“Majenta” è un disco esagonale, inimitabile, quasi indecifrabile. La cosa più difficile è capirne il messaggio di fondo, vedere se c’è un filo rosso che collega i pezzi o se, forse, esiste uno scopo finale preciso, anche microscopico. Una linea che abbia un senso estraneo all’emozione che si prova ascoltando, una stella cometa. Mmm, non credo.
“Majenta” rappresenta tutta la capacità di Jimmy Edgar (e della label che lo produce, la Hotflush) di guardare, capire e assimilare e poi, sostanzialmente, eliminare tutto. Per ripartire da zero, solo Jimmy e il suo talento. Non me ne vogliano i nostri eroi, che nemmeno cito perché li conoscete tutti, ma questa si che è farina del proprio sacco. Proverò a spendere qualche aggettivo in ordine sparso per provare, non dico a definire quet’opera – ripeto, opera – ma almeno ad inquadrarla in un immaginario fatto di pensieri e parole (d’altronde scrivere è il mio dovere qui su Soundwall): personale, intimo, vibrante, gassoso, ribelle, dissetante, folle e scontroso sono i primi che mi vengono in mente. Scrivo ciò mentre “Let Yrself Be” – bellissima – sale, scende, riavvolge e si ripete: la traccia più house di un disco sostanzialmente libero da qualunque devozione è una lezione di stile al 99% dei producers che si aggirano nei meandri della nostra amata musica elettronica con fare sempre più furtivo. “Sex Drive” invece è dubstep cibernetica di quella grassa, quasi cattiva. Non sai se ti piace ma sta li, l’ha fatta Jimmy con le sue manine. Non la puoi scartare. La senti e riparti, anche se non è zucchero filato, anche se è dura come pane secco. “Indigo Mechanix” è l’uso perfetto di voci infantili e adulte (molto, molto meschine), occhiali da sole e champagne andato a male. Camicia bianca e riga da una parte, jeans strappati e sandali da frate di quelli brutti. Ma brutti! “Indigo Mechanix” è così.
Proseguo con “In Deep”, tributo (e se lo fosse davvero?) ai primi Massive Attack, somiglia ad un’antica voglia di stupire, come un salto nel buio dove comunque sai muoverti alla perfezione. In due parole direi che “In Deep” è modernità vintage.
In quest’album sorprendentemente innovativo l’unico salto nell’oscurità della musica techno avviene con “Heartkey”, ma la cassa in 4/4 dell’inizio non deve trarre in inganno perché voci kraftwerkiane, sconquassi elettronici e orchestre immaginarie sono nascoste proprio lì dietro l’angolo, fra un vecchio ventilatore e la scatola del mixer. Un dito di polvere, polvere di stelle.