Abbiamo avuto l’occasione di incontrare il produttore e dj leccese Jolly Mare nella cornice di Manifesto Festival, un buon posto per ascoltare i suoni che sono il frutto della creatività e della curiosità italiane ma anche per approfondire alcuni temi legati alla musica contemporanea (il talk pubblico che ci ha visto coinvolti direttamente e che ha messo faccia a faccia Daniele Baldelli e proprio Jolly Mare su passato, presente e futuro del clubbing). Le parole di Fabrizio Martina – è questo il suo nome di battesimo – sono ricche di spunti e, nel parlare del suo primo LP, “Mechanics”, viene fuori la precisa intenzione di non essere accomunato ad alcun autore italiano degli anni ‘70-’80. E’ un artista dei suoni prima di tutto, Jolly Mare, con una visione precisa sul qui e ora della musica, seppur con lo sguardo già altrove, alla prossima tappa di un percorso sempre in divenire. Il suo disco fresco di stampa ribadisce la sua personale attitudine musicale, fatta di groove e di emozione. E se non sapete cos’è il groove, leggete pure la bellissima definizione che ci ha dato qui sotto Jolly Mare in persona!
“Mechanics” rappresenta un modo nuovo di fare la canzone italiana. I suoi elementi non sono un ammiccamento furbetto ai nostalgici di un suono che fu quanto piuttosto il frutto della tua sensibilità artistica. C’è la tua anima in questo disco, ed è per tutti.
Questo è proprio il fine ultimo della musica, per come la concepisco io. Mi piace pensare che un brano bello possa essere amato sia da chi fa questo di mestiere, come me, che dal vicino di casa. Una canzone bella deve arrivare a tutti. Lasciamo perdere le tracce da club, che possono anche essere orecchiabili per via del motivetto ma che sostanzialmente sono pensate per un contesto diverso, però ad esempio “Hotel Riviera” e “Universe of Geometry” mi piaceva che fossero delle canzoni per tutti, ma questo non vuol dire scendere a compromessi, ma piuttosto avere una propria idea musicale e renderla comprensibile.
Mi interessa questo discorso perché il pop oggi viene visto da molti come uno spauracchio. Si tende a dimenticare la canzone popolare per vocazione, quella dei nostri anni ‘70 e ‘80 per esempio, viene confusa con quella “commerciale” di adesso, costruita a tavolino.
Ci siamo così assuefatti al suono commerciale di oggi che non riusciamo più a ricordarci che invece il pop era una musica, per come veniva concepita nel nostro paese ma anche in tutti gli altri paesi del mondo 30 o 40 anni fa, fatta con il cuore, con passione, con dei suoni buoni e cercando di metterci dentro la propria personalità. Raggiungere il successo discografico non era una priorità. Se tu vuoi raggiungere un obiettivo attraverso la musica stai già perdendo di vista la cosa più importante cioè la musica stessa, stai facendo marketing. A me interessa esporre un’idea non fare marketing! Voglio raccontare una storia che mi piace, cercando di mantenere alto l’interesse dell’ascoltatore, senza inutili divagazioni.
Questo racconto del quale mi parli è evidente nell’ascolto di “Mechanics”. Nulla è lasciato al caso e c’è un equilibrio tra gli elementi anche quando questi sono molto diversi tra loro. Immagino che dietro ci sia un lavoro molto lungo e impegnativo.
Già solo il solo fatto che sei riuscito a capire che c’è voluto del tempo per arrivare a questo risultato mi fa molto piacere. Oggigiorno far passare del tempo significa anche perdere l’attenzione del pubblico, mi sono voluto prendere il rischio di far passare il tempo necessario. Poi, posso dirti che riascoltando oggi il disco cambierei molte cose, ma credo che sia normale. Ho cercato di fare tutto al meglio con le possibilità che avevo, registrando con perizia tutti gli strumenti e mixando in analogico, ma ad un certo punto bisogna accontentarsi di quello che in un determinato momento si è capaci di fare. Per me conta far arrivare all’ascoltatore il mio stato emotivo del momento. Sono una persona in costante evoluzione, non credo nel cosiddetto disco della vita. Ho fatto il meglio che potevo utilizzando il tempo necessario. Ho prodotto 100 demo che poi sono diventate 20, poi 15 ed alla fine le 11 che sono finite sul disco. Non ho posto limiti alla musica, né ho cercato di proporre un genere preciso. Per me esiste la musica che mi piace e quella che non mi piace, non c’è altro. Anziché essere individuabile per un genere, mi piacerebbe essere riconosciuto per un gusto.
A proposito di gusto, parlami dei tuoi “lifting”. Come ti è venuta l’idea di mettere mano a grandi classici della musica e come fai a essere così equilibrato nel tocco eppure sempre riconoscibile?
