un genere musicale o si tratta semplicemente di un inside joke?
Ah, certo. La faccenda del “cheese” venne fuori inizialmente da uno snack chiamato Quavers che abbiamo in Inghilterra che ha un gusto al formaggio. Visto che “Quavers” faceva rima con “ravers“, all’epoca “Cheesy Quavers” divenne il modo slang per dire “ravers” e in breve tempo ogni cosa venne trasformata in “cheesy“, che so, le scarpe da basket o da ginnastica divennero le “cheesy boots“, “raving” era diventato “cheesing” e così via. Perciò decisi di chiamare le mie produzioni su Network23 “Acid Cheese”, che era come una sublabel il cui nome sta per qualcosa che ha a che fare con i rave, il ballare o comunque qualcosa di… “cheesy“!
Ah, ecco, grazie
Allora invitiamo Simone?
Certo!
(Simone si collega)
Ciao Simone!
Simone: Ciao ragazze!
Comincio subito col dirti che ho molto apprezzato “The Ones that Left”, il tuo featuring nel nuovo disco di Ixy. È un brano molto toccante, ed è molto bella l’idea degli amici scomparsi che ora sono “in una valle sottostante“, come se stessero ancora ballando, vivi e vegeti, da qualche altra parte. Immagino abbiate perso molte persone care nel corso degli anni…
Simone: “The Ones That Left” è un tributo a coloro che sono morti giovani, che per qualsiasi ragione ci hanno lasciati prima del dovuto. C’erano sicuramente alcune persone nello specifico per cui l’ho scritta, incluso mio fratello.
Capisco, mi spiace… Vorrei anche chiederti dei tuoi brani con gli Spiral Tribe: come sono nati i testi di quelli che sono stati i veri e propri anthem della tribe? Intendo ovviamente “Breach the Peace”, in cui fra samples delle news degli arresti di Castlemorton, declami “I am a savage and I don’t understand how the beauty of earth can be sold back to man“, e “Forward the Revolution”, con il suo celebre slogan “You Might Stop the Party but you Can’t Stop the Future!“…
Simone: I testi di “Breach the Peace” sono stati ispirati da un discorso fatto da un leader degli indiani d’America, Chief Seattle. Mi ricordo di averlo letto, di essere entrata in risonanza con quelle parole e averlo scritto subito dopo: penso che sia stato uno sfogo lirico istintivo per tutto quello che stava succedendo per noi in quel periodo. Lo stesso è avvenuto con “Forward the Revolution”: ho semplicemente usato tutto quello che stava succedendo intorno a me, parole, pensieri e idee, e ho trovato un modo per metterli in un testo.
Nel video di quest’ultimo comparivano per la prima volta le vostre facce, sino ad allora avvolte nel mistero…
Simone: Eh, il fatto di cantare su un disco e comparire in un video è stato un po’ conflittuale per me, perché sino ad allora Spiral Tribe era stata un’entità senza volto e all’insegna del “no ego“…
(Ixy e Simone; continua sotto)
Oltre a bandire il protagonismo dalla musica, Spiral Tribe e il movimento tekno in generale sembravano realizzare il concetto utopistico di unire e far entrare in sintonia attraverso la musica e il ballo gente di diversa provenienza ed estrazione sociale e culturale. Era questo il vostro intento o è stato qualcosa che avete realizzato man mano che le cose accadevano?
Simone: Penso che sia iniziato tutto in modo molto innocente, semplicemente dal fatto che volevamo far proseguire la musica e attraverso ciò siamo stati…
Ixy: … spiralizzati!
Simone: Andavamo fuori Londra, in mezzo alla natura, ed era incredibilmente stimolante. Penso che la cosa si sia dispiegata mentre la stavamo facendo. Eravamo veramente “nel” momento: non c’era un’agenda programmata per cui stavamo facendo quel che stavamo facendo, le cose stavano succedendo in quel momento e questo è ciò che ci ha portato a proseguire.
