Ci siamo presi un po’ di tempo prima di scrivere queste righe, sappiatelo. Alla fine, capirete perché. Allora, andiamo coi fatti: come l’anno scorso e anche un po’ più dell’anno scorso, ci siamo ritrovati coinvolti nell’esperienza dello JägerMusic Lab. Bene. Se nel 2017, alla prima edizione, l’approccio era stata inizialmente scettico per poi invece trovarsi davanti una realtà molto significativa, molto ben fatta, molto ben studiata, col 2018 ovviamente le aspettative erano già alte di loro. Il che è bello, ma è anche un rischio: perché aspettative alte, spesso, uguale più possibilità di restare un po’ delusi alla fine. Era assodata la grande preparazione tecnica di Alex Tripi e Nello Greco di The Reloud, i deus ex machina del progetto; era assodata la capacità di Jägermeister di organizzare bene il tutto (infatti quest’anno ci si è ritrovati nello stesso hotel a fare da base per il Lab, e se possibile la qualità delle attività collaterali è ulteriormente migliorata); era assodato il fatto che si potesse creare un bel clima tra i partecipanti.
Anzi no. Su quest’ultimo aspetto forse c’era qualche dubbio in più. Perché quest’anno, al contrario della volta passata, ci sarebbe stato un unico vincitore, con dei premi tangibili anche dal punto di vista della carriera, e questo poteva guastare l’atmosfera, renderla un po’ troppo competitiva; oltre al “prevedibile” premio di andare a suonare negli eventi di cui Jägermeister è partner (e che eventi: ad esempio, questo weekend al Kappa FuturFestival, il festival italiano di elettronica più grande), in più entravano in campo il fatto di poter uscire per la Etruria, la label di Luca Agnelli, e di finire nel roster Reflex, una delle agenzie italiane che più e meglio lavora in campo dance, marcatamente in quello tech-house. Lo fa battendo il territorio e trovandoti le date davvero: un lavoro oscuro e faticoso, molto meno scintillante e “di profilo” del piazzare date di artisti stranieri nei nostri club, ma per questo ancora più meritorio.
Ecco, in questo modo ci avviciniamo a un punto fondamentale. Anzi: a “il” punto fondamentale. Di questo articolo, ma anche di una battaglia che sempre più connoterà Soundwall. E che del resto lo sta già connotando da tempo: pensiamo a certe scelte redazionali, pensiamo a rubriche come Giant Steps. Ovvero: in Italia c’è qualità come non mai, nel campo delle produzione e ancora di più del deejaying (…e in campo dance, marcatamente tech-house, le due cose si sovrappongono spesso e volentieri e sempre di più). E’ davvero il caso di iniziare a sostenere in modo quasi militante questa posizione. Ma non per malinteso (e stucchevole…) nazionalismo, non per un banale e populista “Prima gli italiani” pure nel campo delle dj booth di casa nostra, zero.
Ma perché prima di tutto, appunto, c’è alla base una qualità media che nell’ultimo decennio e ancora di più nell’ultimo quinquiennio è diventata da noi altissima (per motivi di cui ora vi parleremo); e poi perché la dinamica della serata che senza guest straniero non può considerarsi interessante o qualitativa è nata sì da intenti e motivi nobili (sprovincializzare il clubbing italiano, che tanto ne aveva bisogno quando era sotto scacco del “commerciale” per quanto riguarda i fatturati), ma ora sta diventando un gioco al massacro. Un po’ perché anche il “commerciale” si è tuffato a pesce in questo filone, agendo al solito alla pene di segugio quando si tratta di discernimento musicale e avvelenando così i pozzi per tutti, un po’ perché i management tedeschi e inglesi hanno fiutato l’aria e hanno iniziato a moltiplicare i prezzi dei loro assistiti, per spolpare lo spolpabile, obbligando le agenzie italiane a vendere gli artisti stranieri a prezzi che sempre più spesso fanno finire la serata in rosso invece che in attivo (…però l’artista straniero devi averlo per forza, sennò sei un club “sfigato”).
Bene. Basta. L’arrivo nelle nostre console di dj stranieri sarà sempre fondamentale – come scambio umano ed artistico – ma il bacino di talento è oggi tale, qui a casa nostra, che bisogna avere il coraggio di dirlo sempre più chiaramente: puoi fare benissimo con degli italiani. Sì. Puoi fare benissimo con degli italiani che non siano i “soliti” che ce l’hanno fatta ad Ibiza e all’estero (Carola, Alicante, Capriati… insomma, ci siamo capiti). E intendiamo: puoi fare benissimo musicalmente. Se si rimette la musica “al centro del villaggio”, come elemento-principe su cui puntare, questo significa che l’appeal pure di un dj/producer italiano, purché bravo, sarà almeno pari a quello di uno straniero. E ti costerà comunque un decimo. Quindi i conti potranno tornare ad essere ordine.
