Juan Atkins e Moritz von Oswald che fanno un album insieme è, fatte le debite proporzioni, come un poema a quattro mani scritto da Dante e Petrarca; due figure leggendarie di quelle che il mondo si divide in “prima di loro” e “dopo di loro”, assieme, nella stessa opera? Un sogno, per certi versi, un incubo, per altri.
E se poi fosse brutto? E se fosse solo che hanno finito i soldi e hanno buttato fuori qualcosa così a caso, visto che tanto stravenderanno in ogni caso?
I dubbi sono quanto mai legittimi, visto che Maurizio negli ultimi tempi ha avuto ben altro a cui pensare, tipo riprendersi da un ictus, e che The Initiator di recente non è stato proprio molto prolifico, per cui non è affatto facile approcciarsi a un disco come “Borderland” in maniera del tutto libera da pregiudizi, in uno o nell’altro verso: farsi prendere dall’entusiasmo per una collaborazione tra due mostri sacri se mai ce ne sono stati è un rischio concreto almeno tanto quanto quello di essere eccessivamente scettici. L’ascolto del disco, poi, non aiuta, perché fomenta a tratti entrambi i sentimenti: se è vero che praticamente metà disco sono reedit di “Electric Garden” nemmeno troppo distanti tra loro e che nessuna delle tre versioni brilla per originalità e desta particolare interesse, è però innegabile che il resto dell’album sia esattamente come ci si aspetterebbe mettendo insieme l’idea di “musica di Juan Atkins” e quella di “musica di Moritz von Oswald”.
Ci sono tutti i temi di entrambi gli artisti, nella metà bella del disco: c’è la pulsione irrefrenabile verso il futuro, i robot e gli UFO e la sua dicotomia con il calore umano e tremendamente “black”, abbinamento che The Initiator per primo ha regalato al mondo e da cui poi sono derivati anni di techno, ma ci sono anche il rigore teutonico, il sound design cristallino e la sensazione di “scolpito nel granito” dei suoni di Maurizio, uniti alla sua inconfondibile sensibilità dub. In “Footprints”, ad esempio, i suoni sono cesellati a meraviglia come solo Maurizio sa fare, per cui ogni singolo frammento sonoro si incasella alla perfezione con tutti gli altri e occupa solo lo spazio necessario all’interno dello spettro acustico, niente di più e niente di meno, in modo che l’udito sia solleticato e sollazzato in ogni modo possibile, conscio e inconscio (e non l’ho ancora sentita su un impianto di grandi dimensioni: ho idea che sia una di quelle cose che ti scuotono dall’interno e ti rivoltano come un calzino), ma non è tutto: c’è anche quella sensazione di urgenza, di “macchine incombenti” marchio di fabbrica di Atkins.
Insomma, a sprazzi le due leggende ce la fanno, a fare quell’ “high tech jazz del futuro pulitissimo ma sporchissimo” in cui tutti speravamo, come in “Treehouse”, probabilmente la traccia migliore del lotto, ma c’era davvero bisogno di quei trentacinque minuti di “Electric Garden” in tutte le salse, nemmeno troppo diverse tra loro? Le due idee contrastanti con cui ci siamo avvicinati a quest’album, in definitiva, sono vere entrambe: quando ci si mettono, due pezzi da novanta come The Initiator e Maurizio sono ancora in grado di arrivare là dove nessuno è mai stato prima, ma succede solo per metà album, perchè l’altra metà è un riempitivo che non desterebbe alcuna attenzione se uscisse con un nome qualunque e che invece, con due autori così, fa male al cuore.
Che ce ne frega però, teniamoci la parte bella e, in ogni caso, indipendentemente da questo disco, continuiamo a voler bene incondizionatamente a Juan Atkins e Moritz von Oswald per come hanno cambiato il mondo in passato.