Il leggendario regista si dedica ormai a tempo pieno alla sua parallela attività musicale. L’uscita di “Halloween: Original Motion Picture Soundtrack” è l’occasione giusta per recuperare una delle poche, lunghe interviste concesse alla stampa italiana negli ultimi anni. A proposito di synth-rock e cinema, inconscio e paura. Brividi.
Se pensate ai temi più terrorizzanti lungo gli spartiti dell’orrore, tra il Bernand Herrmann di “Psycho”, i Goblin di “Profondo rosso” e “Suspiria”, la Wendy Carlos di “Arancia meccanica” e “Shining” (nel cerchio dei pionieri in fatto di synth), non può assolutamente mancare John Carpenter, magari con il suo “tormentone” per antonomasia, “Halloween Theme”: una semplice, affilata melodia al pianoforte che si insinua, prepotentemente, nel cervello. Un tema ripreso lo scorso anno anche dalla devota accoppiata dark-oro Trent Reznor & Atticus Ross, tra l’altro in procinto di essere stampato in vinile dalla stessa etichetta del cineasta americano, Sacred Bones, entro fine mese.
Dal 1974 del suo esordio alla regia, con la fantascienza umoristica di “Dark Star”, ne è passata di (torbida) acqua sotto i ponti. Da allora Carpenter ha impresso nella storia e nell’immaginario collettivo gli scontri cruenti di “Distretto 13 – Le brigate della morte” oppure personaggi come l’antieroe Plissken di “1997: Fuga da New York” (e “Fuga da Los Angeles”), ha spaventato gli spettatori con “Fog” e il remake del “Villaggio dei dannati”, ha portato sul grande schermo “Christine – La macchina infernale” di Stephen King e si è ispirato a H. P. Lovecraft per “Il seme della follia”, ha impiegato gli alieni per la sua visionaria visione dei rapporti umani e sociopolitici in capolavori come “La Cosa” ed “Essi vivono”, ha proseguito le sue più recenti pellicole in minacciosa compagnia di “Vampires” e “Fantasmi da Marte”.
A quarant’anni esatti dall’uscita di “Halloween – La notte delle streghe”, il terzo film per il cinema diretto da Carpenter, quest’ultimo si vede coinvolto come autore della colonna sonora – oltre che come produttore esecutivo e consulente creativo – della nuova pellicola della saga dedicata al serial killer mascherato Michael Myers, nelle sale italiane dal 25 ottobre con la regia di David Gordon Green, che fa così staffetta con Rob Zombie, e il ritorno dell’attrice-icona Jamie Lee Curtis. È da oltre trent’anni che Carpenter non aveva più niente a che fare con il franchise da lui generato, né dietro la macchina da presa né altrove.
Nell’efficace “Halloween: Original Motion Picture Soundtrack”, cofirmato con il figlio Cody Carpenter e il figlio acquisito Daniel Davies in quello che è ormai a tutti gli effetti un trio, il mitico “Halloween Theme” è stato reinterpretato e modernizzato, così come gli altri episodi in scaletta, accompagnati persino da composizioni del tutto inedite. Si tratta in pratica del quarto album realizzato durante la seconda vita artistica di Carpenter, quella spesa esclusivamente nei panni del musicista, dell’autore di dischi all’occasione slegati dalla funzione di coadiuvare opere di celluloide, contenenti materiale, ovviamente strumentale e cupissimo, scritto ai giorni nostri: stiamo parlando dell’eccellente “Lost Themes” del 2015 e del comunque più che apprezzabile “Lost Themes II” del 2016, trainato addirittura da un tour mondiale dall’attitudine rock, con una formazione allargata che si riunirà per le prossime date previste tra Europa e Stati Uniti.
Nel 2017, senza un attimo di tregua, Carpenter aveva poi pensato di ri-registrare, al solito con la sua band, alcune delle composizioni che lo hanno reso famoso grossomodo dalla metà degli anni 70 in poi, rinvigorendole: accadeva in “Anthology: Movie Themes 1974-1998″. Il regista ha d’altronde sempre curato in prima persona, salvo rare eccezioni, le colonne sonore dei suoi girati. The Master of Horror, insomma, in immagini e suoni. L’operazione pare dunque estendersi nella versione 2018 di “Halloween”, anticipata dall’estratto “The Shape Return”, sostanzialmente un omaggio alla soundtrack originale, all’epoca rivoluzionaria nell’uso do it yourself dei sinterizzatori. A parte gli immancabili synth, in prevalenza analogici e modulari, qui ci sono note di piano e mellotron, chitarre suonate con l’archetto o effettate con vari pedali. Cosa ha detto il diretto interessato, splendido settantenne, al riguardo? “È stato grandioso. Era un qualcosa in trasformazione. Non si trattava di un film diretto da me, quindi ho avuto molta libertà nel creare la colonna sonora ed entrare nella testa del regista. Sono orgoglioso di essermi messo al servizio della visione di David Gordon Green”.