Ma appunto: purché bravo. Lo ripetiamo: purché bravo. Lo straniero è diventato così fondamentale, in console, perché abbiamo passato troppi anni a dare spazio ai dj resident locali che diventavano tali perché facevano i PR, perché portavano la cumpa di amici, perché riempivano il pullman di paganti. Una dinamica orribile, la classica furbata che in realtà sul lungo andare si ritorce contro chi la pensa, ma lì per lì non se ne accorge nessuno. Il proliferare di questi, ehm, Dj Pullman ha drammaticamente appiattito il livello dei dj resident in giro; e per questi dj resident, (anche) per proteggere se stessi e/o per stare dentro i loro limiti artistici, è diventato “normale” avere una musica abbastanza banale, poco significativa, appiattita sul suono del guest straniero (…che a sua volta è spesso appiattito su quello che funziona a Ibiza o a Berlino nei locali frequentati da spagnoli e italiani, ma questo è un altro discorso ancora). Una corsa al ribasso nata dall’aver messo in secondo, anzi, terzo piano un principio fondamentale quando si fa qualcosa di anche vagamente artistico: avere personalità, avere la propria voce, cercare di essere originali. Il giochino ha funzionato per un po’: tanti hanno fatto tanti soldi, in questi anni, faticando relativamente poco. Ma la pacchia sta per finire. Anzi: è già pesantemente agli sgoccioli, chi lavora nel settore lo sa.
E qua torniamo a bomba sullo JägerMusic Lab, sul lavoro di Alex Tripi e Nello Greco (con l’avvallo di tutta la struttura Jägermaiester che finanzia l’operazione): ancora più che nel 2017, nel 2018 durante i giorni di permanenza a Berlino dei dieci finalisti la parola d’ordine per tutti è stata “Siate originali, non copiate, dovete avere ovviamente uno standard tecnico alto ma assolutamente è fondamentale che la “vostra” musica sia “vostra” davvero, e pazienza se questo non incontro le dinamiche di mercato vincenti del momento”. La strada così sarà più lunga – non nascondiamocelo: lavorare e suonare “contro” le dinamiche di mercato ti fa faticare il triplo, stupido e superficiale negarlo – ma può dare sulla distanza più soddisfazioni. In questo momento poi è una scelta molto più “giusta” che in passato, anche a voler essere cinici e asciutti, per tutto il discorso che abbiamo fatto qua sopra: dopo l’overdose di artisti e mode importati da fuori sta per arrivare, per scelta o per necessità, una (ri)scoperta del talento locale; purché vero talento, purché significativo, purché in grado di fare la differenza musicalmente parlando.
(Alex Tripi e Nello Greco, qui assieme a Luca Pretolesi aka Digital Boy; continua sotto)
E su questo, durante lo JägerMusic Lab, si è insistito parecchio. In studio, nelle lecture, nelle esercitazioni, nei discorsi. Fare la differenza. Chiaro: di Aphex o di Villalobos ne nasce uno ogni vent’anni, se va bene, ma nel nostro piccolo possiamo tutti fare la differenza, tutti!, nel momento in cui non ci accontentiamo di suonare bene, di suonare come il genere più “affidabile” del momento (…o quello che ci pare tale), ma se cerchiamo invece di sperimentare cose nuove, inusuali, soprattutto personali. Quest’aria, nei giorni berlinesi, si è respirata parecchio. Per tutti. Il che non significa che se uno ha delle certezze deve per forza abbandonarle; significa però che deve imparare a “sfidarle”. Ecco che quindi artisti molto bravi sul “mestiere” come i Giza Dj’s, Matteo Mazke, Fabrizio De Santis, Vanessa Laino o Mia Mattiolo hanno avuto un sacco di complimenti, ma parlando tra noi giurati ci si diceva che per essere veramente tra i finalisti dovevano diventare più bravi a scompaginare, a farci sentire qualcosa che ci facesse dire “No, aspetta, che sta facendo? Questo non me l’aspettavo”; mentre invece Sauro Martinelli, un “natural born dj” che vorremmo sempre in qualsiasi serata, doveva farsi ancora le ossa sul producing.
In finale ci sono allora andati Produkkt, Stomp Boxx e Keira Meier. La terza, Keira, era l’eccezione che confermava la regola: lei è ancoratissima alle proprie certezze (techno, senza se e senza ma), ma è talmente brava e carismatica – lo è ad altissimi livelli, fidatevi – che non si poteva non portarla nella finale assoluta del Lab. Produkkt e Stomp Boxx, invece, partono da house ed electro da un lato e da techno e solo vagamente house dall’altro per dare vita a qualcosa di particolare: spesso imprevedibile, sempre creativo, sempre voglioso di fare un “passo in più” per poter offrire un tocco personale ed originale a quanto si fa. Nella finalissima – svoltasi in una location assolutamente clamorosa, a Rimini – alla fine l’ha spuntata Stomp Boxx, dopo un testa a testa nelle discussioni fra noi giurati con Keira Meier durato almeno mezz’ora di argomenti e controargomenti e controargomenti ancora: questo perché Keira, ancora più che nei giorni berlinesi, ha dimostrato una sicurezza, una forza, una qualità e una presenza davvero di livello superiore. Se avete una serata 100% techno fra le mani, invece di spendere x per un dj più o meno berghainiano iniziate a pensare di spendere un quinto (o meno) chiamando lei: a livello di aura e carisma non ci perdete nulla, anzi.
