Jon Hopkins è uno di quei musicisti impossibili da catalogare, perchè ha alle spalle esperienze estremamente variegate: ha iniziato suonando con Imogen Heap, ha collaborato con Brian Eno col quale ha anche coprodotto un album dei Coldplay, ha composto colonne sonore originali per film e molte sue tracce sono state scelte per altre colonne sonore di film o serie come Sex And The City e ha un live set, visto quest’anno a Milano in occasione di Elita Festival, estremamente emozionante.
Cercare di racchiudere in poche parole l’essenza del suo stile musicale, quindi, non è affatto facile, come non è affatto facile raccontare “Immunity”, il suo quarto album solista. Il motivo per cui risulta così difficile descrivere a parole la musica di Jon Hopkins è che è ricchissima di cura per i particolari, di idee e di contenuti che però, principalmente, fanno riferimento alla sfera emotiva e che quindi non sono sempre traducibili o esprimibili in una recensione. La verità è che probabilmente non ci sono parole per descrivere il modo in cui al buon Jon bastano pochi suoni, appena accennati, per creare stati d’animo complessi e articolati: dovete assistere personalmente alla magia di tracce come “Collider”, che su una base solo apparentemente ripetitiva appoggia un pad di una potenza spropositata, di quelli in grado di far commuovere anche i più insensibili, che poi diventa sempre più astratto e rarefatto fino a una pausa quasi eccessiva nella sua estaticità e a una ripartenza di quelle che a fine serata mandano in visibilio grandi e piccini.
Dovete assistere personalmente alla meraviglia di “Abandon Window”, in cui Hopkins si eleva al livello di grandissimi della musica “non protagonista” come Sakamoto o lo stesso Eno creando, col solo aiuto di un pad e pochi accordi di pianoforte, un’atmosfera malinconica nella quale ci si accorge di essere immersi solo a fine traccia, quando è come se ci si risvegliasse da una trance in cui eravamo finiti per gli ultimi cinque minuti, soprapensiero, altrove con la mente eppure presenti rispetto al pianoforte tranquillo e un po’ triste che a tratti ricorda il tema della colonna sonora di Lost (scritto da Michael Giacchino, altro grande mago delle colonne sonore).
Dovete vivere di persona il lungo viaggio di “Sun harmonics”, una mattinata estiva di relax e felicità, o il tepore di “Immunity”, la title track, che suona come un piumone e una cioccolata calda in un pomeriggio d’inverno, perchè non ci sono parole in grado di raccontarli.
E non è che non si riesca a raccontarli perchè non c’è niente da dire, tutt’altro: “Immunity” è un album che dice un sacco di cose, dietro il quale si percepisce, facendoci caso, il lavoro e il talento di un grandissimo musicista. Semplicemente, le cose che dice sono in un’altra lingua, la lingua che tutti riescono a capire ma solo i grandi artisti sanno parlare.