Il lifting è una sorta di restauro sonoro. Cerco di aggiungere quello che con la tecnologia dell’epoca non si poteva fare. Quindi lavoro sugli alti, sui bassi, ad esempio un tempo con il vinile non si poteva andare sotto certe frequenze, la cassa grossa come quella di oggi non c’era. Oggi abbiamo imparato a farlo ma con dei metodi diversi. I mezzi dell’epoca ti imponevano di lavorare in quel modo ed i musicisti si adeguavano. Anche perché erano diverse le esigenze. Allora la musica ti guidava più con la mente che con il corpo, adesso la gente ha bisogno di fisicità nella musica, di un ritmo sempre presente che spinge e spinge. Se c’è una canzone che mi piace tantissimo ma non ha una sezione ritmica ben definita non riesco a proporla in modo efficace, ed è così che ho pensato al lifting. Non può essere definito un “edit” perché lascio la struttura del pezzo inalterata. Voglio preservare la forma della canzone, intro – ritornello – brake e così via, quindi vado a variare il minimo possibile, aggiungendo giusto quello che mi serve. Prendi ad esempio “A Me Me Piace ‘O Blues” di Pino Daniele, ma che cosa devi cambiare su un pezzo così? C’è pochissimo da fare, bisogna entrare in punta di piedi. Probabilmente se senti il mio lifting dalle casse del laptop non si sente nemmeno la differenza con l’originale, è con i buoni impianti che te ne accorgi.
Gilles Peterson ha inserito “Hotel Riviera” nel palinsesto di “BBC Radio 1” e sei fresco di contratto discografico con la “Bastard Jazz” di New York. Questi sono solo due fatti di una storia che parte da molto più lontano. Vogliamo dire che sono soddisfazioni ma non è il cuore della faccenda? Certa esterofilia italiana fa solo male.
Assolutamente! Infatti tanti italiani mi hanno suonato prima di Gilles Peterson. Queste cose sinceramente non le comprendo, come anche reputo del tutto fuorvianti certi paragoni che si fanno con la mia musica. Quando cerchi di approcciarti alla canzone italiana e vengono puntualmente tirati in ballo artisti come Lucio Battisti, Mina, Loredana Bertè, Matia Bazar, Ivan Graziani, Franco Califano solo per citarne solo alcuni… ok c’è tutto questo dentro la mia musica, però c’è tutto questo e altro ancora messo insieme. Se stai mettendo dentro la tua musica tutte queste influenze non stai più emulando qualcuno ma facendo qualcosa di originale. Premesso che io sono lusingato ad essere paragonato a questi grandi artisti, vorrei avere l’1% del talento anche solo di uno di loro, ma preferirei sentire che mi rifaccio alla canzone italiana e basta, senza citare di volta in volta qualcuno. Non c’è arte senza ispirazione. L’emulazione è nei confronti di un artista, l’ispirazione può essere riferita a moltissimi artisti e la differenza è sostanziale.
Jolly Mare e i negozi di dischi. Quanto ti piace andare in giro a cercare i suoni giusti che possano ispirarti?
E’ una cosa che faccio sa sempre! Soprattutto quando non avevo né il tempo di suonare e né quello per produrre, mi sfogavo andavo a cercare dei dischi. Però è una cosa che mi piace fare in delle situazioni in cui non lo fa nessuno, per esempio nelle fiere dei vinili mi passa la voglia, perché vedo che lo fanno tutti. Per me rimane una cosa molto intima, romantica, la folla non mi piace. Poi non compro mai online, anche a costo di non avere dei grandi dischi, cerco sempre di trovarli andando in giro. E’ una cosa che per me è una componente fondamentale. E’ come per uno scrittore il fatto di leggere libri, quanti più dischi si ascoltano tanto più si colgono soluzioni e si affina il gusto. Tutti i suoni che sono nel mia musica, in maniera più o meno cosciente, li ho ascoltati da qualche parte e mi stupisco quando poi riascolto dei dischi che avevo consumato magari 10 anni fa e ci ritrovo quell’assolo con lo stesso timbro che ho usato io. Il mio modo di fare musica è questo, come entrare in uno stanzone dove ci sono tutti i suoni e gli strumenti del mondo, li scelgo in assoluta libertà senza voler cercare per forza un’estetica particolare. Nel mio disco c’è libertà totale e le influenze provengono da centinaia e migliaia di ascolti.
Mi è molto piaciuta una tua dichiarazione su “Mechanics”, circa l’era del digitale che stiamo vivendo, che secondo te ha generato una certa confusione tra il concetto di ritmo e quello di groove. Riguarda sostanzialmente il fatto che l’album è tutto suonato, vero? Zero campionamenti, e si sente.