Non pensate ad esempio che la nascita di Spiral Tribe possa essere stata in qualche modo influenzata dalla forte repressione che stavate vivendo in quel particolare momento in Inghilterra durante il governo di Margareth Thatcher?
Simone: Penso che vi siano così tanti elementi, così tante componenti… C’era un mix di gente di tutte le età, era una cosa magica che stava succedendo allora. Puoi andare indietro nel tempo e cercare una motivazione, pensando che sia successo per questa ragione o per quest’altra: io credo che, come in tutto, ci siano molte versioni della verità ma è impossibile dire esattamente cosa accadde, il fatto per cui sia successo quello che è successo proprio in quel momento storico. Questa è la mia prospettiva. Qualcun altro potrebbe darti un’altra versione della storia, insomma, fornendo spiegazioni di un certo tipo; ma penso che, sì, probabilmente da un lato ci sono stati un sacco di elementi di ciò che era avvenuto in precedenza che hanno reso quello un momento ideale per il verificarsi di quella particolare alchimia, ma dall’altro non penso tuttavia che si possa individuare un particolare elemento politico a cui si possano attribuire gli eventi.
Ixy: Personalmente non ero particolarmente consapevole di quello che stava succedendo politicamente in quel momento; e questo non è per dire che non abbia influenzato il modo in cui eravamo all’epoca e il perché vivevamo così, anzi, è semplicemente che io allora non vi prestavo assolutamente attenzione. Ero solo interessata a fare festa, incredibilmente ispirata da quella nuova musica e dalle persone che incontravo ogni weekend.
Ogni weekend, per sentirsi connessi gli uni con gli altri, e in armonia con la musica e con la natura, si faceva uso di Ecstasy, MDMA, funghetti allucinogeni e non solo, perché, si sa, stiamo parlando di una controcultura strettamente legata all’uso di certe sostanze demonizzate e proibite, che tuttavia ormai da alcuni anni – penso ad esempio a psilocibine e MDMA – sono state in parte riabilitate come terapeutiche nel campo della psichiatria e delle neuroscienze. Pensate possano avere ispirato in qualche modo anche la musica della Tribe?
Simone: Eh, che cosa ha ispirato cosa, chi lo sa… Ancora una volta ti rispondo dicendoti che penso fosse una alchimia di cose che hanno combaciato fra loro. D’altronde è molto interessante come cosa, perché c’è un’intera generazione adesso che è cresciuta in quell’ambiente e nei party dell’epoca e, come dici, sì, l’MDMA, i funghetti, persino la ketamina adesso sono usate per curare le persone che hanno malattie mentali, il THC e il CBD vengono usati per i pazienti con tumori, le persone usano microdosi di funghetti e microdosi di LSD per la depressione, e penso che questo sia il futuro, quello che sarà il futuro.
“You Might Stop the Party But you Can’t Stop the Future“, insomma…
Simone: Eh, ovviamente all’epoca non lo avevamo realizzato, non è che pensavamo “Oh, guarda, questa roba sarà utilissima quando il mio matrimonio fallirà fra vent’anni” (risate, NdR); ma tutto ciò è magnifico, perché mostra chiaramente come niente sia scolpito sulla pietra e di come sia un bene, in un certo senso, spingersi oltre i limiti, perché è così che avvengono i cambiamenti.
E cambiamenti, quantomeno per quanto riguarda la musica, ne avete portati. Penso alla legacy che avete lasciato. Spiral Tribe era una specie di pifferaio magico che appena giungeva in un posto stimolava la nascita di altri sound system underground locali. “Facciamo andare avanti la festa, spostiamola da qualche altra parte” erano le vostre parole d’ordine.
Ixy: Sì, è successo in un sacco di posti, come nella Repubblica Ceca, dove all’inizio c’erano dieci persone a sentirci suonare, poi dopo due anni quelle stesse persone avevano creato il loro sound system ed erano diventate dj. E questo succedeva in ogni posto noi arrivassimo, ma diciamo che in certi paesi prendeva piede decisamente più che in altri: lasciavamo un’impronta più profonda. Come probabilmente fu in Francia e appunto nella Repubblica Ceca, dove ancora oggi hanno una grande scena di tekno free parties.
