Nella ricchezza di act assolutamente strepitosa, quasi commovente che inanella la line up dell’Electron, James Holden è di sicuro una delle gemme più luminose. Le sue produzioni parlano per lui, ma anche i suoi dj set: sempre immaginifici, mai appiattiti sul suono del momento, molto personali, molto riconoscibili. Ci vuole il talento, certo, e James ne ha; ma ci vuole anche la personalità, e in questa intervista che ha voluto rilasciarci proprio a pochi giorni dalla sua esibizione al festival svizzero lo conferma in modo molto significativo. Risposte cordiali, ma secche ed incisive.
Come descriveresti, in poche parole, il gap che separa lo stare in studio di registrazione e il presidiare una consolle come dj? Possiedi sempre la stessa attitudine e gli stessi metri di giudizio dal punto di vista creativo, o cambia qualcosa a seconda della situazione?
Effettivamente credo che il deejaying in qualche modo influisca sul mio modo di produrre. Ti faccio un esempio molto diretto: le basi concettuali di “The Inheritors” nascono dal mio “Dj Kicks” per la !K7. Tentare di mettere insieme tutte le musiche che mi piacciono, e sono molte, all’interno di un set che abbia una sua coerenza estetica è un esercizio che ti aiuta molto anche quando si tratta di riuscire a trovare il tuo “suono”, qualcosa cioè che caratterizzi in modo specifico le tue produzioni.
Sono più di quindici anni ormai che stai sulla scena elettronica. Come hai fatto a sopravvivere a tutti questi anni, alle mode che vengono e passano? Ti è mai capitato, in tutto questo tempo, di avere momenti in cui ti sentivi fuori posto o comunque sorpassato, inattuale?
Io mi sono sempre sentito fuori posto nella scena elettronica! E ti dirò, il momento peggiore è stato proprio quando io e la Border Community tutta eravamo sulla cresta dell’onda. Io preferisco molto di più procedere sottotraccia, suonare solo per la gente che ama davvero la mia musica, piuttosto che godermi i benefici dell’hype: per me sono benefici per modo di dire, visto che l’hype attira soprattutto artisti di relativo valore che provano solo a riproporre il suono del momento e pubblici, diciamo così, distratti e meno interessanti.
Quali sono i dischi che suonavi diciamo dieci anni fa, nel 2004, che ancora oggi riescono a colpire al cuore la gente in pista, a farla smuovere immancabilmente?
“Innerspace” di Mainline, “The Difference It Makes” di The MFA, “The Game” di Omid 16b e qualcosa del vecchio Plastikman.
E quali sono invece le release targate Border Community di cui, a posteriori, sei meno soddisfatto?
Credo che il tempo sia un buon giudice sulla qualità di certe uscite; il tempo, e anche la coerenza degli artisti nel portare avanti certe idee. E’ lì che si vede la qualità, così come l’onestà di fondo. Quindi sì, posso dire che a parte poche sfortunate eccezioni sono orgoglioso di quasi tutte le uscite sulla nostra label.
Ti è capitato un po’ di volte di esprimere delle opinioni piuttosto taglienti sul periodo minimal che abbiamo vissuto intensamente qualche anno fa (…e a cui siamo fortunatamente sopravvissuti, aggiungerei). Chiaro, il problema non stava nella minimal di qualità, quella creata da producer di indubbio talento, ma nella nutritissima schiera di artisti di seconda fila che si è messa banalmente a sfruttare un filone, senza farsi troppe domande e badando al sodo. Quello che ti chiedo è: com’è possibile che una musica che di suo sarebbe estrema e sperimentale sia riuscita a diventare così popolare e, insomma, così commerciale?
Guarda. Un paio di settimane fa mentre scorrazzava in mezzo ad un parco il mio cane ha trovato vicino ad un albero un pezzo di carne, che qualcuno aveva lasciato lì. Da quel momento, ogni giorno successivo ha preso ad andare verso quello stesso albero, per vedere se aveva fatto fiorire ai suoi piedi qualche altro “frutto carnoso”. Ecco: anche gli esseri umani si comportano così, con la differenza che sono più deboli, più avidi e meno amabili del mio cane.
Che aspetto hanno quelli che sono per te i club più adatti dove suonare? Hai notato differenze particolari andando da nazione a nazione, o la club culture è riuscita a costruire una vera e propria cultura globale omogenea?
A me piacciono quelli che sono i club veri e propri: soffitto basso, impianto di qualità, niente fesserie inutili. Se chiedi a me, una cultura globale omogenea – anche quando applicata al clubbing – non può che essere soprattutto una cosa negativa. Quelli che si autodefiniscono “global superclub”, beh, di “club” hanno ben poco; in più, ti dirò, sono proprio le differenze tra un posto e l’altro a rendere il deejaying un’attività interessante.
Preferisci suonare in un club come main act di una serata o ti piace la sfida di essere un nome fra tanti all’interno di, diciamo, un grande festival o una serata particolare?
Io preferisco suonare per la “mia” gente. Provare ad adeguarsi all’idea che altre persone hanno di te o comunque di un evento musicale complesso e del modo in cui tu ti ci inserisci, beh, è molto meno interessante. E se non posso suonare per la “mia” gente, spero almeno siano persone che sono appassionate di musica per davvero.
Ci siamo incontrati a Milano un paio di mesi fa – non ero lì come giornalista, stavo accompagnando Jon Hopkins, anche se in teoria avrei dovuto anche ritagliami per mezz’ora il ruolo giornalistico proprio per intervistarti, gli accordi tra promoter e management erano questi. Non se ne fece nulla, mi dicesti che non ne sapevi nulla e mi chiedesti se per favore potevamo soprassedere. Ovviamente non c’era problema. Ora però che questa intervista la stiamo finalmente facendo non posso non chiederti: qual è il tuo rapporto con la stampa? Quanto ti piace, o non sopporti, la routine delle interviste?