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Durante la nostra conversazione telefonica, avvenuta per la promozione di “Lost Themes II” ma tuttora attuale, il film-maker americano parla con fare conciso, ma spontaneo e interattivo. Soprattutto, divertendosi un casino. Quando il tuo cognome è declinato addirittura come un aggettivo, resta poco da aggiungere: “carpenteriano”.
Per il tuo primo disco, “Lost Themes”, hai dichiarato: “Penso a questo album come a una colonna sonora per i film che avete nella vostra mente”. L’anno dopo, “Lost Themes II” è stata la tua seconda raccolta di musica non concepita né utilizzata come soundtrack vera e propria, bensì “aperta” e priva di qualsivoglia tipo di funzionalità. Nel frattempo, è cambiato qualcosa?
Lo scopo è esattamente lo stesso: una colonna sonora per i film che l’ascoltatore ha nella sua testa. Ritengo che questo sia l’aspetto più importante di tutti, perché ciascuno di noi ha qualcosa che scalcia dentro di sé, che cerca di uscire. Quindi tutto questo è per voi. La modalità in cui abbiamo registrato, invece, è mutata: ai tempi di “Lost Themes” mio figlio Cody era in Giappone, quindi abbiamo dovuto comporre e suonare a distanza, ma la seconda volta ci siamo ritrovati nello stesso luogo e nello stesso momento. Ne deriva che “Lost Themes II” sia un po’ più organico, più scorrevole.
Tutto nasce sempre dalle jam session?
È assolutamente corretto.
Bene, ma se questa musica non è collegata a delle immagini, da dove proviene, dall’inconscio?
Sì, dall’inconscio, da qualche parte situata nel profondo. Probabilmente alcuni dei miei “temi” derivano dagli ascolti che posso aver captato nei film o altrove, ma sono ignaro delle loro origini. Abbiamo provato a mantenere tutto a un livello inconsapevole.
Hai anche affermato che fare musica è più rilassante che fare film, dato che nel secondo caso ci sono molte più variabili da controllare. Se l’album di debutto è arrivato a sorpresa, con “Lost Themes II” c’erano però delle aspettative…
Sai, per me fare “Lost Themes II” è stato di nuovo molto più facile che fare un film, per un buon numero di motivi. Lo stress di portare a termine un film è enorme e non mi diverto per niente nel sostenerlo, ma mi diverto a fare musica perché è un processo puro e diretto. E perché non ci sono gli attori: sì, gli attori sono fantastici e li amo, ma è più semplice senza di loro…
Paragonando i due dischi, direi forse che il secondo volume è più rock.
Credo tu abbia ragione, sono d’accordo.
Li vedi indipendenti l’uno dall’altro o come capitoli di una stessa saga?
In generale, direi che fanno parte della stessa saga: la descrizione funziona. Non posso stabilire quali siano le divergenze precise fra i due album perché non riesco a metterle a fuoco, ma si tratta comunque di due lavori differenti l’uno dall’altro.
Cosa significano per te musica classica e rock? In quale percentuale occupano il tuo cuore?
È una domanda complessa (ride, NdI). Mio padre era un professore di musica classica, quindi sono cresciuto con essa e corrisponde senz’altro a una parte della mia esistenza. Quando sono diventato più grande e sono entrato nel mondo dei film e delle colonne sonore, questo background è stato importante. Ma poi, mentre diventavo ancora più grande, mi sono interessato al rock’n’roll, che è diventato straordinariamente rilevante. Tutto ciò guida quello che sto facendo.
Nel 1979 dirigesti “Elvis”, un film biografico per la televisione che ti permise tra l’altro di conoscere Kurt Russell. Scegliesti tu il soggetto o fu una coincidenza?
Beh, il lavoro mi fu offerto. All’epoca ero un giovane uomo e desideravo davvero una carriera nel cinema, così accettai subito ma ho sempre amato Elvis Presley, sono sempre stato un suo fan.
Tuo padre era appunto un insegnante di musica, quindi iniziasti presto a suonare il violino spostandoti successivamente a pianoforte e chitarra. Non è che la carriera di regista è stata una sorta di ribellione a casa?
Yeah, ahahah, il mio primo amore è stato il cinema: sapevo che avrei voluto fare il regista sin da piccolo. Il mio problema con il violino era che non avevo talento. Quando ero giovane, ho militato anche in un gruppo r’n’r ma non avevamo futuro perché eravamo come qualsiasi altro. Decisi di provare con i film: ho imparato cosa servisse per realizzarli veramente e ho dedicato la mia vita a questo obiettivo.