Sì, l’album è tutto suonato e anche quando c’è il suono della macchina questo è doppiato dal musicista dal vivo. Non immagini quanto tempo ho speso per cercare di capire cosa fosse il groove, nessuno riesce bene a spiegarlo, neanche un musicista o almeno io non ho mai incontrato musicisti che sapessero spiegare in modo chiaro cosa fosse. Avendo studiato ingegneria ed in particolare la meccanica, mi sono fatto un’idea personale di groove. Quando si studia la meccanica si affronta prima di tutto la “statica” dove tutte le velocità e le accelerazioni sono pari a zero, poi si passa alla “cinematica” che è quella dove si studiano i meccanismi a velocità costanti, vale a dire che hai un meccanismo all’interno del quale non ci sono le forze e lo studi per vedere come reagisce. C’è sostanzialmente il vuoto ed è tutto molto schematico. Se poi vengono applicate anche le forze, quindi le inerzie e gli attriti, ed ecco che si crea il groove. Mi piace pensare che sia l’irregolarità nella regolarità della cinematica. E’ il pendolo che arrivato a fine corsa si ferma un attimo prima di tornare indietro, è la ruota eccentrica che ad ogni angolo ha un’accelerazione differente. Il groove ha a che fare con la materia, è tutto questo.
Ecco quindi spiegato il titolo dell’album.
Certo, il titolo dell’album viene fuori da questa riflessione e dalla sfera dell’emozione e dei sentimenti che ci gravita attorno. Di per sé il groove riesce a comunicare, è fisicità e anche se un ritmo non ha delle note al suo interno, riesce ad arrivarti in una maniera incomprensibile, parlando ad un tuo stato personale. Poi c’è lo stato emozionale, che invece viene richiamato dalle armonie, dalle voci. Questi due elementi, come se fossero una dimensione orizzontale e una verticale, quindi groove e le emozioni entrano in risonanza e danno forma alla mia musica.
Come esce fuori un pezzo come “Hotel Riviera” impreziosito dalla voce di una splendida Lucia Manca?
La canzone non aveva un obbiettivo preciso, inizialmente era un pezzo strumentale, peraltro nemmeno completo, c’era solo la parte centrale della strofa. Però, come accaduto anche per altri brano del disco, ho sentito che era un vestito adatto ad una modella o un modello e quindi ho pensato a Lucia, sentivo che quella musica poteva andare bene per lei. E’ una cantante bravissima che avevo avuto occasione di apprezzare dal vivo in diverse occasioni. La canzone l’abbiamo completata e registrata più di anno fa, ho voluto che lei fosse presente anche durante la stesura del testo, proprio come un sarto che ha bisogno di prendere le giuste misure. Non so se si sente ma la cantiamo insieme, le nostre due voci sono su tutto il pezzo e cantiamo all’unisono, solo che la voce di Lucia è più acuta e quindi sta più in alto, io gli faccio da base, due timbri diversi che si completano. Io avevo tanta voglia di cantarla questa canzone perché la sentivo molto mia, parla di qualcosa che ho vissuto, volevo esserci ma non volevo stare in primo piano.
Consigliaci qualcosa da ascoltare, in assoluta libertà, senza badare al tempo oppure al genere.
Ascoltate “Radio Italia Anni ’60”. Sembra una risposta ironica ma non lo è, quando sono in macchina è una delle poche cose che riesco ad ascoltare.
Ti esibirai in occasione di “Manifesto Festival” e darai il cambio alla console ad un gigante che si chiama Daniele Baldelli. Mi racconti come sei entrato in contatto con la sua musica la prima volta?
Era la fine degli anni ’90 ed io ero un adolescente, cercavo musica da scaricare e venivano sempre fuori pezzi che nel titolo contenevano il termine “baia”. La “Baia Degli Angeli” era già una leggenda ma da ragazzino, quando su internet non si trovavano ancora tutte le risposte, non era facile collegare. Quando ho capito cosa c’era dietro quel termine misterioso ho scoperto anche Daniele e tutta la filosofia che c’è dietro la scelta di un pezzo. Mi ha influenzato tantissimo. Ora ti dico una cosa che credo di aver mai detto a nessuno prima d’ora, appena entrato nella Red Bull Music Academy mi chiesero di compilare un formulario con le mie influenze musicali. Ne scrissi più o meno 100 di nomi ed il primo della lista è stato Daniele Baldelli. Questo ti fa capire la mia emozione di oggi. Lui è l’esempio di come non bisogna avere un genere di riferimento ma piuttosto un’idea, un gusto personale.
Se non fossi stato musicista cosa avresti fatto?
Avrei voluto dipingere, o comunque fare arte, perché è una cosa che facevo anche quando ero ragazzino, stavo sempre a dipingere, tagliare, colorare, facevo i graffiti. Forse sono diventato un produttore proprio perché dipingevo. Passavo tanto tempo ad ascoltare musica mentre dipingevo. Adesso invece non riesco più ad ascoltare la musica perché faccio la mia.