Sarò onesto: non mi piace tanto. Sono veramente pochi i giornalisti musicali in gamba, e il processo di dover correggere – in modo gentile – le convinzioni che si è fatto chi ti sta di fronte e crede di aver capito tutto della tua musica ti assicuro che può essere frustrante, così come noioso: perché poi scopri che troppe volte le tue interviste sono riportate male, passano attraverso i pregiudizi dell’intervistatore e da essi sono filtrate.
Ok, è ora di ammettere un po’ di invidie: quali sono gli artisti che avresti fortissimamente voluto mettere sotto contratto per la Border Community senza però riuscirci perché altre etichette sono state più veloci, più fortunate o più ricche?
No guarda: il problema non si pone, perché noi come etichetta proprio non ragioniamo in questi termini.
Stai già lavorando ad un nuovo album? Se così è, che tipo di evoluzione ci sarà rispetto a “The Inheritors”, sarà graduale ed incrementale o sarà un cambiamento netto e radicale rispetto a quanto fatto con quell’album? Anche perché secondo me inizierai ormai ad essere stufo a rispondere su domande sul kraut rock, che con “The Inheritors” sono state immancabili…
Non c’è un grande lavoro preventivo, non ci sono decisioni prese a tavolino prima di iniziare a lavorare: si parte, si sperimenta, si vede quel che succede. Però immagino che l’aver suonato così tanto con altri musicisti come mi è successo negli ultimi anni sia qualcosa che mi ha cambiato per davvero, e in modo irreversibile, quindi sì, non mi sorprenderei se il mio nuovo materiale fosse un po’ diverso da quanto prodotto finora.
English version:
Within a line up that shines bright in richness and quality, as the one of Electron Festival, James Holden sure is one of the most precious gems. His productions speak for theriselves, just as his dj sets do: always imaginative, never tied to the flavour-of-the-month, very personal, very recognisable. Talent is needed, for sure, and James has got plenty of it; but personality is needed as well, and this interview we had with him a few days before his set at the Swiss festival well displays how he’s not suffering any lack of it. Answers are affable, but sharp and trenchant at the same time.
How would you describe, in a few words, the switch from producing in a studio to being in a dj booth? Do you keep the same “musical mindset”, or are you forced to think differently about what to do and how to do it? Obviously not talking about the mere technics, though – I mean the attitude, even the taste.
Probably the DJing does inform the production – eg my DJ Kicks → The Inheritors. Working out how the disparate musics I like fit together as a cohesive aesthetic helps to work out ‘a sound’ in production.
It’s more than 15 years that you’re in the electronic music business. How did you survive all the trends? Have you ever felt out of place, at a certain time, or surpassed?
I’ve always felt out of place, but probably the worst time was when we were the centre of attention. I’m much happier being under the radar, playing to the people who really like it, than being in the middle of hype: popularity attracts the inadequate betas who make copy-records, and less interesting crowds.
What are the records that you were playing in year 2004 and that now, ten years later, still inevitably move the crowd, physically and/or emotionally?
Mainline – Innerspace, The MFA’s The Difference it Makes, Omid 16b’s The Game and bits of old Plastikman.
And what are the Border Community releases that you’re proud of the most?
I think time (and artists’ decisions after releases) shine a light on how valid their records were in the first place, how honest they were being. So, with a few unfortunate exceptions, we’re proud of most of it.
You’ve expressed a few times some slightly severe opinions about the “minimal” era we’ve lived (or survived) in some recent years. Obviously the problem were not the gifted producers delivering some great minimal techno stuff, but the cheap copycats flowing around (…loads of, definitely). Point is, how was it possible that such a music, basically so experimental in itself and its roots, has become so popular and – forgive the word – so commercial for so many years?
A few weeks ago in the park my dog found some discarded meat under a tree. Since then, every day he runs up to that tree to see if it has borne more meaty fruit. People are no different, except weaker, greedier and less likeable than my dog.
What are your favourite clubs where to play as a dj? Do you notice any particular difference from state to state, or has club culture given birth to properly global attitude and approach?
Proper clubs. Low ceilings, good sound, no fuss. I think global homogeneity would be a bad thing – those ‘global superclub’ type places aren’t real clubs, and differences between places make DJing more interesting.
Do you feel more confortable to dj in a club as the proper main act or in a festival as one of the many headliners on the bill?
I prefer playing to my people, rather than trying to fit into someone else’s idea of what music goes together, or playing to dilettantes.
We met in Milan a few months ago – had dinner together, I was with Jon Hopkins – and I almost interviewed you (we didn’t make it at the end, as you weren’t advised by the management in advace – definitely fair enough!). How’s your relationship with the media and with the interviewing routine?
To be honest, i don’t particularly enjoy it. There are very few good journalists in music, and the process of gently correcting the false assumptions of someone who thinks they really understand you is both tedious and frustrating, as too often your answers are filtered back through the misunderstanding and written out wrong.
Ok, it’s envy time: who are the artists that you would have loved to sign for Border Community, but other labels were faster, luckier or richer?
We’re not that sort of label, that’s not how we work.
Are already working on a new album? If so, would it be a logical progression of “The Inheritors” or is it time for something consistently different? Guess you’re tired of answering kraut rock questions and issues…
It’s not thought out beforehand: we’ll see when I start experimenting. But I guess playing live and the collaborations with other musicians I’ve done in the last year have irreversibly changed me, so it’ll be in some way different.