Simone: Già, e il Czech-Tek fu importante. Penso anche che la Repubblica Ceca fosse proprio in una posizione strategica. Come paese era un buon meeting point. La birra e il cibo erano molto economici. Era decisamente un bel posto dove stare e organizzare feste…
Feste che appunto, come il Czech-Tek, andavano avanti per giorni e giorni e ai quali prendevano parte tanti sound system: quanto era complicato organizzare teknival come quelli?
Ixy: Sì, coi teknival copiavamo un po’ l’idea dei festival gratuiti che si tenevano in Inghilterra, ma con una line up di soli sound system tekno. Bè, normalmente quando arrivavamo nei posti avevamo già un paio di contatti: gruppi locali o squat, come successe anche in Italia. Serviva qualcuno per iniziare, perché a quei tempi avevi bisogno di trovare un luogo per iniziare, ma anche di linee telefoniche separate alle quali la gente potesse chiamare per sapere dove era il party e recarsi lì.
Bene, grazie davvero per questo flashback indietro nel tempo, ora tornerei al presente con le Bad Girlz, nome con il quale avete inciso due album e diversi singoli fra cui la super hit “Get A Little Fizzee” e da ormai più di dieci anni andate in giro a fare live. Come è nato – cito l’ironica presentazione del vostro progetto – “il più improbabile fenomeno uscito dalle profondità del rave underground dalla nascita dell’elettronica“? (risate, NdR)
Ixy: Diciamo che non ci siamo praticamente viste per un sacco di tempo poi ad un certo punto, intorno al 2006 Simone è venuta a stare in Francia, vicino a dove abitavamo noi in quel periodo, e abbiamo iniziato nuovamente a frequentarci. Il progetto Bad Girlz è partito dall’idea di rifare insieme un remix di “Breach the Peace”, cosa che poi ha portato al pezzo “Get a Little Fizzee” e al nostro primo album “It’s a Funkin’ Rap!”.
Simone: Sì, è partito tutto dal ‘refake’ di “Breach the Peace”, eravamo un po’ deluse da quanto il fenomeno rave fosse diventato “serio” e volevamo portare un po’ di divertimento nel dancefloor. Poco dopo è arrivato “Get a Little Fizzee”.
(Il refake di “Breech the Peace”; continua sotto)
In generale “It’s a Funkin’ Rap” è un album super ballabile con quei pezzi electro rap in stile Salt’n’Pepa e la drum’n’bass ma “Get a Little Fizzee” ha veramente un beat molto potente, è impossibile ascoltarlo e rimanere fermi.
Simone: Pensa che la seconda parte del testo di “Get a Little Fizzee” mi girava in testa dai tempi di “Breach the Peace” mentre la prima l’ho scritta mentre ero seduta in macchina ad aspettare che mio figlio uscisse da scuola.
Davvero? E invece come è nata l’idea del singolo che avete appena pubblicato, dedicato alla dea egizia Hathor?
(Il video di “Hathor She Is”, nella Audiotrix special edition; continua sotto)
Ixy: “Hathor she is” nasce da una vacanza che ho fatto a marzo dell’anno scorso con mio padre, che ormai ha 82 anni ed è uno storico. Una volta l’anno facciamo un viaggio insieme in un luogo storico: e una delle cose che avrebbe sempre voluto fare nella vita era visitare l’Egitto. Così siamo andati là in crociera. Durante il viaggio, quando mi volevo estraniare nella tekno, mi mettevo le cuffie e cominciavo a suonare con questa app che avevo sul mio iPad chiamata Endless. La musica di quel brano è nata così.
Non male…
Ixy: Già. Ci trovavamo ad Aswan, sul Nilo, e ovviamente quando viaggi con una di queste crociere vieni bombardato di informazioni riguardo agli aspetti storici del posto che stai visitando. Fra queste informazioni, penso di aver scelto Hathor perché era una donna ma anche e soprattutto perché era la dea legata alla musica, che è la cosa più importante nella mia vita. Così quando sono tornata, come faccio normalmente, ho mandato la musica a Simone dandole una piccola idea per i testi. Poco dopo lei li ha tirati fuori, ma siccome eravamo in lockdown e non poteva venire qua, abbiamo cercato uno studio a Palermo dove potesse incidere il cantato per poi inviarmelo.