(I tre finalisti; continua sotto)
Però ecco, alla fine la scelta è caduta su Stomp Boxx, che nella sfida finale è stato più d’impatto di Produkkt, più trascinante, anche più sostanzioso e “pesante” nelle idee e nei suoni. Deve imparare a giostrare bene entusiasmo ed adrenalina quando sta in console (lì dove Produkkt invece ha già un suo sorridente equilibrio), ma la sua “techno aumentata” (multiforme, con interventi di synth, con soluzioni particolari e spettacolari e un piglio che pesca dall’euforia house ma anche dal tremendismo metal e punk hardcore) è stata davvero convincente. Con lui il rischio è che esageri, vada fuori fuoco, perda il focus: cose che si limano con l’esperienza, col suonare molto in giro. Pur non essendo giovanissimo, Stomp Boxx finora non era mai entrato nei “giri giusti”, quelli che suonano in giro, quelli di cui si parla tra addetti ai lavori: un po’ per colpa sua, un po’ perché è una persona che per vivere deve lavorare e non “giocare” a fare l’artista (con tutto quel che ne consegue), un po’ perché davvero la sua proposta artistica è fuori dalle righe, ma nel senso migliore del termine – quindi insomma non abbastanza “cool”, inquadrata ed inquadrabile secondo il galateo corrente della club culture più diffusa. Ma al diavolo la coolness e l’hype: se lo si vede e sente mentre è in console e lui è nel mood giusto, ci si esalta a dismisura. Il talento è tantissimo.
In generale comunque, lo ribadiamo, tutti i dieci finalisti dello JägerMusic Lab hanno dimostrato un livello medio molto, molto, molto alto. Tutti, ciascuno nel suo, meriterebbero tanto quanto il guest straniero di turno, nei club di casa nostra: per stile, preparazione, competenza, comunicatività, conoscenza. Segno che quando in Italia peschi, se sei un minimo attento peschi alla grande, ora. Già l’anno scorso il Lab era stato interessante come qualità complessiva, con punte notevoli; ma adesso che il contest è già più conosciuto, evidentemente è aumentato ancora di più il bacino da cui attingere: ed è un bacino da cui arrivano risorse preziose.
(La location della finale dello JägerMusic Lab 2018, a Rimini; continua sotto)
Anzi, è un bacino da cui arrivano ogni tanto risorse che ti lasciano davvero incredulo, per il potenziale che hanno. I finalisti infatti erano dieci, noi finora ne abbiamo nominati nove, forse l’avete notato: questo perché abbiamo voluto lasciare per ultima, e “fuori categoria”, Federica Ferracuti alias Hu. Esattamente come è stato deciso proprio allo JägerMusic Lab. Non ha vinto Federica, né era fra i tre finalisti: questo perché in un contesto di matrice soprattutto dance, forse il suo assetto cyber-cantautorale avrebbe fatto un po’ fatica a misurarsi in situazioni di un certo genere. Ma la sua voce, la sua capacità di (re)inventare il pop in chiave destrutturato-digitale, il suo carisma atipico ma intensissimo hanno letteralmente rapito il cuore di tutti. Alla finalissima di Rimini è stato ritagliato su di lei, esclusivamente ed espressamente per lei, lo spazio di un live vero e proprio; in più, Alex e Nello se la sono portata con sé, offrendole una residenza artistica a lungo termine – dove suonare, comporre, migliorarsi – nella loro Mat Academy. Ad ogni modo: tutti, nessuno escluso, ci siamo commossi nel conoscerla, nel sentirla suonare, nel sentirla cantare. Questa ragazza ha un mondo incredibile di potenzialità dentro di sé.
(Hu, attorniata da colleghi finalisti dello JägerMusic Lab 2018; continua sotto)
Ecco. Tutto questo entusiasmo, per Hu ma in generale per tutto lo JägerMusic Lab 2018, sappiatelo, è stato soppesato. Appunto, abbiamo aspettato passasse qualche settimana prima di scrivere; perché potevi pensare che era l’aria bella di Berlino, la simpatia umana dei concorrenti, i luoghi ameni in cui la crew di Jägermeister a farti prender bene, a farti vedere tutto rosa e tutto ganzo. Invece no. A freddo, sensazioni, idee e considerazioni continuano fortutamenete ad essere sempre le stesse.
..e sono importanti, sì. Per tutti. Fatene e facciamone tesoro.