Adesso puoi contare sui tuoi figli, Cody e Daniel Davies, a dare una mano fra tastiere e chitarre. È una specie di affare di famiglia? Proprio tu, che hai terrorizzato il pubblico per così tanti anni, adesso fai musica tranquillamente fra le mura domestiche: chi l’avrebbe mai detto!
È vero (ride, NdI). È fantastico, amo farlo e va bene con la mia età. Intendo, sono anziano ormai ed è giusto dedicarsi a qualcos’altro.
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Guardando ancora al passato, come scattò la passione per la tua arma di elezione, il sintetizzatore?
Scattò per curiosità, per interesse verso la popular music. Il sintetizzatore iniziò a essere usato proprio quando ero giovane, prima i Beatles suonavano il mellotron. Mentre frequentavo la scuola di cinema, il synth cominciò a essere chiaramente un’alternativa economica rispetto alle colonne sonore tradizionali perché non avevamo soldi. Gli studio fornivano al massimo dei low budget, quindi dovevamo fare musica da soli nel modo più veloce ed economico possibile. Suonare le tastiere partì come una necessità, perché era possibile risultare imperiosi o tragici al pari di un’orchestra reale, soltanto che si trattava di un’orchestra digitale.
Il tuo percorso è stato del resto contraddistinto da grandi traguardi raggiunti con pochi mezzi a disposizione. Puoi essere considerato una sorta di punk del synth?
Non lo so (ride di gusto, NdI). Se dici così, va bene.
Sei celebre per i tuoi sintetizzatori vintage, ma da un po’ di tempo hai abbracciato anche le sonorità digitali. Cosa pensi, dall’altro lato, dei cambiamenti nelle modalità di fruizione? La perdita di rilevanza dei supporti, in fondo, ha investito tanto la musica quanto la cinematografia…
È strano, è come se il music business non esistesse più. Ero abituato ad andare nei negozi a comprare dischi, cioè degli oggetti da collezione, ma adesso tutto è andato a finire nel player del computer: francamente, non lo capisco. La gente guarda i film sul telefono, così come ascolta la musica sul telefono: “please, stop” (lo ripete più volte ridendo, NdI). Perché alla gente non frega più nulla della qualità. Tutto è cambiato: negli anni 50 nasceva il cinemascope per fuggire dalla televisione, attualmente al contrario siamo ritornati a uno schermo piccolo piccolo. È assurdo.
L’avvicinamento alla tecnologia è confermato dalla storica passione per i videogiochi, uno dei tuoi hobby assieme ai fumetti (dal 2013 Carpenter ha creato e supervisionato varie serie, NdI).
Oh, sì, adoro giocare con i videogame e un giorno mi piacerebbe fare addirittura una colonna sonora per uno di essi. Sono sempre stato un tipico quattordicenne, amavo tutta la roba del caso: i film, il r’n’r, i videogiochi, le ragazze…
L’attenzione per la modernità è emersa anche con “Lost Themes Remixed” (2015, NdI), dove Prurient, Zola Jesus, Blanck Mass e altri rimaneggiavano brani del tuo primo album. Ci sono nuovi musicisti che apprezzi particolarmente?
Sì, ora c’è tanta musica disponibile e trovo sia incredibile. Mi piacciono tutti i tipi di elettronica, anche se non sono appassionato di trap perché la trovo troppo fredda.
La tua musica continua a influenzare molti artisti, direttamente o meno: dagli Zombie Zombie, che hanno inciso un omaggio in tuo nome, ad avanguardisti come Oneohtrix Point Never. Come valuti chi segue le tue orme?
Lo lascio stabilire agli altri.
I titoli dei tuoi pezzi sono cupi e perentori: in “Lost Themes” c’erano “Vortex”, “Mystery”, “Abyss” e “Night”, in “Lost Themes II” ci sono “Hofner Dawn”, “Windy Death” e finanche “Bela Lugosi”. È voluto o è semplicemente il tuo immaginario?
Beh, non prendo i titoli troppo sul serio (ride, NdI). Non che sia importante, ma hai notato che nel primo disco i titoli erano composti da una parola e nel secondo da due?
Sì, l’ho notato, ma pensavo di essere matta a farlo presente…
No, non sei matta, è la verità! È solo un modo per spassarmela.
Ne devo dedurre che nel prossimo album i titoli saranno formati da tre termini?
Forse sì, è quello a cui sto pensando.
Continuando a giocare con le parole, dammi la tua definizione di “incubo”.
Ho scoperto nel corso degli anni che tutti noi siamo spaventati dalle stesse cose. Credo che ciò che la razza umana condivide siano proprio le paure. Nasciamo spaventati dagli estranei vestiti di nero che ci fanno piangere. Abbiamo paura del buio, a volte della luce. La mia idea di incubo coincide con la tua: magari le specificità saranno diverse, ma le generalità sono identiche.
Oggi che l’orrore è quanto mai concreto, l’horror resta una delle chiavi migliori per raccontare la contemporaneità e denunciarne le implicazioni sociali?