Palermo?
Simone: Le voci le ho registrate al 90100 Soundstudio di Palermo, perché ora, praticamente da quando è partito il lockdown, abito in Sicilia. Ixy mi ha chiamata raccontandomi di questa dea egiziana e così mi sono messa a cercare informazioni su di lei e me ne sono uscita con quel testo, che è abbastanza conciso, ma nel quale ho comunque cercato di far emergere l’essenza di Hathor, il fatto che la sua essenza riviva ancora e sia ancora presente in tutte noi.
Ixy: Sì, e hai fatto un gran lavoro.
Concordo. Bene, spostiamoci dall’Egitto e torniamo nuovamente in Italia. C’è una vostra traccia chiamata appunto “Destination italia”, ma di cosa parla esattamente e come è nata?
Ixy: Quel pezzo è una sorta di racconto semiromanzato del nostro tipico weekend, delle avventure che ci capitano quando siamo in giro a fare date, il venerdì da qualche parte e il sabato da qualche altra parte.
Simone: Sì, è un pezzo con tanta ironia ma non completamente inventato. Penso che al momento in cui l’abbiamo scritto avessimo già fatto un bel po’ di date in Italia.
Ixy: Sì, le Bad Girlz hanno avuto molto successo in Italia, soprattutto fra le ragazze.
Simone: Il che è interessante perché l’Italia in realtà ha una sorta di zoccolo duro di pubblico macho – e lo posso dire perché vivo qui ormai – così immagino che possa essere di ispirazione per le ragazze vedere altre ragazze che suonano e stanno in consolle, invece di avere sempre uomini che fanno djing. Credo sia per questo che si sono fissate con noi.
Forse anche per la vostra cover di “Sisters are Doin’ it for Themselves”. E comunque penso che anche un brano come “Hathor” potrebbe tranquillamente diventare un anthem femminista…
Simone: Cosa?! (ridono entrambe, NdR)
Ok… come “Destination Italia”, anche “Vibe Don’t Pay The Rent” è un pezzo ironico ma in realtà nasconde anche una grande verità. Se ho inteso bene qui chiedete infine un riconoscimento economico per il vostro lavoro, giusto?
Ixy: Quello è una sorta di scherzo: fu un nostro amico scherzando ad uscirsene con quella frase, “la vibe non paga l’affitto“, e da lì nacque il pezzo. Ma il punto è che in passato ci era successo che alcuni tizi ci avessero detto che noi eravamo solo interessate a fare soldi e questo solo perché, come è noto, all’inizio facevamo tutto gratuitamente, ma non è un pezzo da prendere seriamente.
Simone: Certamente però in quel pezzo ci sono degli elementi di verità, dai.
Ixy: Bè, certo se tu non avessi mai fatto nulla a titolo gratuito e con una cosa commerciale facessi i milioni nessuno verrebbe a dirti “Ah, stai facendo i soldi” come se fosse una brutta cosa. Non capisco cosa ci sia di sbagliato a voler guadagnare dei soldi anche se in passato hai fatto cose a titolo gratuito. Insomma, avevamo un po’ di haters che se ne uscivano sempre con le stesse storie. Era come ascoltare un disco rotto, capisci? Bel modo di ringraziare per le cose gratuite che abbiamo fatto in passato…
Haters, davvero?
Ixy: Gente che si lamentava, diciamo.
Simone: In realtà si trattava di poche persone. Parliamo di gente che forse si risentiva di pagare 5 o 10 euro per entrare a un party, ma che aveva 100 euro di droghe in tasca: di quelli che magari spendono 100 euro per sconvolgersi, ma non sono disposti a dare un contributo per la musica che ascolteranno per le successive otto ore. Sai, certa gente proprio non ci arriva…