Beh, tutto torna al concetto di storia. Se racconti una storia, che abbia o non abbia risvolti sociali, può esistere nella sua semplicità, non deve essere per forza complicata. Le persone, però, non sempre amano troppa cupezza: quello che ho imparato nella mia carriera è che devi mostrare loro una parvenza di speranza. Un paio di volte ho commesso l’errore di realizzare film senza speranza (ride, NdI)…
Parlando di cinema, chi a tuo avviso sta rinnovando il genere horror/sci-fi? Un genere che offre infinite soluzioni, ma è uno dei più difficili da affrontare bene. Il mio sospetto è che ci sia stata una generazione troppo brava nel raccontare certe strane cose come specchio della nostra realtà: oltre a te, penso a Cronenberg o Romero. Sguardi al contempo così forti e autoriali sono più che rari…
Tutto sta cambiando con rapidità, presumibilmente per via di computer, social media, Internet… Ci sono molte possibilità di evoluzione, ma la maggioranza degli autori odierni è superficiale e non altrettanto avventurosa. Qualche nome valido c’è – David Fincher, per esempio, mi piace molto – ma sono costretto a convenire con te. Quando guardavo pellicole negli anni 60/70, c’era un sacco di sperimentazione sul piano sia narrativo sia filmico, un aspetto che oggigiorno riscontro occasionalmente. Direi però che ci sono parecchi documentari validi e coraggiosi, che i progressi stanno dunque continuando ad avvenire prevalentemente in quel campo.
Nessun film che ti ha colpito?
Sì, ce ne sono un paio. Anni fa “Lasciami entrare” ha reinventato l’universo dei vampiri conferendogli un feeling inedito. Parlo del lungometraggio svedese (di Tomas Alfredson, dall’omonimo romanzo di Lindqvist, NdI), non del remake americano.
Hai detto più volte che il lavoro che preferisci fra i tanti che hai diretto è “La Cosa”, e anche il mio per quel che conta. Sei tuttora della medesima opinione?
Sì, la penso ancora così. Per me è in ogni caso arduo esprimere giudizi, anche perché se riguardo i miei vecchi film non tutto è una gioia…
È bizzarro perché “La Cosa” è l’unico film per cui non hai firmato pure la colonna sonora.
Sì, ma lavorai con Ennio Morricone: andiamo, su! Fu un’esperienza brillante.
Sono trascorsi molti anni dal tuo ultimo film, “The Ward”: altri progetti?
Ho alcuni progetti per dei film televisivi, ma ora come ora non ho preoccupazioni. Mi sto godendo la vecchiaia, ogni singolo giorno senza stress. Non voglio tornare allo stile di vita tipico del girare film. Non so come sia la situazione in Italia, ma il modo in cui vengono realizzati i film è oltretutto più difficile rispetto a un tempo, anche perché se ne producono tanti. Ho provato a divertirmi in un’altra maniera: un giorno ho iniziato a improvvisare musica con mio figlio e la faccenda è cresciuta… Non posso chiedere di meglio.
Tu sei una leggenda non solo per i film ma anche perché hai contribuito a definire il concetto stesso di cosa sia una soundtrack horror, con i Goblin e altri. Ecco, le vecchie colonne sonore sono tornate di moda, come mai?
Sono una leggenda per essere pigro, ecco perché sono una leggenda. Ho sempre amato i Goblin e i film di Dario Argento, che è un mio amico. È grandioso che queste colonne sonore siano improvvisamente riscoperte, ma non ho nessun indizio del motivo. Secondo te?
Non lo so, forse perché alla gente serve tempo per apprezzare ciò che ha valore?
È un modo carino di vedere le cose.
E quali sono le colonne sonore che ti hanno segnato come ascoltatore?
Ce ne sono tante, è problematico sceglierle… Amo le colonne sonore classiche, così come quelle moderne. Amo l’opera di Bernard Herrmann, Hans Zimmer…
Oltre a tanto materiale “dark & strange”, l’etichetta che pubblica i tuoi dischi, Sacred Bones, ha in catalogo un altro illustre regista, David Lynch…
Roba “dark & strange”, giusto (ride, NdI). Sacred Bones vanta parecchi artisti rivoluzionari e intriganti. Per quanto riguarda il mio amico David: non ho ascoltato molto i suoi dischi (sono due, sinora, gli album da solista, NdI), ma con lui è “prendere o lasciare”. Concluderei dicendo che tutta la musica è bella, come tutte le donne sono belle.
Proseguirai nella strada della musica?
Vedremo, sì, mi piacerebbe. Bisogna vivere alla giornata, lasciare stare il domani alla sua solitudine. Come dicevano i Beatles, “Tomorrow Never Knows”.
(intervista apparsa in origine su “Il Mucchio Selvaggio” n. 742)